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Johann Wolfgang von Goethe - Werther (1774)
Traduzione dal tedesco di Riccardo Ceroni (1873)
Parte prima
Prefazione Parte seconda

WERTHER.




4 maggio, 1771.

Com’io sono lieto d’essere partito! Oh, amico mio, che cosa è mai il cuore dell’uomo! Abbandonarti, abbandonare un amico che tanto amo, un amico, dal quale io mi reputava inseparabile — ed esser lieto! E pure so che mi perdonerai. Non si direbbe che tutte l’altre mie conoscenze erano trascelte a disegno dal destino per torturare un cuore della mia tempra? La povera Eleonora! e nondimeno io sono innocente. Che colpa n’aveva io, se, mentre le capricciose attrattive di sua sorella mi procacciavano un piacevole trastullo, s’andò mano mano svolgendo in quel povero cuore una passione?

Ma pure sono io affatto innocente? Non ho io alimentato i suoi sentimenti? Non ho io mostrato di compiacermi delle sue ingenue espressioni, che ci facevano ridere in segreto, ma pur non erano ridicole, perchè le venivano dalla schietta natura? Non ho io... Ma che cosa è l’uomo, perchè egli possa querelarsi di sè stesso? , amico mio, voglio emendarmi, te ne fo promessa; voglio emendarmi, non voglio più rimasticare quel po’ di male che il destino ci manda com’io ho fatto sinora. Voglio godermi il presente; voglio che il passato sia passato per sempre. Certo, tu hai ragione, mio carissimo: assai meno acri sarebbero i dolori degli uomini, ov’essi — Dio sa perchè noi siamo fatti così! — non s’occupassero con tanta pertinacia di fantasia a risuscitare le reminiscenze dei corsi mali, anzi che sopportare con indifferenza uno sbiadito presente.

Fammi il piacere di dire a mia madre ch’io mi darò con tutta sollecitudine a sbrigare l’affar suo, e gliene scriverò quanto prima. Ho parlato con mia zia, e non ho trovato a gran pezza in lei la trista donna che si vorrebbe farla tra noi. Ell’è una donna vivace e ardente, dotata di eccellente cuore. Le dissi dei lamenti di mia madre intorno a quella porzione d’eredità, ch’ella si vide tolta da lei. Mi spiegò i suoi motivi, e mi disse le condizioni, alle quali ella sarebbe disposta a restituire ogni cosa, e più ancora che noi non domandiamo; — insomma, non voglio scrivere nulla per ora: di’ a mia madre che tutto andrà bene. Intanto anche questa meschina faccenda m’ha più e più convinto come le male intelligenze e l’indolenza finiscono, per avventura, a partorire più guai, in questo mondo, che non la scaltrezza e la malignità. Certo è che le due ultime cose sono assai più rare.

Del resto, io qui mi sto benissimo. La solitudine, in questi luoghi da paradiso, è un balsamo salutare al mio cuore; e questa giovinetta stagione mi rinfoca ad ora ad ora l’anima, che sovente è presa come dai brividi dell’inverno. Ogni albero, ogni siepe è una ghirlanda di fiori; vorrei quasi essere uno di codesti scarafaggi per poter tuffarmi a mia posta in questo pelago di fragranze — e cercarvi il mio alimento.

Quanto alla città, ella è per sè stessa disaggradevole; ma, all’incontro, che ineffabile bellezza ha sparso la natura ne’ suoi dintorni! Furono queste attrattive che indussero il conte di M*** a piantare il suo giardino sopra uno di questi colli, che con sì leggiadra varietà s’intrecciano e formano i più deliziosi valloncelli. Il giardino è semplice; tu senti, al primo entrarvi, che non era la scienza che presiedeva al suo disegno, ma sì un cuor tenero che qui voleva godere di sè stesso. Quante lagrime non ho io versate sulla memoria del trapassato, in quel cadente gabinetto, ch’era un giorno il suo luogo favorito, ed ora è il mio! Fra poco sarò io il padrone del giardino; il giardiniere m’è già affezionato, sebbene io non sia qui che da questi pochi giorni. Spero ch’ei non avrà a dolersene.


10 maggio.

Una meravigliosa serenità è venuta a posarsi sul mio cuore; — una serenità simile a queste soavi mattinate di primavera, ch’io vo godendo con estasi silenziosa. Io sono tutto solo e mi compiaccio della vita in luoghi, che la natura sembra aver creati per le anime come la mia. Mi sento così felice, sono così profondamente assorto nella voluttà della mia tranquilla esistenza, che l’arte mia ne scapita. Non potrei avventurare un tocco ora, non un segno — e pure non sono stato mai tanto pittore come oggi appunto! Quando dal grembo della valle si sprigionano i vapori, e il sole, già alto sull’orizzonte, si stende sovra la fitta oscurità del mio bosco, senza penetrarne le frondi, e qualche raggio appena si svia fin dentro nell’interno sacrario, ed io mi giaccio prosteso lungo il margine del rivo, e scerno più presso alla terra le migliaia d’erbe d’ogni forma; quand’io odo tra gli steli il vagito di tutto un picciolo mondo di moscerini e d’insetti, e in mezzo a questo fervore d’opere e di cose m’avveggo dell’arcana presenza dell’Onnipotente, che ci procreava a immagine sua, sento trascorrermi sul capo l’alito di quel Dio di bontà che regge i nostri passi e ci sostenta in mezzo a perenni delizie; — o amico mio, quando tutta questa scena mi ripercuote dentro, e le mie pupille si vestono come d’un amabile crepuscolo, e le meraviglie del mondo e del cielo scendono sull’anima mia come la cara sembianza di donna amata; — o amico, io mi domando allora con mesto desiderio: perchè non puoi tu esprimere tutto quello che ti si agita nel petto? perchè non puoi tu versare sulla carta la piena de’ tuoi affetti interni, sì ch’ella sia uno specchio dell’anima tua, come la tua anima è lo specchio dell’infinita divinità? — Oh, mio Guglielmo, che vale! È desiderio inutile: mi affatica le forze — e le spezza ad una ad una. I miei spiriti soggiacciono a tanta grandezza di cose!


12 maggio.

Non so se v’abbiano fantasmi, che vagano arcanamente per queste dilettose solitudini, e mi seducono l’immaginazione, o se la divina fantasia, che m’infiamma il cuore, spanda intorno a sè stessa i suoi colori e dia un’aria di paradiso a quanto mi circonda. Eccoti una fonte, che quasi per incantesimo mi tiene immobile sulla soglia delle sue freschissime acque, come i poeti narrano di Melusina e delle sue sorelle1. Tu scendi un breve poggio, e ti si para dinanzi un andito, che per venti scalini ti conduce a un luogo, dove le più limpide onde zampillano fuor del vivo della roccia. Il piccolo muro che gira intorno ad esse, gli alti alberi che le ombreggiano, la frescura del sito, tutto qui ha un non so che di magico e d’attraente. Non v’è giorno ch’io non venga a sedermi su queste verdi zolle e a trastullarmi un’ora almeno. E veggo le fanciulle che vengono dalla città ad attinger acqua — innocentissima faccenda, e la più necessaria tra tutte, che un dì esercitavano le figlie stesse dei re. E mi torna vivo al pensiero il mondo de’ patriarchi, e come tutti gli antichi padri stringessero le loro amicizie intorno alle fontane, e vi concertassero i loro connubii, e si reputava che le sorgenti e i pozzi fossero visitati dall’ala di benefici spiriti2. Oh, chi non ha avuto di cotali visioni, non si è mai dissetato ad una fonte, dopo una faticosa passeggiata fatta in mezzo agli ardori della state!


13 maggio.

Tu mi domandi se devi spedirmi i miei libri. No, mio caro, non lo fare, te ne scongiuro. Non voglio più essere guidato, ravvivato, infiammato da essi; c’è già troppa esca e troppo fuoco in questo cuore: ho bisogno più presto di nannodie che m’addormentino soavemente — e ne ho in abbondanza nel mio vecchio Omero. Quante volte i suoi canti non vengono ad ammorzarmi le vampe del sangue e stillare il balsamo della quiete nel cuore! questo cuore mutabilissimo, ineguale! Ah! non è mestieri ch’io tel dica, amico; tu che ne hai sopportato sì spesso il grave peso; tu che m’hai sì spesso veduto trascorrere dall’affanno alla gioia estrema, da una dolce melanconia alle più funeste passioni. Ho trattato questo mio cuore come un fanciullo malato — e lo tratto ancora — e gli fo buona ogni voglia. Non lo dire ad altri: v’ha una gente che me ne saprebbe assai male.


15 maggio.

La gente del villaggio ha già imparato a conoscermi e mi ama, soprattutto i fanciulli. Sulle prime, quand’io mi mescolai tra loro e mi feci a interrogarli or d’una cosa or dell’altra, e’ stimavano alcuni ch’io volessi pigliarmi spasso di loro, e mi risposero bruscamente. Ma io non mi smossi dal mio proposito per questo; sentii più addentro la verità, che già avevo notata, ed è, che gli uomini di una certa condizione si tengono sempre ad una fredda distanza dal popolo comune, come s’ei temessero di perdere non so che cosa, avvicinandosi ad esso: e v’hanno anche dei burloni di mal garbo e dei pazzi, i quali ostentano d’abbassarsi per far più sensibile al povero la loro insolenza.

Non già ch’io non sappia quant’altri che la natura non ci ha creati eguali in ogni punto, nè possiamo esserlo mai, ma sostengo che chiunque reputi necessario di scostarsi dalla così detta plebe, per conicliarsi il rispetto, merita lo stesso biasimo del codardo, che si nasconde agli occhi del suo nemico, per tema d’esserne ucciso.

M’avvenni ultimamente, alla fontana, in una giovine villanella, che avea deposto il suo secchio sugli ultimi scalini, e si guardava addietro a vedere se non giungesse la sua compagna a riporglielo sul capo. Io scendo, e la fisso in volto: Ch’io v’aiuti, ragazza? le dissi — ed ella a farsi tutta di porpora. O mio signore, rispose, la non s’incomodi! S’acconciò il cercine sul capo, ed io v’adagiai il secchio; ringraziò ella allora alla sua volta, e s’avviò su per la scala.


17 maggio.

Ho fatto qui ogni sorta di conoscenza, ma non ho ancora trovato società. Non so che cosa io m’abbia d’attraente per questi uomini; ma ei mi s’attaccano quasi tutti, e desiderano la mia compagnia, e a me poi duole, quando il cammino che facciamo insieme è breve. Se tu mi chiedi che razza di gente è codesta, ti risponderò che la è gente come tutta l’altra che incontri qua e là nella vita: la schiatta umana è una cosa uniforme. La maggior parte affacchina tutto il giorno a guadagnarsi il pane, e il po’ di libertà che le resta la tormenta a un modo, ch’ella studia ogni mezzo per tôrsi dal collo il molesto beneficio. Oh destino dell’umanità!

E pure la è una buona pasta di gente. Quand’io talvolta mi confondo con essi, e con essi divido le poche gioie che sono concesse all’uomo, sia ch’io mi segga a mensa con essi, con animo schietto e gioviale, sia che si faccia insieme una corsa, o di disegnino danze, le sensazione ch’io ne ritraggo mi fanno un bene infinito. Vero è che deggio intanto obliare come dentro di me dormano molte altre facoltà, che irrugginiscono tutte, per non essere esercitate, e che mi è forza occultare con ogni ingegno. E con che strazio del cuore! — Ma è destino di noi tutti d’essere scompresi.

Oh, perchè l’amica della mia giovinezza è andata? perchè l’ho io mai conosciuta? Sto per dire a me stesso: tu sei un pazzo, tu vai cercando ciò che quaggiù non può trovarsi. Ma e non l’ho io posseduta quella fortuna? non ho io sentito battere il suo cuore? il cuore di quella grande anima, al cospetto della quale io pareva a me stesso da più che realmente non ero, da che io era tutto ciò ch’io poteva essere. O mio Dio! v'era forse una sola potenza dell’anima mia che si rimanesse inerte? Non avevo io la gioia di poter versare dinanzi a lei tutta l’onda di quel maraviglioso sentimento, che mi fa abbracciare come in un solo amplesso tutta la natura? Non erano i nostri colloquii un perpetuo intreccio di delicati affetti e d’arguti scherzi, che dalla leggera beffa al motteggio serbavano in tutte le gradazioni loro l’impronta irrecusabile del genio? — Ed ora! — Ah! ella m’ha preceduto nel sepolcro, perchè s’era affrettata a precedermi nella vita. Io non la scorderò più, non scorderò fin ch’io viva quel suo forte sentire e quella sua celeste virtù della tolleranza.

M’incontrai, in questi giorni, in un giovane V***, uomo aperto, che ha una fisionomia delle più simpatiche. Ha finito or ora i suoi studii, e senza presumere d’essere saggio s’immagina nonostante d’aver più dottrina degli altri. L’applicazione non gli è mancata, a quanto m’accorgo, e in fondo non può negarsi ch’ei non possegga di belle cognizioni. Udendo ch’io so di greco e di disegno, due cose soprannaturali in questo paese, si rivolse a me, e venne sciorinandomi innanzi tutta la pompa della sua scienza, da Batteux a Wood, e da Piles a Winckelmann, assicurandomi ch’egli aveva letta tutta la prima parte delle teorie di Sulzer sulle arti belle, e avea, tra le sue proprietà, un manoscritto di Heyne intorno allo studio degli antichi3. Lasciai che sbaulasse tutta la sua erudizione — e mi tacqui.

E un altr’uomo eccellente ho imparato a conoscere, un uomo schietto e cordiale, il Sindaco. Dicesi che sia un vero amore il vederlo in mezzo a’ suoi figliuoli. Ne ha nove appunto, e della maggiore delle ragazze in ispecie si narrano mirabilia. M’ha invitato a visitarlo, e ci andrò uno di questi giorni. Egli abita in una delle ville che servono alle cacce del Principe, a un’ora e mezzo di cammino di qui, dov’egli ha avuto licenza di ritirarsi dopo la morte della moglie, perchè il soggiorno della città e gli ufficii del Municipio gli si erano fatti incresciosi.

Del resto, mi sono capitati tra’ piedi anche certi esseri, tra il bizzarro e il bislacco, in cui tutto è insopportabile, fin le loro cortesie, che sono più insopportabili d’ogni altra cosa.

Addio, amico mio, questa lettera t’andrà a’ versi, perchè è tutta storica da capo a fondo.


22 maggio.

Non hanno torto: la vita dell’uomo è un sogno; — e quest’idea, da che m’è entrata nel cervello, mi perseguita da per tutto. Quand’io guardo agli angusti confini, entro cui vivono imprigionate le potenze attive e speculative dell’uomo; quand’io veggo come ogni nostra operosità si stringe tutta a satollare soltanto i nostri bisogni, che alla lor volta non hanno altro scopo se non se di prolungare la nosta meschina esistenza; e penso che l’acquetarsi in certe morali questioni non è che la rassegnazione di chi sogna, e vede tappezzate le pareti del carcere di tinte e di prospettive e figure liete e piacevoli; quand’io considero tutto questo, o Guglielmo, le mie labbra ammutoliscono. Mi rifuggo allora dentro me stesso — e vi trovo tutto un mondo, un mondo pur troppo! assai più di presagi e d'oscure brame, che di viva e vera potenza e d’evidente struttura. Ed ecco i miei sensi nuotare in un oceano di cose; ed io sorrido — e continuo i miei sogni.

Professori e pedagoghi, tutti s’accordano in questo: che i fanciulli ignorano perchè ei vogliano una cosa. Ma che anche gli adulti vadano barcollando pel mondo, a guisa di fanciulli, e com’essi ignorino d’onde siano venuti e dove s’avviino, com’essi agiscano senza determinato intento, e siano governati dalle chicche e dai confetti e dalla ferula, ecco ciò che nessuno vuol aver l’aria di credere: — e parmi pur verità da toccarsi con mano.

Ti confesso — e indovino le tue obbiezioni — che felicissimi mi sembrano tra gli uomini coloro, che, ad imitazione dei fanciulli, vivono un dì per l’altro, inconsci a sè stessi, e vestono e svestono i loro fantocci di cenci, e se li strascicano dietro, e quando riesce loro d’accostarsi di straforo al cassetto dove la mamma ha riposto la focaccia, e v’hanno messo su l’unghia, e se la divorano a guance enfiate, gridano, pur divorando: Dell’altra! dell’altra! — Oh le beate creature! — E v’hanno altri, che decorano di fastosi nomi il loro abbietto affaccendarsi e le loro ingenerose passioni, e le buccinano opere gigantesche, intraprese per la salute e la prosperità dell’uman genere. E sono felici anche costoro! — E lo siano: buon pro lor faccia! — Ma chi, nella sua umiltà, ravvisa dove infine riescono i loro sforzi, e vede come ogni pulito cittadino sa trasformarsi l’orticello in paradiso, e come anche l’uomo sventurato si strascina senza lamento per la via, immemore del carico che lo grava, e tutti tutti sono cupidi della vita, e sudano a prolungare, foss’anco d’un solo minuto, la vista del luminare che ci pende sul capo — chi considera queste cose si tace, e viene architettando da sè il suo proprio mondo, felice anch’egli, perocchè anch’egli è uomo. Nè per limiti che lo angustino, gli scema nel cuore il dolce sentimento della libertà, e il pensiero che questo carcere ei può abbandonarlo ogni qual volta gli torni.


26 maggio.

Tu sai da un pezzo com’io soglia piantare, a così dire, le mie tende; com’io mi guardi dattorno a cercare la mia capannuccia in un luogo romito, e ci viva poi con tutta parsimonia. Però anche qui mi sono trovato il mio nido, un cantuccio di terra che m’ha dato nella cruna del genio.

Un’ora forse di cammino dalla città è un paesello, che chiamano Wahlheim4. La sua giacitura sul pendio d’un colle è amenìssima, e là dove comincia il sentiero che ti conduce alla falda, l’aspetto di tutta intiera la valle ti si presenta allo sguardo in modo veramente incantevole. Una onesta taverniera, a cui l’età non ha sfiorata la piacevolezza nè l’allegria, ti mesce vino, birra e caffè; ma ciò che più ti seduce ancora, sono due tigli, che coi loro fronzuti rami velano d’ombre la piazzetta che si stende innanzi la chiesa, sparsa dintorno di case rusticane e masserie e tettoie. Sito più tacito, più geniale di quello, non m’è occorso mai ch’io rammenti; e là mi trascinano il mio deschetto fuori dell’osteria, e la mia seggiola — ed io vo sorseggiando il mio caffè e leggo Omero. La prima volta, ch’io per caso capitai a que’ tigli — ed era nelle ore vespertine d’una bella giornata — il luogo era deserto. Tutti erano usciti ne’ campi: un solo ragazzo, di forse quattr’anni, stava seduto a terra, tenendosi as- siso tra le gambe un bambino di sei mesi all’incirca, a cui le proprie braccia e il petto faceano da seggiolone, e che ad onta della vivacità, colla quale ei s’andava guatando dattorno co’ suoi neri occhi, era compiutamente tranquillo. Quella vista mi dilettò; m’accomodai alla meglio su d’un aratro, ch’era dirimpetto ai due fanciulli, e presi a fare un rapido schizzo della fraterna scena. Era davvero il caso di dir con amore. V’aggiunsi qualche pruno della vicina siepe, una porta rustica e alcune ruote spezzate, una cosa dopo l’altra, siccome stavano in realtà, e in capo a un’ora il mio disegno era finito: e posso dir ch’era bello, senza ch’io vi avessi innestato un solo tocco del mio. E questo m’ha confermato nel mio proponimento di starmi, d’ora in poi, alla sola schietta natura. Sì, essa sola è inesauribilmente ricca; essa sola ha il segreto d’educare alla grandezza gli artisti.

Non che molto non si possa dire in favore delle regole; tutto quel tanto almeno che si può dire in lode della società umana. Un uomo che si modelli sovr’esse, non produrrà mai nulla d’insipido e di brutto, siccome un uomo, che s’informi alle leggi e alle convenienze del decoro, non riuscirà mai nè un vicino insopportabile, nè uno scellerato insigne. Pure, checchè si dica, le sole regole non faranno mai che distruggere il vero sentimento, la vera espressione della natura. La ti parrà sentenza un po’ troppo dura, e forse mi opponi che le regole imbrigliano a tempo, che le rimondano i tralci dal soverchio frascame, ed altre cose su questo andare. Oh amico mio, vuoi tu una similitudine? Gli è come nella faccenda dell’amore. Un giovine s’infiamma d’una fanciulla, passa tutte le ore del giorno al suo fianco, sperpera tutte le sue forze, tutto quello che possiede, per ricantarle ad ogni istante ch’egli è tutto per lei, che senza lei non può vivere. Capita allora uno di quegli uomini gravi che siedono in pubblico officio, una vera figura da medaglione, e brontola all’orecchio del giovinetto queste parole: «Sta bene, l’amare è cosa umana, ma bisogna saper amare da uomo. Dividete le ore vostre; queste pel lavoro, le altre per l’amore. Fate i calcoli del vostro patrimonio; ciò che i vostri bisogni vi lasciano di superfluo, spendetelo pure a far qualche regaluccio — non vi è inibito; ma i regali siano radi, qualche giorno onomastico, per esempio, qualche anniversario...» — E se il giovine è docile, e obbedisce, eccovi per l’avvenire un uomo utile e sodo, ed io consiglierei il principe a metterlo subito in un collegio; ma intanto l’amore se n’è ito, e s’egli è artista, è andata a rotoli anche l’arte.

Oh amici miei, perchè l’impetuosa fiumana del genio erompe sì rara dal vivo sasso, sì raro ingrossa e spumeggia, risonandovi nell’anima estasiata? Ah! sulle due sponde del torrente vegliano i pacati vostri signori, a cui sta a cuore di non vedere dispersi dalla furia dell’onde le proprie ville, e i verzieri, e le aiuole lussureggianti di tulipani — e fanno forza d’argini e scavano fosse, per tempo, a scongiurare la minaccia.


27 maggio.

Sono caduto, a quel che vedo, in declamazioni, in similitudini, in trasporti d’entusiasmo, e ho dimenticato intanto di terminare il racconto de’ due fanciulli. Stetti adunque seduto un paio d’ore sul mio aratro, abbandonandomi a tutta l’estasi di quel sentimento pittoresco, che il mio foglio d’ieri non ha descritto che a brani e frammenti. Ed ecco, verso sera, una giovine signora che corre incontro ai fanciulli — erano stati immobili sempre nel poetico atteggiamento — con un canestrello tra le mani, gridando da lontano: «Bravo Filippuccio, vedo che sei stato buono.» Appena mi scòrse, mi salutò: io le restituii il saluto, mi rizzai, me le feci da presso, e le chiesi s’ella fosse madre a quei fanciulli. Rispose affermando, e mentre porgeva al maggiore una mezza ciambella, rialzò da terra il più piccolo e lo baciò con tutta la tenerezza d’una madre. Indi, volgendosi a me: «Ho affidato al mio Filippuccio il suo fratellino, perchè non me lo lasciasse pericolare, e mi sono recata col figlio maggiore in città a far provvista di pan bianco e di zucchero, e a comperarmi un pentolino di terra per la pappa.» — Girai lo sguardo, e vidi tutte quelle cose nel canestrino, ch’era scoperchiato. — «Voglio allestir da cena al mio Giannetto — era il minore de’ figli — soggiunse ella. — Quel tristerello del mio maggiore m’ha mandato ieri in cocci il pentolino, nel litigare con Filippuccio per que’ pochi avanzaticci della pappa.» Le chiesi allora del figlio maggiore; ma ella non aveva ancor finito di dirmi com’egli stesse a baloccarsi sul prato colle oche, ch’io lo vidi venire verso di noi, saltellando, con una mazza di nocciuòlo in mano, ch’egli poi diede al secondogenito. Proseguimmo la nostra conversazione e venni a risapere che quella donna era la figlia del maestro del villaggio, e che il marito s’era partito per la Svizzera onde raccogliere l’eredità d’un suo zio. — «Si è tentato di spogliarnelo — diss’ella — ed hanno lasciate le sue lettere senza riscontro; allora ei s’è determinato a mettersi in viaggio per vedere le cose coi proprii occhi. Purchè non gli sia accaduta qualche disgrazia, chè non ho notizie di lui.» — Penai alquanto a distaccarmi da quella buona donna, diedi qualche soldo ai ragazzi, pregai la madre ad aggiungere un biscottino alla panata del suo bimbo, quand’ella riscendesse in città — e ci separammo.

Ti giuro, amico mio, che quando tutti i miei sensi sono sossopra, la vista d’una creatura come questa, che con serena mansuetudine passa, a guisa d’ombra, attraverso le noie d’una stentata esistenza, e allorchè le foglie cadono dagli alberi, si guarda dintorno, senz’altro presentimento che del vicino inverno; — sì, mio Guglielmo, quella vista basta ad acquetare il tumulto che mi corre fremendo nelle fibre.

Dal quel giorno io sono uscito sovente a visitare la famigliuola. I fanciulli si sono addomesticati con me; io distribuisco tra loro lo zucchero, quando piglio il caffè, e divido con essi il pane affiorato e la giuncata, che compongono la mia cena. Alle domeniche ei s’hanno i miei spiccioli; e s’io non ci sono, all’ora de’ vespri, l’ostessa ha ordine di regalarli a mio nome. A poco a poco abbiamo stretto amicizia, e mi si mostrano confidenti, e mi raccontano ogni sorta di cose. Ma ciò che sopra tutto mi diletta in essi, sono le loro piccole passioni, e quell’ingenuo sfogo con cui tradiscono i loro desidèri, quando fanno raunata cogli altri ragazzi del villaggio.

E m’è costato un bel che a persuadere la madre che i fanciulli non davano il minimo disturbo a quel signore, com’ella affannavasi a credere.


30 maggio.

Quand’io ti diceva, nell’ultima lettera, della pittura, può applicarsi altresì alla poesia. Tutto sta a ravvisare ciò che v’ha di più squisito nell’intima natura delle cose: saperlo ravvisare e saperlo esprimere. Capisco che è dire assai più che non paia. — Sono stato spettatore, oggi, d’una scena, che s’io la trascrivessi tal quale, ne uscirebbe uno de’ più graziosi idilli del mondo. Ma perchè parlare di poesia, di scena, d’idillio? E s’avrà dunque sempre a mettere queste carte in tavola, quando si voglia discorrere di manifestazioni che la natura ti porge co’ suoi schietti modi?

Non t’aspettare già, da quest’esordio, qualche cosa di prodigioso e di sublime: ti troveresti deluso. Non si tratta che d’un villanello, d’un famiglio: e tutta la vivezza del mio sentire, in questo momento, viene da lui. Forse, al solito, ti riuscirò pessimo narratore, e al solito, m’avrai per esagerato. Ed eccoti di nuovo in campo il mio Wahlheim, diventato ormai la sede di tutte le rarità.

C’era una brigatella, sotto ai tigli, che stava bevendo il caffè. Come la compagnia non mi garbava, misi fuori non so che pretesto per tenermi in disparte. Venne allora un contadinotto, che usciva da una delle vicine case, e cominciò a mettersi intorno all’aratro, ch’io aveva disegnato ne’ giorni addietro per assettarvi alcun che. Quell’aria sua m’andò subito a sangue, tanto che gli rivolsi la parola, m’informai de’ suoi fatti, e si fu presto amici e confidenti, come d’ordinario m’avviene con questa sorta di gente. Mi narrò com’ei si fosse acconciato per servo presso una vedova, e come quella donna lo trattasse amorevolmente. Parlò tanto di lei, ne venne dicendo tanto bene, ch’io non durai fatica a capire com’ei le fosse passionatamente devoto. Aggiunse ch’ella non era più sulla prima età, che il defunto marito l’aveva aspreggiata, e però sentiva certa repugnanza allo stato coniugale; e mentre s’andava infervorando, e dipingendola bella e seducente, lasciò intendere com’ei si sarebbe reputato felice, s’ella avesse voluto mettere gli occhi su di lui, per risarcirla dei torti ch’ella aveva patita da quel suo primo compagno della vita. Insomma, dovrei ripeterti ogni parola se volessi darti un’idea dell’ossequio, dell’amore, della passione di quest’uomo. Nè basterebbe; chè a dipingerti al vivo l’espressione de’ suoi gesti e l’armonia della sua voce e il fuoco occulto che gli scintillava nello sguardo, mi converrebbe possedere il prestigio de’ più sublimi poeti. No, nessun’arte mia varrebbe mai a renderti una perfetta immagine di quanto v’era di profondamente sentito in tutti i suoi modi, in tutta quanta la sua persona. Le mie parole riuscirebbero scolorate, s’io ne tentassi la prova.

Ma ciò, che sopra ogni cosa mi commosse l’animo, fu il timore ch’ei parea risentire d’avermi offerto una sinistra idea di quella donna, e ch’io dubitassi della condotta di lei e della purità tutt’insieme delle loro mutue relazioni. L’eloquenza con cui egli discorreva dell’oggetto amato, il delicato studio ch’egli poneva a farmi intendere come, sebbene le attrattive della gioventù più non la ornassero, ei si fosse perdutamente invaghito di lei, sono tocchi che mi vibrano tuttavia nell’intimo delle viscere, ma ch’io non ho potenza di pennelleggiare. In vita mia non m’è accaduto di vedere una passione più calda, accompagnata da maggior candore di sentimento. Dirò schiettamente: la mia fantasia non l’ha nè ideata, nè sognata mai. Non mi sgridare s’io ti confesso che lo spettacolo di tanta verità d’affetto e di tanta innocenza di costume mi perseguita, da quel giorno in poi, dovunque io sia, si confonde a tutti i miei pensieri, mi rinfiamma d’entusiasmo e d’amore — e sento io stesso in ogni fibra il veleno.

Ho fisso di vederla — e presto. Ma or che ci penso, sarà meglio cansarla. Assai meglio; perocchè io la veggo ora cogli occhi del suo innamorato. E forse ella non è quale il suo innamorato la dipinge — e allora... perchè mi guasterei la leggiadra immagine ch’è venuta ad affacciarsi al mio interno sguardo?


16 giugno.

E sei pure della prosapia dei dotti, e mi chiedi perchè io non ti scriva! Parmi che dovresti indurne ch’io sto bene, e che... insomma, ho fatto una conoscenza che mi tocca da vicino il cuore. Ho... non so davvero come incominciare.

Narrarti, verso per verso, com’io abbia fatto a stringere amicizia con una delle più amabili creature che mai abbiano vissuto, è impossibile. So ch’io sono lieto e felice — e sarei, in questi momenti, un povero scrittore di storie.

Un angelo, amico mio! — Ma che! l’è una parola, codesta, che ogni paltoniere ha sulle labbra e la consacra alla sua bella. In fede mia, ch’io non so raccapezzarti due frasi per dirti com’ella è avvenente — anzi perfetta — e perchè sia tale. In conclusione, io sono innamorato.

Se tu vedessi quale semplicità, e quale maturità di giudizio, ad un tempo! e che bontà accoppiata a fermezza di carattere! e quanta calma soave, in mezzo a tanta attività e tanta vita!

Sento che le sono scipitaggini quelle ch’io ti dico di lei — una cosa astratta, e non altro. Non c’è un tratto di lei, non un sol segno che la ritragga. Un’altra volta, adunque. — No, no, adesso — subito; stammi a udire. Chè s’io nol fo ora, nol farei più; perchè, a dir vero, da che ho dato mano alla penna, sono già stato due o tre volte in procinto di deporla, e farmi sellare il cavallo — e correr fuori. E avevo pur giurato a me stesso, stamane, di non uscire; e ad ogni istante, io sono lì alla finestra a misurar l’altezza del sole!

Non ho saputo resistere al mio demone; sono uscito — sono andato da lei. Ed eccomi solo un’altra volta, o Guglielmo: e ora godrò in silenzio la mia cena — e ti scriverò. Qual voluttà, per l’anima mia, il vederla nel mezzo dell’allegro circolo della sua famiglia! Otto persone, tra fratelli e sorelle, o mio Guglielmo.

Ma s’io continuo così, tu non ne saprai nulla. Aspetta... voglio provarmi a dirti ordinatamente ogni cosa.

Ti scrissi, ultimamente, com’io imparassi a conoscere il sindaco S***, e com’egli mi pregasse d’andarlo a visitare — e presto — nel suo romitaggio, anzi, a dir meglio, nel suo piccolo regno. Non mi curai allora dell’invito, nè ci sarei forse capitato mai, se un mero accidente non m’avesse scoperto agli occhi il tesoro che si giace nascosto in quella tacita solitudine.

I nostri giovani avevano concertato una festa da ballo in campagna, alla quale io avea di buon grado promesso la mia presenza. Offersi il braccio ad una di queste fanciulle, giovine belloccia e di buona indole, ma tutt’insieme indifferente; e si convenne ch’io noleggerei un carrozzino, e s’andrebbe con lei e colla cugina al luogo della festa, pigliando con noi, nel passare, la Carlotta S*** — «Ella farà la conoscenza d’una bella signorina» — disse la mia compagna, rivolgendosi a me, mentre si stava appunto attraversando la lunga foresta che conduce al casino da caccia. «Badi a non innamorarsene!» soggiunse tosto la cugina. — «E perchè?» — «Perchè la è già fidanzata — rispose — a un onest’uomo, ch’è partito per dar sesto a’ suoi affari, essendogli morto il padre, e cercarsi, allo stesso tempo, un impiego di qualche momento.» — Accolsi quella notizia con discreta noncuranza.

Mancava forse ancora un quarto d’ora al tramonto, allorquando si fu alla porta del casino. Era una giornata soffocante, e le signore mostrarono qualche apprensione d’un vicino temporale, cui sembravano minacciare certi nuvoli cupi, d’un grigio biancastro, che andavano accavallandosi all’orizzonte. Benchè cominciassi anch’io a presentire che la nostra festa avrebbe patito qualche brutto giuoco, dissimulai, e spacciandola da uomo che sa pronosticare del tempo, mi diedi a rinfrancarle.

Io era smontato, in quel mezzo; ed una fantesca ch’era venuta al portone, ci pregò d’aver pazienza per alcuni minuti che la signora Carlotta sarebbe tosto discesa. Traversai il cortile, salii le scale, ed eccoti, nell’aprir l’uscio, affacciarsi a’ miei sguardi uno degli spettacoli più seducenti ch’io m’abbia mai scòrti in vita mia. Ero nell’anticamera: sei fanciulletti, dai due agli undici anni, s’affaccendavano intorno ad una giovinetta di bella persona e di mezzana statura, che vestiva un abito bianco, semplicissimo con un nastro di color rosso pallido, al braccio e sul petto. Aveva tra le mani un pan bigio, e andava distribuendone in giro le fette a quei piccini, ognuno in ragione dell’età sua e dell’appetito, e v’era tanta grazia in quel porgere della giovinetta, ch’era un incanto. Intanto ciascuno de’ ragazzi strillava, alla sua volta, il suo Grazie! con tutta l’espressione della natura, dopo essere stato lungamente colle manine in alto, prima che gli toccasse la porzione; e se n’andava poscia, tutto contento, colla merenda in mano, incamminandosi chetamente, o a saltelloni, a seconda del carattere suo, verso la porta del cortile, per vedere i forestieri e la carrozza, in cui doveva assidersi la loro Carlotta.

«Mi perdoni — diss’ella — s’io le ho data la pena di salire le scale e ho fatto aspettare quelle signore. Le cure del vestirmi e i mille domestici affarucci, che m’è toccato di spicciare durante la mia assenza, m’hanno fatto obliare di distribuire la merenda a’ miei figliuoletti, ed essi non soffrono che altri al mondo faccia loro le parti fuori di me.» — Balbettai un complimento insignificante: l’anima mia era tutta piena della sua figura, del suo accento, del suo portamento celeste. Non m’era ancor riavuto dalla sorpresa, ch’ella corse nella vicina cameretta a pigliarsi i guanti e il ventaglio. I fanciulli, che ancor s’indugiavano, baloccando, m’andavano guardando sott’occhio a qualche distanza: io, allora, mi gittai sul più piccolo, ch’era un bimbo della più graziosa fisionomia. Ma ei si ritrasse un pochino, e in quel momento tornò la Carlotta, e visto l’atto gli disse: «Via, Gigietto, porgi la mano al cugino!» E il fanciullo obbedì tosto col miglior garbo possibile, tanto ch’io non seppi rattenermi dal baciarlo cordialissimamente, ad onta del suo nasuccio tutto stillante. Offersi indi il braccio alla giovinetta; e nel discendere: «Cugino, avete detto? — le chiesi — e credete voi davvero ch’io sarei degno della fortuna d’esservi parente?» — «Oh, il numero de’ nostri cugini è infinito — rispose ella con un fino sorriso — e mi dorrebbe ch’ella fosse il peggiore tra essi.» — E mentre s’avviava, fe’ cenno a Sofia, la maggiore della figliuolanza dopo di lei, ragazza di undici anni all’incirca, e le raccomandò che badasse a’ fanciulli, e salutasse il babbo, quando fosse tornato dalla sua corsa a cavallo. Agli altri disse d’obbedire in tutto la Sofia, come se la fosse lei; cosa che alcuni d’essi promisero subitamente. Se non che una biondinetta, di forse sei anni, più saputella degli altri, si mise tosto a gridare verso la Carlotta: «La Sofia non è la stessa cosa che te, Lolò, e noi non vogliamo altri che te.» — In quel mentre, i due maggiori tra i maschi s’erano arrampicati alla meglio sulla carrozza, e, dietro la mia intercessione, ottennero di venir con noi fino al bosco, purchè promettessero di non istuzzicarsi tra loro e di tenersi ben saldi.

Non ci eravamo quasi peranco adagiati, le signore non avevano peranco finito di salutarsi, di farsi le loro reciproche osservazioni intorno al vestito, e soprattutto ai cappellini, la compagnia che si aspettava era stata appena debitamente passata in rassegna, che la Carlotta ingiunse al vetturino di fermarsi, ed ai ragazzi di scendere. E questi chiesero un’altra volta di baciarle la mano; nel qual atto il maggiore mise tutta la tenerezza che avrìa potuto attagliarsi a un giovinotto di quindici anni, mentre l’altro vi corse con un fare impetuoso e stordito. Ebbero da lei altri saluti per i fratellini e le sorelline — e si proseguì la strada.

La cugina domandò allora a Carlotta s’ella non avesse terminata la lettura dell’ultimo libro che le avea mandato. «No — rispose ella — non mi va punto punto a genio: ch’io gliel rimandi? Anche il penultimo non valea gran fatto meglio.» — Però, avendole io chiesto che libri fossero, feci le meraviglie allorquando udii che si trattava di...5 C'era una prodigiosa sodezza in tutto quanto ella diceva; ogni suo verbo mi parea rivelare occulte grazie, e mano mano ch’ella esponeva le sue ragioni, e s’accorgea d’essere intesa da me, nuovi lampi le prorompevano dall’anima, e la sua faccia s’andava irradiando di gioia.

«Quand’io era più giovine — diss’ella — nessuna lettura mi recava più diletto de’ romanzi. Sa il cielo com’io era beata, quando, la domenica, mi riusciva d’accovacciarmi in un cantuccio, e là, con tutta l’anima affannata, seguiva passo passo le venture e i disastri di una miss Jenny. Non dissimulo che quel genere ha tuttavia per me qualche attrattiva; ma poichè ora m’accade di rado di poter leggere, voglio che almeno il libro sia pienamente di mio gusto. E per esser tale voglio trovarvi, scorrendolo, il mio mondo — un mondo, in cui le faccende camminino come nel mondo reale; voglio che la storia mi riesca interessante e cara come la mia vita domestica, che ben può non essere un paradiso, ma pure, alla fin fine, è per me una sorgente d’indicibile contentezza.»

A queste parole io mi sforzai, quanto m’era possibile, di celare i miei moti. Ma non durò lungo tempo; perchè avendola udita favellare con tanta verità del Vicario di Wakefield6, e dei romanzi di *** e di ***7, il mio proposito m’abbandonò, ed io sfogai il bisogno di dir tutto intero l’animo mio. Nè fu se non dopo alcuna pezza, allorchè Carlotta avea rivolto agli altri il suo dire, ch’io m’avvidi com’ei si fossero rimasti, tutto quel tempo, ad occhi spalancati, quasi avessero vissuto in un altro mondo. La cugina mi sogguardò più volte in modo ironico, ma io feci come se nulla fosse.

E ora il discorso venne a cadere sui piaceri della danza. «Se questa passione è un difetto — prese a dire Carlotta — io confesso di buon grado che non ho cosa al mondo che più mi sia cara della danza; e quando mi passa qual- che bruscolo pel capo, ed io corro al mio cembalo, e così tutto scordato com’è, suono alla meglio una contraddanza, mi rifò subito di buon umore.»

Oh come, ascoltandola, io mi deliziava in quei begli occhi neri! come quelle labbra, piene del soffio della vita, e quelle gote freschissime e vivaci, m’affascinavano l’anima! come l’intimo senso, la splendida verità d’ogni suo detto, mi riecheggiava nel profondo del cuore, sì che quasi rapito in altri cieli io sovente udiva la sua voce e sentiva, ad una ad una, tutte le immagini dentro di me, senza pur discernere le parole con cui quelle immagini mi s’insinuavano nel pensiero! — Tu mi conosci, o Guglielmo, e non durerai fatica a comprendermi. — Infine, amico, s’arrivò alla villa, ed io scesi dal legno, tutto trasognato, tutto ravvolto in un mondo di visioni, tanto che appena udii la musica che dalle sale illuminate ci risuonava festivamente incontro.

I due signori Audran, e un certo N. N. — chi mai può ritener tanti nomi? — ch’erano i ballerini della cugina e di Carlotta, ci ricevettero alla portiera, s’impossessarono delle loro donne, ed io condussi la mia.

Si ballava un minuetto. Io invitai, una dopo l’altra, tutte le signore astanti, e notai ch’erano appunto le più sgraziate tra esse che si ricusavano di venire a compiere le figure. Carlotta e il suo ballerino diedero principio ad una danza inglese: inutile descriverti la mia gioia nel vederla entrare a coppia con noi. Se tu la vedessi ballare! Ti dirò io che tutta la sua persona è una sola armonia? ch’ella s’abbandona alla danza con tutte quante le sue potenza dell’anima e le sue fibre? che, in quell’istante, ella non ha più memorie, nè pensiero, nè cure, e tutto il creato sembra dissiparsi intorno a lei?

La richiesi della seconda contraddanza. Mi promise la terza, e mi disse, colla più amabile ingenuità, ch’ella sentiva un infinito piacere per le danze patrie. «La moda di qui — proseguì ella — vuole che ogni coppia, nei walzer, rimanga tal quale s’è formata al principiare della festa. Ora, il mio cavaliere non sa ballare gran fatto il walzer, ed io sono certa ch’ei m’avrà grado se gliene risparmio la fatica. La vostra ballerina non è in miglior condizione di lui. Ma io vi ho veduto nella danza inglese, e ho potuto scorgere che ballate bene il walzer. Se, dunque, avete questa voglia di danzar meco, facciamo una cosa: voi andrete dal mio compagno, io dalla vostra, e li pregheremo di fare un reciproca cessione.» — Detto fatto: io offersi la mano a Carlotta, e si convenne, che intanto i due cessionari s’intratterrebbero tra loro.

La danza incominciò: noi ci divertimmo, in sulle prime, a intrecciare in mille foggie le nostre braccia. Che leggerezza di moti, amico, che incanto in quelle membra! Si venne finalmente al walzer; ma quando le coppie si diedero a girare attorno, come fossero stati altrettanti globi roteanti nello spazio, i più tra i danzatori non avendo scienza, la faccenda cominciò a balenare, e si fece un’amenissima confusione. Noi, zitti allora; lasciammo che la bufera si sbizzarrisse, e quando i più mal destri tra loro ebbero sgombrato il campo, noi su, e via in giro, insieme ad un’altra coppia — Audran e la sua ballerina — i soli padroni dell’arringo. Ti giuro che non mi sono mai sentito tanto leggero; non mi parea più d’essere abitatore di questa terra. Aver tra le braccia la più vezzosa tra le umane creature, e volare con essa intorno alla sala come due nembi, tanto che ogni cosa era sparita davanti! Oh mio Guglielmo, è da smarrirne i sensi. Ma da quell’ora in poi feci sacramento a me stesso che una fanciulla ch’io avessi amata, e sulla quale avessi qualche diritto, non danzerebbe con altri il walzer che con me, s’io pur dovessi versare tutto il mio sangue. E tu intendi, amico, il perchè.

Si fe’ ancora due o tre giri, passeggiando per prender lena, indi ella s’assise, e i pochi aranci che avevo tuttavia in serbo, vennero stupendamente a proposito per mitigare l’arsura. Solo che ogni spicchio, ch’ella regalava per complimento a un’indiscreta vicina, m’era una spina nel cuore.

Alla terza danza inglese fummo la seconda coppia. Nel traversare da un canto all’altro la sala, mentre sa Iddio con che voluttà tutta celeste io stringeva il suo braccio e mi beava ne’ suoi sguardi, pregni di castissimo gaudio, c’incontriamo in una signora, che già mi si era affacciata in quella sera, e per non so qual aria piacevole, diffusa sovra un volto che non potea più vantare la freschezza della gioventù, m’avea dato un cotal po’ nell’occhio. Guardò sorridendo Carlotta, appena ci vide, e sollevando in atto di minaccia il dito, proferì, nel passare dinanzi a noi, due volte il nome di un Alberto con misterioso accento.

«E chi è codesto Alberto — chiesi allora a Carlotta — se la domanda non è troppo in ardita?» — Ella stava già in procinto di rispondermi, allorchè fu forza separarci per formare una nuova figura: nel riaccostarmi a lei, per incrociare, mi parve di scorgere una lieve nube attraversarle la fronte. — «Sì, e perchè io ve l’occulterei? — mi disse ella, porgendomi la mano per passeggiare — Alberto è un onest’uomo, a cui sono mezza promessa.» — Che vuoi! la notizia non m’era nuova, poichè ti sovverrà come già me l’avessero detto per via le due ragazze, e pure, non so perchè, ripetuta dalle sue labbra mi riusciva pienamente tale. Non mi parea vero che la cosa si riferisse a lei, che in sì brevi istanti m’era diventata sì cara! La mia mente s’oscurò, si confuse: infine, capitai balordamente in mezzo ad un’altra coppia, e misi tutto a soqquadro; nè ci volle meno di tutta la presenza di spirito della Carlotta, e del suo tirarmi per l’abito e trascinarmi a sè, per riassestare le cose.

La danza non era finita ancora, che i lampi, che noi avevamo già veduti balenare da un pezzo all’orizzonte, ed io avea sempre dichiarati effetti di semplice calore, cominciarono a spesseggiare, e il tuono presto coperse le armonie della musica. Diedero il segnale dello scandalo tre signore, uscendo in fretta fuori di fila, seguite dai loro cavalieri; e allora il parapiglia si fe’ generale, e l’orchestra si tacque. Ho notato, che, allorquando una sventura, o qualche cosa di sinistro, ci sorprende a un tratto, in mezzo ai nostri piaceri, le impressioni che ne riceviamo sono più gagliarde che in altri istanti, parte a cagione del contrasto, che ci fa sentire più vivamente le transizioni, parte ancor più, perchè i nostri sensi, essendo già tutti dischiusi alle percezioni esterne, ogni impressione viene a comunicarsi ad essi con rapidità assai maggiore.

Attribuisco a siffatti motivi le strane facce ch’io vidi fare, in quest’occasione, da parecchie donne. La più prudente andò a sedere in un angolo colle spalle rivolte alla finestra, turandosi entrambe le orecchie. Un’altra s’inginocchiò dinanzi a quella prima, e si nascose il capo nel di lei grembo. Una terza venne insinuandosi fra le due, e s’aggrappò, piangendo dirottamente, al collo della sorella. Alcune meditavano d’andarsene; altre, che sapevano ancor meno quello che si facessero, non avevano serbato tanta forza d’animo da opporsi alle frascherie de’ nostri giovani storditi, intentissimi, a quanto sembrava, a raccogliere sulle labbra delle belle tremanti le affannose preghiere ch’esse indirizzavano al cielo. Taluni fra gl’invitati erano scesi a fumare pacatamente la loro pipa; e il resto della società, nell’udir la locandiera metter fuori l’idea d’allestirci una stanza, che avesse imposte e cortine, subito accettò la savia esibizione.

Non prima fummo istallati nel nuovo asilo, che Carlotta diè mano a ordinare tutte le seggiole in giro, e pregati gli astanti d’assidersi, fece la proposizione d’intavolare un giuoco di pegni. Scòrsi allora più d’uno, che nella speranza di buscarsi qualche saporita penitenza, già si facea correre l’acquolina alla bocca, e l’aguzzava, e dimenava ogni membro. — «Giocheremo a contare — diss’ella. — Attenti bene! io percorro il circolo da destra a manca, e conto dall’uno al mille; ciascuno deve ripetere, alla sua volta, il numero che gli tocca, e s’ha da andare come una palla da schioppo: chi esita o falla, si piglia un ceffone.» — Avessi visto, amico mio, che graziosa commedia! Ella cominciò a camminare in giro, colla mano levata e pronta. «Uno!» — E il vicino «due!» e l’altro «tre!» — e via di seguito. Poi il numerare si fece di più in più rapido, finchè uno sbagliò — allora paffete! una ceffatina! e gli altri a ridere — e, nel ridere, nuovi falli e però nuove busse.

In mezzo allo spasso toccarono a me pure due ganascioni, e mi parve d’accorgermi, con infinito piacere, ch’ei fossero più sonori che la non solea distribuire agli altri. Una risata e un tafferuglio universale posero termine al trastullo, prima che si finisse di contare il numero prestabilito. Si fecero allora dei capannelli tra i più intimi della brigata: il temporale era passato, ed io tenni dietro a Carlotta che si restituì nella sala. Nell’avviarci, «le ceffate — mi disse — hanno fatto dimenticare alla compagnia e lampi e tuoni e mal tempo.» — Non seppi che replicare. — «Io era una delle più sbigottite — proseguì ella; — ma nell’ostentare coraggio, per infonderne agli altri, ho finito per cacciar via la paura.»

Ci affacciammo alla finestra. Tuonava ancora debolmente, in lontananza, e intanto una magnifica pioggia si precipitava, scrosciando, sulla campagna, e impregnava l’aria infocata de’ più freschi profumi, i quali salivano deliziosissimi infino a noi. Ella appoggiavasi sul suo gomito: la sua pupilla nuotava intorno intorno: guardò a vicenda il cielo e me — aveva una lagrima nell’occhio — indi pose la sua mano sulla mia, e bisbigliò il nome di Klopstock. Mi corse tosto alla memoria la splendida Ode, che in quel momento le vagava nell’idea, e il torrente delle sensazioni che allora la invase, mi trascinò nell’onda sua. Non resistetti: mi chinai sulla sua mano, e la baciai, in mezzo a uno scoppio di lagrime, piene di mesta dolcezza — poi gli occhi miei tornarono a fissarsi nei suoi. — Oh, nobile ingegno, perchè non hai tu potuto mirare la tua apoteosi in quello sguardo! E or faccia Iddio ch’io più non oda pronunciare il tuo nome, sì sovente profanato dalla moltitudine8!


19 giugno.

Dov’io mi sia rimasto, l’ultima volta, nel mio racconto, non saprei dire; so ch’erano le due dopo mezzanotte, quando m’andai a coricare, e che s’io avessi potuto chiacchierare, invece di scrivere, t’avrei forse tenuto in piedi fino a mattina.

Non t’ho narrato ancora quello che avvenne all’uscire dal ballo, tornando a casa; nè oggi è giorno che s’addica.

Era il più bel levare del sole che mai si vedesse; gli alberi della foresta stillavano silenziosamente dalle loro frondi la recente piova, e i prati e i campi erano tutta una frescura. Le nostre compagne caddero in un sonnellino. Ella mi chiese s’io non volessi imitarle, che, per parte sua, io non dovea farmi soggezione alcuna. «Finchè vedrò aperti quegli occhi — io risposi, fissandola intentamente — non c’è pericolo.» — E si stette svegli entrambi fino alla porta della sua villa, quando la fante scese, e aprendo con riguardo, rispose alle interrogazioni di Carlotta come il padre e i fanciulli stessero bene e fossero ancor tutti a dormire. Nel separarci io la pregai che mi permettesse di venirle a far visita quel giorno stesso.

Accondiscese — ed io ci andai. Da quel tempo in poi il sole, la luna e le stelle possono tranquillamente attendere alle faccende loro: quanto a me, non so più quando sia giorno, nè quando notte. L’universo s’è dileguato intorno a me.


21 giugno.

Io vivo giorni così felici come appena Dio li concede a’ suoi santi; e ora avvenga che può, non mi lagnerò di non aver goduto le più pure gioie, le emozioni più care della vita.

Tu conosci il mio Wahlheim: quivi sono per ora i miei Penati. Di là non ho che una mezz’ora di cammino per andare da Carlotta; e una volta presso di lei, sono felice — felice di tutta quanta la felicità che può esser data a un mortale.

Oh! s’io m’immaginava, nello scegliere Wahlheim a riposo delle mie passeggiate, ch’era luogo sì presso al cielo! Quante volte non ho io veduto, nelle mie peregrinazioni, il casino da caccia che oggi racchiude tutti i miei desidèri! veduto ora dal monte — ora dalla pianura di là dal fiume!

Oh mio Guglielmo! ho più volte ripensato a questa cosa dell’uomo che si chiama desiderio — brama affannosa di allargarsi, d’estendersi, di correre intorno, di far nuove scoperte. E all’altro istinto, ad un tempo, che ti fa rassegnato a vivere dentro gli angusti confini dell’esser tuo — a lasciarti andare lungo il pendìo delle abitudini, senza guardarti a diritta od a manca.

Strana cosa! come tutto intorno a me parea sedurmi i sensi, quand’io, dalla collina, mandava nella valle i miei sguardi! «Quel boschetto — io mi diceva — oh, potessi io sedermi all’ombra sua! O contemplare, dalla cima di quel monte, tutta la scena che si stende dintorno! la campagna, e i poggi che si stringono quasi ad amplesso, e le domestiche vallate! Oh, potessi io gettarmi in mezzo ad essi — e confondermi coi loro atomi!» — Io v’andai premuroso e ne rivenni; ma non aveva trovato ciò ch’io cercava.

Avviene della lontananza quel che dell’avvenire. Un immenso vortice di vapori si leva davanti all’anima nostra, e i nostri occhi e le nostre sensazioni vi si tuffano dentro, e noi saremmo pronti, in quel momento, a sagrificare noi stessi, e dar tutta l’esistenza per la voluttà d’un solo sentimento generoso e sublime. Ma quando abbiamo toccato la meta, quando ciò ch’era lontano ci sta da presso — ah! ogni cosa torna quella di prima, ed eccoci un’altra volta nella nostra miseria, nella nostra inanità — e l’anima assetata vola sull’orme del fuggito piacere — e boccheggia!

Così il più irrequieto tra gli uomini vagabondi dalla patria riviene un giorno a’ suoi focolari, e trova nella sua capanna, al seno della consorte, nella compagnia de’ suoi figli, nelle sollecitudini pel loro sostentamento, la contentezza dell’animo ch’egli aveva indarno cercata ad altri climi.

Quand’io esco, la mattina, al far dell’alba, e vo pellegrino al mio Wahlheim, a cogliere piselli nel giardino della locanda, e mi sdraio sull’erba, e me li vo sbaccellando, tra un libro e l’altro del padre Omero; quand’io corro all’armadio a scegliermi il mio vasellino, e piglio il burro, e seggo ad ammannire al fuoco i piselli còlti, e a quando a quando li dimeno perchè non mi si abbrucino — allora intendo la pittura degli insolenti drudi di Penelope, infervorati a macellar porci e buoi ed a scuoiarli e arrostirli. Nulla mi riempie tanto di profondo sentire il cuore, e di quiete emozioni, come i tratti della vita patriarcale, ch’io, grazie al cielo, so rannestare senza affettazione al mio tenore di vita.

E ho caro a pensare che l’anima mia sente ancora la schietta e innocente gioia dell’uomo, che imbandisce alla sua mensa il cavolo che le sue mani hanno educato. E non solo il cavolo gli è ben venuto sul desco, ma ei ripensa con amore al bel mattino in cui piantavalo, alle tacite sere in cui l’innaffiava, ai soli che lo maturarono, al piacere ch’ei provava nel vederlo crescere ogni giorno. E or tutte queste sensazioni del passato ei le confonde in un solo godimento.


29 giugno.

Ier l’altro venne il medico dalla città a far visita al sindaco, e mi trovò sdraiato a terra, in mezzo ai fratellini della Carlotta, che mi saltellavano intorno e mi stuzzicavano, e quand’io li solleticava in qualche parte, levavano urli. Al dottore, ch’è un gran bamboccione incartocciato, e non apre bocca che prima non s’increspi i manichini, e metta fuori una spanna di gorgiera a doppia salda, parve che que’ trastulli non s’affacessero alla dignità d’uomo assennato. Io me n’avvidi tosto a cert’aria di magistrale austerità, ch’egli assunse appena m’ebbe veduto in quell’atteggiamento. Pure non mi mossi: lasciai che sciogliesse il freno alle sue dotte digressioni, e mi diedi a ricostruire le case di carte da gioco, che i fanciulli avevano smantellate. Udii poscia, com’egli, tornato in città, andasse pianamente mormorando pel vicinato che i figlioli del sindaco erano già pieni di cattivi modi, e ora il Werther s’industriava a guastarli del tutto.

Sì, mio Guglielmo, i fanciulli sono la più cara cosa che s’abbia il mio cuore su questa terra. Ogni volta ch’io sto contemplandoli, e penso ai germi di virtù e di potenza, che covano in quei corpicini, e di cui avranno tanto bisogno un giorno; e so che in quella loro caparbietà è riposto il seme della futura costanza e fermezza di carattere, e la petulanza è destinata a convertirsi nella giocondità d’umore e nella leggerezza, necessarie a superar lietamente i pericoli dell’esistenza; nel veder tanto candore, tanta verginità diffusa in ogni loro atto, in ogni loro parola, io mi ripeto dentro di me l’aureo detto del divino istitutore degli uomini: «Guai se voi non diventerete come uno di costoro!» — E pure, amico mio, queste creature, che sono nostre uguali, queste che noi anzi dovremmo pigliare a modello, noi le trattiamo in tutto come nostri vassalli. Noi neghiamo loro il libero volere. Ma e perchè dunque lo possediamo noi? Donde abbiamo cavato il privilegio? Forse perchè siamo più vecchi e più sagaci? — O buon Dio! tu, dall’alto de’ firmamenti, certo, non discerni tra noi che vecchi e giovani fanciulli — e null’altro: e quali d’essi ti sian più graditi, già da gran tempo lo annunziava il tuo celeste figliuolo. — «Ma i fanciulli credono in Dio, senza ascoltarlo.» — Ecco ciò che si oppugna — ed è cosa antica anche codesta. E intanto allevano la loro prole a propria somiglianza, e... Insomma, addio, Guglielmo; mi grava il continuare di quest’ambito.


Il 1° di luglio.

Ciò che Carlotta dev’essere per un malato io lo presagisco dal mio povero cuore, che certo è assai più malconcio di molti che si giacciono infermi sotto una coltre di dolore. Ella passerà alcuni giorni in città, al letto d’una buona signora, già spacciata dai medici, che ha mostrato desiderio d’averla vicina ne’ suoi ultimi istanti.

La settimana scorsa io fui con lei a visitare il parroco di S***, piccolo casale ad una lega di qui, in mezzo alla montagna. Giungemmo verso le quattro. Carlotta s’era pigliata seco la seconda delle sorelle. Allorchè entrammo nel cortile, ombreggiato da due alti noci, il buon vecchio era seduto sur una panca, davanti all’uscio di casa, e al raffigurar la Carlotta parve ravvivarsi tutto; dimenticò il bastone, si rizzò e le mosse incontro. Ma ella corse a lui, e con mansueta violenza l’obbligò a riadagiarsi, sedendogli a fianco; poi gli fece i saluti di suo padre, e coperse di baci un fanciulletto sudicio e brutto, ch’era il beniamino del vecchio.

Oh! l’avessi tu veduta intrattenere il buon uomo, facendogli festa intorno, e ingrossar la voce, perchè sordastro, com’è, non penasse a cogliere le sue parole, e raccontar d’uomini giovani e robusti, che pur morivano inopinatamente; e dei pregi dei bagni di Carlsbad: e come ella lodava il disegno di lui di recarvisi, nell’estate ventura, e ch’egli ad ogni modo, aveva oggi assai migliore aspetto, ed era più rianimato che non l’ultima volta ch’ell’era venuto a visitarlo! — Io m’era intanto messo a fare complimenti colla moglie. Il vecchio ringalluzzì, e avendo io tessuto gli elogi de’ suoi noci, e dell’ombra piacevole che diffondevano, ei prese a narrarne la storia, sebbene con qualche disagio. — «Il più antico — diss’egli — non si sa chi l’abbia piantato: chi dice il tal parroco, e chi un altro; ma il più giovine, là dietro, ha l’età di mia moglie — cinquant’anni in ottobre. Suo padre lo piantava il mattino di quel giorno in cui ella nacque; e fu sul vespro. Egli fu il mio predecessore, e quanto caro egli avesse quest’albero non è a dire: nè riesce men caro a me. Mia moglie era assisa sopra una trave, all’ombra di questo noce; e lavorava a far calze, quand’io capitai qui, la prima volta, ventisette anni addietro, in arredo da povero studente.»

La Carlotta gli dimandò di sua figlia. «È andata ai prati col signor Schmidt, a vedere i lavori» — rispose il vecchio — e proseguì il suo discorso, dicendo com’egli entrasse di mano in mano nelle grazie del suo antecessore, poi di sua figlia, e come, all’ultimo, divenne suo vicario, indi suo successore. Non era a capo del racconto che la giovinetta assente entrò dal giardino, insieme col signor Schmidt. Fece le più calde accoglienze a Carlotta, e confesso che, tutt’insieme, la non mi spiacque: è una brunetta svelta e di bella persona, che in un ritiro campestre deve far dimenticare le ore, più che l’oriuolo non le ricordi. L’amante suo — era impossibile non addarsene a prima giunta — uomo di gentile aspetto, ma, a quanto pareva, un po’ cupo, non volle prender parte alla conversazione, benchè Carlotta facesse ogni sforzo per sciorgli lo scilinguagnolo. Ciò che mi noiava è che i suoi lineamenti lasciavano scorgere manifestamente come il suo silenzio provenisse assai più da incapatura e malumore che non da povertà d’intelletto. Nè andò molto che ne diede prove irrepugnabili; poichè essendoci noi messi a passeggiare, e Federica accompagnandosi ora a Carlotta ed ora a me, la faccia del signor Schmidt, già per sè stessa d’una tinta scura, cominciò ad infoscarsi per modo che la Carlotta mi tirò finalmente per la manica, e mi diè a capire ch’io m’era mostrato troppo galante con Federica.

Ora, a me nulla rincresce tanto come il veder gli uomini torturarsi l’un l’altro inutilmente, e la gioventù, nel fior della vita, quando il cuore è più aperto al senso della gioia, amareggiarsi que’ pochi giorni per un nonnulla, per ripentirsene poi, allorchè tanta dovizia è irreparabilmente perduta. Questo pensiero mi cruciava tanto che, tornati sulla sera a casa del parroco, mentre sedevano tutti intorno al latte, e il discorso cadde sui dolori e sulle contentezze della vita, afferrai subito il destro per suonare a distesa contro il brutto vizio del malumore. «Noi ci quereliamo sovente — diss’io — che i bei giorni son così radi nella nostra esistenza, laddove i tristi, all’incontro, abbondano; ma a me pare che in gran parte il torto sia nostro. Se l’anima nostra fosse disposta sempre a godere il bene che Dio ci manda ogni giorno, noi possederemmo altresì la forza necessaria a sopportare il male, allorchè ci piove alla sprovveduta sulle spalle.»

«Sta bene — insinuò la moglie del pastore — ma lo spirito nostro non è in nostra balia; il corpo è un po’ padrone anch’esso, e quando il corpo soffre, anche lo spirito ne risente.» — Convenni in questa verità. — «Riguardiamola adunque — io proseguii — siccome un’infermità, e vediamo se mai non si trovino mezzi a risanarla.» — «Certo — soggiunse Carlotta — sono anch’io dell’avviso che molto, in questa faccenda, dipenda assolutamente da noi. Io n’ho fatta esperienza su di me stessa; quando alcun che mi noia, e m’accorgo che finirebbe a darmi l’uggia, io balzo tosto in piedi e mi metto a canterellare qualche aria di contraddanza, passeggiando su e giù pel giardino, e allora le nebbie se ne vanno.» — «È appunto ciò che io voleva dire — interposi — il malumore rassomiglia all’indolenza, anzi è una specie d’indolenza e va trattato com’essa. Noi ci abbandoniamo tutti assai facilmente a questa propensione: raccogliete le vostre forze, e provatevi una volta a resisterle, ecco subito il lavoro cammina, e noi troviamo nell’attività una vera soddisfazione.»

Federica si fece attenta, e il giovinotto mi si rivolse obbiettando che, ad ogni modo, non era sempre possibile d’esser padrone di sè stesso, e assai meno ancora di comandare alle proprie sensazioni. — «Perdoni — io soggiunsi — qui si tratta senz’altro d’una sensazione spiacevole, che ciascuno, nel proprio caso, si studia di rimuovere da sè con tutte le sue forze. Ma come può egli giudicare delle proprie forze, se non le ha ancor messe alle prova? Chi è malato va in cerca del medico, ascolta i suoi precetti e si rassegna a ingoiare le più amare medicine per racquistar la salute. Allo stesso modo...» Ma qui, essendomi occorsa la faccia del parroco, che sembrava tendere ogni muscolo per udir distintamente le parole, e intromettersi anch’egli alla discussione, alzai la nota, e mi rivolsi dalla sua parte. «Si predica contro tanti vizi — diss’io — e da nessun pergamo, ch’io sappia, si è predicato mai contro il malumore.»9 — «È un argomento pei parroci di città — replicò il vecchio — i contadini non sanno che cosa sia mal umore: non nego per altro che una parola non potesse far bene, a tempo a tempo, non fosse che per la propria moglie e pel signor sindaco.» — La compagnia ruppe in una sganasciata, e il parroco si unì così cordialmente a noi, che la tosse lo prese e il dialogo patì una lunga interruzione.

Ristaurata la calma, il signor Schmidt ripigliò la parola, indirizzandosi a me. «Ella crede adunque che il mal umore sia un vizio: parmi ch’ella esageri.» — «Non esagero certo — risposi — se pur tutto ciò, che riesce infesto a sè stesso ed al prossimo, è degno di questo nome. Non basta già questo che noi non possiamo farci a vicenda felici, senza che per giunta noi ci togliamo, l’un l’altro, quel po’ di piacere che il cuore può ancora procacciarci? Ella mi nomini un sol uomo, se sa, che essendo posseduto dal mal umore abbia l’arte di nasconderlo talmente, e rimasticarselo per sè solo, che, in fine, non giunga a riversarlo al di fuori e turbar la gioia di quanti lo circondano. O non è piuttosto il mal umore un segreto risentimento della nostra pochezza, uno scontento interno di noi stessi, che sempre va collegato a certa invidia esulcerata da una stolta vanità? Noi vediamo gli altri felici, e il pensiero che la loro felicità non dipende da noi, ce la rende esosa.»10Carlotta, vedendo il calore con cui parlavo, mi guardò sorridendo, e allora una lagrima ch’io scòrsi nell’occhio di Federica, mi spronò a continuare. — «Guai a color — conchiusi — che si valgono della podestà che hanno su d’un cuore, per involargli le schiette gioie che ne rampollano. Tutti i doni della terra, tutte le gentilezze che gli altri sappia immaginare, non risarciscono quel breve momento di piacere, che l’invidiosa insania del nostro tiranno ci ha crudelmente amareggiato.»

L’anima mia traboccava; tante memorie m’assalsero ad un tratto, che le pupille mi si empirono di pianto. — «Oh! la bella cosa — proruppi — se ciascuno rimostrasse a sè stesso, ogni giorno: Bada, tu non puoi far altro bene a’ tuoi amici che lasciare intatte le loro gioie e accrescere la loro felicità, dividendola con essi! Forse che, quando il cordoglio la dissenna, tu puoi versare anche una sola stilla di balsamo sulle loro palpitanti ferite? Allorchè l’estremo de’ mali ha confitto nelle coltri la creatura, e cui tu avvelenavi i fiorenti giorni, ed ella si giace rifinita di forze, guardando con immota pupilla il cielo, pallida la fronte dei sudori della morte; e tu, ritto dinanzi al suo capezzale, come un maladetto dal cielo, senti la fatale impotenza di tutte le tue facoltà — e una mortale ambascia ti sommuove convulsamente il petto — oh! la sciagura di non poter offrire, in quel supremo istante, il più misero de’ conforti alla povera sofferente! di non poterle mitigare uno solo de’ suoi affannosi dolori, quando pur daresti lietamente la vita per prolungarle un sol giorno!»

Ero esausto. Al finire dell’ultime parole mi colpì sì viva la ricordanza d’uno spettacolo di questa sorta, a cui mi toccò d’essere testimonio, che mi corse involontaria la pezzuola agli occhi, e m’allontanai. Non fu se non allorquando la voce di Carlotta venne a propormi di ripartire, ch’io ritornai in me stesso. — Oh amico, i suoi amorevoli rimproveri, per via, pel soverchio fervore ch’io metto in ogni cosa! l’ammonizione ch’io dovessi aver cura di me, perchè certamente ne soccomberei un giorno!

No, angelo mio; la vita ora m’è cara per te.


6 luglio.

Ella è ancora al letto della sua morente amica: sempre la stessa, sempre la soave creatura che, presente ogni dove, allevia i patimenti altrui e fa felice ogni essere intorno a sè. Ella usciva iersera a passeggiare con la Maria e la piccola Amalia: io lo sapeva, e andai loro incontro: si continuò la passeggiata insieme. Dopo un’ora e mezzo di cammino, mentre ce ne tornavamo verso la città, capitammo alla fontana che ora mi è diventata le mille volte più cara. Carlotta s’assise sul muricciuolo; noi, in piedi dinanzi a lei. Mi volsi dattorno: il tempo in cui erravo qui con tanta solitudine nel cuore, si ridipinse alla mia fantasia. «Oh amica fonte — io mormorai — da quei giorni in poi non mi sono più riposato all’ombra della tua frescura, ti son passato innanzi talvolta, senza pur mandarti un saluto, tanto spensierata era la fretta che mi pungeva il piede!»

Abbassai lo sguardo e vidi l’Amaliuccia affaccendata a salir le scale con un bicchier d’acqua in mano. I miei occhi corsero allora su Carlotta: compresi quanto inestimabile tesoro io possedessi in lei. L’Amaliuccia s’accostò intanto col bicchiere; Maria stava per levarglielo di mano: «No — grida l’Amaliuccia con dolcissima tenerezza — tu devi essere la prima a bere, Carlotta.» — L’accento di verità e di bontà, con cui ella proferì queste parole, mi trassero così fuor di me, ch’io, in quel trasporto, alzai da terra la fanciullina e mi diedi a baciarla e ribaciarla con tanto calore, ch’ella cominciò a piangere e a strillare.

«Voi avete fatto male» — disse Carlotta. Io era stordito. — «Vieni, Amalia — continuò ella, pigliandola per mano e accompagnandola giù dalle scale — làvati presto presto nell’acqua della fontana, e se n’andrà.» — E l’Amaliuccia a fregarsi, colle manine intinte nella fonte, le gote, con un fervore da non dirsi. La poveretta credea davvero che l’acqua del fonte avesse la virtù di mondare da ogni impurità chiunque se ne lavasse; ed ella così si sottrasse alla vergogna di vedersi crescere la barba d’uomo intorno al mento. E in quell’amabile idea continuò a lavarsi e a stropicciarsi premurosamente anche quando la Carlotta le ebbe detto che bastava, perchè pareva a lei che l’abbondar in quell’abluzione non potesse che far più certo il prodigio. T’assicuro, Guglielmo, che non ho mai assistito con maggior ossequio ad un battesimo; e quando la Carlotta fu sopra, avrei voluto gittarmi a’ suoi piedi, come a’ piedi d’un profeta, che colle sue virtù cancella i peccati di tutta una nazione.

Quella sera, pieno ancor tutto dell’innocente scena, narrai l’accaduto ad un uomo, che, avendo certo acume d’ingegno, m’immaginava lo accompagnasse a qualche dose di cuore. Pazzo ch’io sono! un nuovo inganno. Biasimò la Carlotta; disse che ai fanciulli non s’ha mai a fare credere alcuna cosa che non sia reale, perchè in quel modo si vengono radicando in essi mille superstizioni ed infiniti errori, dai quali è dovere, all’incontro, di premunirli per tempo. — Mi venne in mente che quell’uomo avea fatto battezzare, otto giorni addietro, una sua figlia; onde lasciai che dicesse e mi serbai nel cuore questa verità: che si debbono trattare i fanciulli come Dio fa con noi. Noi, che mai non siamo tanto felici come allorquando Ei ci lascia scorrere obliosamente i giorni sull’ali di qualche amorosa fantasia!


8 luglio.

Oh i fanciulli che noi siamo, o Guglielmo! Oh i gran fanciulli! Come si può essere tanto cupidi d’uno sguardo?

Noi eravamo andati a Wahlheim. Le signore ch’erano venute in carrozza, discesero; ed io, nelle nostre passeggiate, credetti di scorgere negli occhi neri di Carlotta... Ma che! io sono un pazzo... perdonami, Guglielmo... oh! quegli occhi, se tu li vedessi, amico! — Insomma, a farla breve, poichè le palpebre mi si chiudono dal sonno, le signore rimontarono in carrozza. Noi stavamo ritti intorno ad essa, il giovine Selstadt, Audran ed io. Si cominciò a discorrere dallo sportello, e gli altri due che s’avevano tutte le grazie delle signore, scialavano. Cercai gli occhi di Carlotta: oh amico! correvano dall’uno all’altro — e a me, a me che avevo tutta l’anima sepolta nel suo volto, non un’occhiata! Il mio cuore le diceva mille saluti — ed ella non mi guardava! — La carrozza partì: una lagrima mi spuntò negli occhi. Stetti un momento, contemplando: a un tratto, la testa di Carlotta si piega fuori dello sportello e si volta a guardare: — era per me quello sguardo?

Vo tentennando in questa incertezza: — ah, forse ella cercava il mio volto! ecco il conforto che mi fa men doloroso il dubbio. — Forse! — Buona notte, mio Guglielmo. — Son pur fanciullo ancora!


10 luglio.

Se tu vedessi la sciocca figura ch’io fo quando si parla di lei nelle brigate! E quando mi si domanda s’ella mi piace! — Piacere! Odio questa parola a morte. Che concetto farsi d’un uomo, a cui Carlotta piace? a cui ella piuttosto non riempia ogni senso ed ogni fibra? — Piacere! Taluno mi chiese, ultimamente, come mi piacesse l’Ossian!


11 luglio.

La signora M*** è agli estremi: io prego per lei, perchè soffro con Carlotta del suo male. Non la vedo che di rado — e dall’amica mia: oggi ella m’ha raccontato un curioso accidente. Il vecchio M*** è un sordido Arpagone, che ha tenuto la moglie tutta la vita sui graticci; se non che la poveretta s’è ita sempre aiutandosi alla meglio per trascinare il carro. Pochi dì sono, avendola il medico spacciata, ella fe’ venirsi al letto il marito — Carlotta era presente — e gli tenne questo discorso: «Senti, debbo confessarti una cosa, che dopo la mia morte potrebbe essere causa di confusione e di dissapori. Io ho sempre condotto il governo della casa con tutto l’ordine e l’economia che mi sono stati possibili; ma tu mi perdonerai se t’ho ingannato per tutto il corso di questi trent’anni. Il denaro che tu destinavi, ne’ primi giorni del nostro matrimonio, per le spese di cucina e le altre domestiche necessità, era poca cosa. La famiglia crebbe, e crebbero con essa gl’impegni; ma ad onta delle mie rimostranze tu sai che anche ne’ tempi più difficili non giunsi mai a persuaderti d’allargare la mano a seconda delle circostanze; sai che mi costringesti a provvedere a tutto con sette fiorini la settimana11. Accettai senza repliche; ma poi non potendo assolutamente durarla in quei limiti, ho dovuto ricorrere all’astuzia di supplire ai bisogni coi denari del negozio, da che nessuno potea sospettare che la moglie mettesse la mano nella ciotola. Io ho coscienza di non avere sprecato un picciolo; e sarei andata tranquillamente incontro all’eternità senza farti questa confessione, se non m’avesse angustiato il timore che la donna, che sarà dopo di me la tua massaia, non abbia a trovarsi stretta, e tu allora non insista sulla pretesa abilità della tua prima moglie.»

O accecamento incredibile degli uomini! come non sospettare magagna, là dove il marito s’accorge che le spese ammontano al doppio di quello ch’ei paga a fornirle? Ne ragionammo a lungo io e Carlotta. Se non che io ho pur conosciuto di tali, che avrebbero visto senza meraviglie ardere nella loro casa la lampada eterna del profeta12.


13 luglio.

No, io non m’inganno: v’è in quelle nere pupille tal cosa, che mi fa certo della viva parte ch’ella piglia a me ed alla mia sorte. Sento nel profondo cuore — la dirò io questa celeste parola? — sento, o Guglielmo, ch’ella mi ama.

Sì, ella mi ama! — Ed io comincio — a te posso dirlo, o Guglielmo, tu che hai senso per queste cose — io comincio a rialzarmi in faccia a me stesso... comincio ad adorarmi da che ella mi ama!

È temerità la mia, o è retta coscienza del nostro reciproco affetto? Non conosco l’uomo, che possa farmi tremare del cuore di Carlotta: e nondimeno, quand’ella ne parla con tanto calore, con tanto amore... non te l’occulto, mi pare allora d’essere un uomo spogliato di tutti i suoi onori, scaduto da’ suoi titoli, privato della sua spada.


16 luglio.

Come il sangue mi corre di vena in vena, quando le mie dita toccano senza volerlo le sue! quando i nostri piedi s’incontrano a caso di sotto al tavolino! Il primo moto è di ritrarmi, come se avessi toccato il fuoco; poi una forza segreta torna a spingermi avanti — e i sensi mi si offuscano. — Quella cara anima non sa, nella sua innocenza, come il minimo de’ suoi atti familiari mi fa soffrire! Oh! quand’ella, nel favellare, mette la sua mano sulla mia, e nel calore del discorso si fa più presso a me, perch’io meglio l’intenda — e il divino alito delle sue labbra viene a sfiorare lievemente le mie — amico, io credo, in quell’istante di sovrumana voluttà, d’esser percosso dal folgore di un’estasi immortale.

O Guglielmo, s’io mai m’attentassi... No, questo cielo, questa fiducia conserveranno tutta la loro purezza; il mio cuore non è ancor guasto. Debole sì, assai debole — non guasto. Ella m’è sacra, o Guglielmo; ogni desiderio mi si ammutisce dentro al solo vederla. Il senso ch’io provo accanto a lei non ha parole a esprimerlo: direi che l’anima mi corre a ritroso su per l’onda de’ nervi. — Ella ha un’aria sua prediletta, che suona spesso sul cembalo con un brio, con una soavità che gli angeli potrebbero invidiarle. Quand’io l’odo, si snebbiano dentro di me, fin dalla prima nota, e dolori e tenebre e fantastici pensieri. Il sole mi si leva nell’anima e nella mente!

Tutto questo si narra dagli antichi sul magico potere della musica, mi va acquistando aria di probabilità. Come quella semplicissima melodia mi rapisce! e com’ella sa mettervi le mani a tempo, quando la bruma interna par che mi trascini a cacciarmi una palla nel capo! Il delirio allora si sperde; — l’alito torna a scorrermi libero nel petto.


18 luglio.

O dolcissimo mio, che è mai la maestà dell’universo senza l’amore? Non ridere: parmi davvero che sia come a’ fanciulli la lanterna magica, priva del lume interno. Non appena il lucignolo arde, che sulla parete vengono a dipingersi le immagini più svariate. Ah! s’anco non sono che passeggieri fantasmi, quel loro avvicendarsi davanti al nostro sguardo ci rallegra pur sempre!

Oggi non m’è stato possibile di veder Carlotta: c’era qualcuno da me ch’io non ho potuto rimandare Non mi rimaneva che inviarle il mio servo, per aver pure un uomo intorno a me che oggi l’avesse veduta — e l’ho fatto. Figurati con che ansia sono stato aspettando il suo ritorno! con che trasporto di gioia l’ho veduto arrivare! Mi sarei gittato al suo collo e l’avrei baciato, se non m’avesse trattenuto il rossore di me stesso.

Dicesi che v’ha una pietra, la quale, esposta ai raggi del sole, se ne riveste, e la notte splende per alcun tempo nelle tenebre13. M’è sembrato che il servo potesse rassomigliarsi a quella pietra. L’idea che gli occhi di Carlotta aveano riposato sulla sua fronte, sulle sue guance, sui bottoni dell’abito, sul bavero del suo pastrano, me lo rendevano sacro, inviolabile. Non avrei dato quel ragazzo per mille talleri! Non sapevo staccarmi da lui.

Non mi deridere, Guglielmo: Dio te ne guardi! E se queste larve ci addormentassero amabilmente? — Larve? quando ci procacciano qualche istante di felicità?


19 luglio.

Non v’è mattina, ch’io nel risentirmi, e nell’inviare un sereno sguardo incontro al sole nascente, non gridi a me stesso: Tu la vedrai! — e ogni altro desiderio si tace, sepolto in quella beata idea.


20 luglio.

Un grazioso pensiero il vostro! ch’io vada a N... coll’ambasciatore! No, no: la catena non è fatta per le mie membra: e tutti sanno, del resto, che stampa d’uomo è colui! così uggioso! — Dici che mia madre vorrebbe vedermi attivo: mi fate ridere. E non sono io attivissimo ora? E non è forse lo stesso, all’ultimo, contar piselli o ceci? Che monta, amici miei? Al far dei conti tutto è miseria quaggiù; e l’uomo, che per amore degli altri, senza un bisogno al mondo, senza una propensione che ve lo induca, assassina la propria vita per accattarsi oro od onori, od altra profenda — quell’uomo, amici, quello è pazzo a bandiera.


24 luglio.

Poichè tanto ti sta a cuore ch’io non trascuri il disegno, amerei piuttosto non parlarne che confessarti il peccato ch’io, da qualche tempo in qua, non ci attendo se non a caso.

Non mai sono stato più felice, non mai sentimento della Natura, l’amor mio per ogni arbusto, ogni sasso, ogni fil d’erba, m’ha più che ora solleticato il cuore — e nondimeno... non so come dirtela, amico, la mia potenza figurativa è fiacca, ogni cosa mi vacilla e mi si confonde così nella mente, che l’occhio mio è inetto affatto a scernere i contorni degli oggetti. Parmi che se avessi argilla o cera, le immagini m’uscirebbero più agevolmente dalle dita. E bisognerà bene ch’io mi dia all’argilla, se questo stato persiste: qualche diavolo ne sbucherà fuori, non fossero che schiacciate!

Tre volte ho dato mano al ritratto di Carlotta; tre volte m’è restato a secco. E’ non c’è modo di finirlo — non riesce, non arieggia — io che tanto era felice, non ha guari, nel cogliere le teste! — Ne ho disegnato un contorno a ombre14: e basterà per ora.


25 luglio.

Sì, mia buona Carlotta, eseguirò ogni vostra commissione a punto a punto. Datemene dell’altre — e sovente. D’una sol cosa vi prego: non mettete più sabbia ai vostri scritti. Ho accostato in fretta il vostro biglietto alle labbra, e la m’è venuta a stridere fra i denti.


26 luglio.

Quante volte non mi sono io proprosto di diradare le mie visite! Ah! chi potesse tenere questa sorte di proponimenti! La tentazione trionfa. Ho un bel dirmi ogni giorno: Tu non ci andrai domani! Il domani arriva — le promesse vanno a fascio, ed eccomi un’altra volta da lei, prima ancora ch’io me ne sia accorto. E quando non c’è un motivo d’andarci, il pretesto non manca. O ella ha detto, la sera: Ci rivediamo domani? — e come si fa a star via? O m’ha dato un incarico qualunque — e mi par più convenevole sdebitarmene in persona. Talora è il sole che congiura; la giornata è magnifica, ed io mi inerpico fino a Wahlheim. O che quando son là, e non ci ha più che una mezz’oretta di cammino infino a lei... Insomma, Guglielmo mio, è impossibile resistere; quell’atmosfera m’attrae nell’orbita sua.

Mi sovviene, a proposito, una fiaba di mia nonna sul monte delle calamite. Le navi, che gli si avvicinavano troppo, erano in un subito sferrate: ogni chiodo volava verso la fatale montagna, e i poveri viaggiatori, sfasciata la barca, perivano qua e là sulle tavole natanti.


20 luglio.

Alberto finalmente è arrivato ed io me n’andrò. E foss’ei pure il migliore degli uomini, il più magnanimo, ed io mi sentissi inferiore a lui in ogni cosa, e pronto a fargli ossequio, chi potria vederlo con indifferenza in possesso d’un tanto bene? — Oh, possederla! e dove io sono!

Egli è qui, Guglielmo! ecco la gran parola: lo sposo di Carlotta è qui! — Lo fanno un onest’uomo, meritevole d’ogni riguardo. — Non m’oppongo. — Fortunatamente, io non era presente al suo arrivo: puoi immaginarti se non m’avrebbe spezzato il cuore! Nè l’ha baciata ancora una sol volta davanti a me. Dio gliel rimeriti! L’amerò, non foss’altro, pel delicato rispetto che ei mostra a quella fanciulla. E pare ch’ei m’abbia a grado: ma è certo più l’opera di Carlotta che non il dettato del suo cuore. E in questo le donne hanno tatto sottile: allorchè possono, si studiano di mantener sempre la buona intelligenza tra due adoratori. Non riesce che di rado, ma insomma non hanno torto: è sempre a loro profitto.

Ad ogni modo non posso disdire ad Alberto la mia stima. Le sue pacate maniere fanno un piccante contrasto colla irrequieta tempra del mio carattere, che non sa tenersi celata, nè rimettere. — Ha molto tatto, del resto, e sente tutto il valore della sua conquista. Nè pare ch’egli soggiaccia a mali umori, se non forse in dose assai tenue: e anche questo è in favor suo, perchè tu sai com’io abborra questa peste negli uomini sovra ogni altra loro infermità. Ti dirò pure ch’egli ha buona opinione del mio sentire, e il mio attaccamento per Carlotta, la gioia ch’io mostro per tutto quanto la riguarda, accrescono il suo trionfo e gliela rendono sempre più cara. Ch’ei non la crucci talvolta con qualche velleità di gelosia, non vorrei giurarlo. Io, frattanto, ne’ suoi panni, so che questo demone non mi lascerebbe tranquillo.

Comunque sia, amico, la dolcezza dello starmi presso a Carlotta è sfumata. È pazzia, o cecità? — Che importa il nome? Il fatto è questo, o ch’io voglia non voglia. Pure io sapeva com’erano le cose anche prima dell’arrivo d’Alberto. Sapevo ch’ella non sarebbe mai mia, nè m’illudevo a far voti — se il non formarne è possibile vicino a sì incantevole creatura! Ed ora giunge lo sposo, ed io sguscio gli occhi fuori dell’orbita, perch’ei reclama la sua preda.

«Rassegnarsi — dirà taluno — poichè non può essere altrimenti.» — Oh la bella consolazione! Via di qua, miserabili! — D’allora in poi vo correndo per queste selve, e digrigno i denti come fiera; e se mi avvengo in Carlotta, e Alberto le siede al fianco, nel giardinetto, sotto la pergola, ed io sono inchiodato a quella zolla di terra, fo mille cose da disgradarne tutto un manicomio. «Per l’amor del cielo — mi disse oggi Carlotta — non mi fate più le pazzerie di iersera, ve ne scongiuro; quella vostra allegrezza ha qualche cosa di spaventoso.» — Sia detto tra noi, Guglielmo, io sto continuamente alle poste, e quand’egli ha qualche affare, subito guizzo fuori dell’imboscata, e sono così indicibilmente beato quand’io la trovo sola!


8 agosto.

Davvero, mio buon Guglielmo, io non alludevo a te nella mia apostrofe contro gli uomini, che pretendono da noi una servile rassegnazione ai capricci del destino. Come puoi immaginarti ch’io pensassi a te, ch’io ti credessi d’un medesimo avviso? Nè hai torto, in fondo. Solo una cosa rifletti, amico mio. I mali della vita raro è che trovino efficace rimedio nel ripetuto dilemma: O l’una o l’altra delle due vie. No: i modi del sentire e dell’operare variano in tante tinte chiaroscuri, quante sono le gradazioni tra il naso dell’aquila e quello dell’Etiope. Perdona, adunque, o caro, s’io, concedendoti gli onori del sillogismo, cerco di sottrarmi alla tua sentenza.

«O tu speri in Carlotta — mi gridi — o non speri. Ebbene, nel primo caso fa ogni studio per riuscire, per mandare a compimento le tue brame. Nel caso opposto, raccogli i tuoi spiriti intorno al cuore, e liberati da una malaugurata passione che dee finire col divorare tutte le forze tue.» — Oh amico! il suggerimento vien facile — assai facile sulle labbra!

E puoi tu pretendere dall’infelice, la cui vita vien grado grado inevitabilmente mancando sotto al flagello d’una insidiosa malattia, puoi tu pretendere da lui ch’ei ponga fine una volta al suo patire con un colpo di pugnale? E non vedi che il male, che gli consuma ogni nervo, gli toglie l’animo, a un tempo, di sbarazzarsene per sempre?

So che non ti sarebbe malagevole rispondermi, per via di similitudini. «Chi non si lascerebbe mutilare un braccio — tu mi dirai — anzi che porre a pericolo la vita, a forza di titubanze e di timori?» — Non so, amico — nè parmi che giovi ingolfarsi in paragoni, a uscire dal ginepraio. Certo è... Ah, Guglielmo! e non è a dire ch’io non abbia, anch’io, i miei momenti di coraggio, in cui mi pare che sarei pronto a balzare in piedi e a ricingermi i lombi. — Ma dove andare mio Dio? — Dove?


La sera.

M’è caduto tra mani il giornale che da qualche tempo ho smesso. Come io sono andato, passo passo, a urtare pensatamente nella parete! Come ho veduto sempre limpidamente il mio stato — e ho nonostante operato da fanciullo! E veggo limpido anch’oggi — e non v’è apparenza di emendamento.


10 agosto.

S’io non fossi uno stolto, potrei vivere la più beata vita che mai si udisse. Circostanza più liete non mai concorsero a ricrear l’anima d’un uomo, di quelle che la sorte mi concede in questi giorni. Tanto è vero che il cuore è il solo fabbro della nostra felicità! — Guglielmo, io sono diventato della loro famiglia; il vecchio mi ama siccome figlio; i fanciulli mi amano come un altro padre; Carlotta... Oh! l’onesta anima d’Alberto! Ei non funesta di mali umori, o di capricci, la mia gioia innocente, anzi mi tratta con cordialissima amicizia e gli sono la più diletta persona dopo Carlotta.

E le nostre passeggiate! Se tu ci udissi, Alberto ed io, intrattenerci le lunghe ore di lei! Nulla di più ridicolo della nostra scambievole relazione: e nondimeno le lagrime mi vengono spesso sul ciglio in pensarvi! Talora ei piglia a narrarmi della intemerata madre di lei; com’ella, al letto di morte, raccomandasse a Carlotta la sua casa e i suoi figliuoli, e a lui raccomandasse la giovinetta; come Carlotta, da quel tempo in poi, sembrasse governata da un altro spirito; come, nella sollecitudine per la prosperità della famiglia, la fosse diventata davvero una seconda madre; come, infine, non trascorresse istante, senza ch’ella prodigasse intorno a sè i suoi affetti; senza che il sole non la trovasse desta al lavoro, ilare sempre, sempre compagnevole e buona. — E intanto ch’ei parla, io vo cogliendo per via qualche fiore e ne compongo con tutta cura un mazzolino; poi quand’esso è compiuto... il torrente lo inghiotte — ed io contemplo lungamente l’onda e il tacito viaggio dei fiori.

Non so s’io t’abbia scritto che Alberto rimarrà qui e s’avrà dalla corte, a cui è caro, un ufficio con decoroso stipendio. Certo, pochi lo eguagliano nell’ordine e nell’assiduità ch’ei pone a trattare gli affari.


12 agosto.

Povero Alberto! Egli è certo il miglior uomo che viva sotto i cieli. Ho avuto ieri una curiosa scena con lui. Andai a trovarlo per accommiatarmi da lui, nell’intenzione di fare una corsa a cavallo per la montagna, d’onde infatti ti scrivo. Nel passeggiare su e giù per la camera, mi cadono sott’occhio le sue pistole. «Non vorresti prestarmi le pistole pel mio viaggio? — gli chiesi. — Le sono a tua disposizione — rispose — purchè tu ti assuma la briga di caricarle, perchè io non le tengo se non per mera formalità.» — Stavo staccandone una dalla parete quand’egli proseguì: «Da che la mia circospezione m’ha fatto quel brutto gioco, non voglio più impicciarmi di codesta sorta di negozii.» — mi venne la curiosità di saper l’avventura. — «Io villeggiava — diss’egli — già da tre mesi presso un amico mio, e avevo un paio di pistole corte, ch’io teneva per solito scariche, dormendo senza cure i miei sonni. Quand’ecco, un bel dopo pranzo, che pioveva, ed io me ne stava seduto oziando, mi salta non so più come l’idea che noi potevamo essere aggrediti, e le mie pistole ci avrebbero prestato un utile servigio in quel frangente. Sai come le cose vanno in momenti simili; le piglio, e le do a pulire e a caricare al servo. Questi si mette in capo di spaventare, per celia, le fantesche, e mentre la bacchetta è ancora nella canna, gli scappa, Dio sa come, il colpo, e ferisce una delle donne nella mano destra, spezzandole colla bacchetta il pollice. E a me toccarono i lamenti della sventurata e le spese del medico per soprassoma; tanto che, da quel giorno in poi, non mi curo più di far caricare le mie armi. Or vedi — conchiuse egli — a che ci giova l’essere previdenti: il pericolo si fa gioco della nostra sapienza. Però distinguo...»

Qui cominciai a ombrare. Tu sai che amo moltissimo quest’uomo, ma ho orrore dei distinguo. E non s’intende da sè che ogni tèsi vuol le sue eccezioni? Se non che Alberto ha questo vezzo che, allorquando s’accorge d’aver messo fuori qualche proposizione, o troppo generale, o precipitata, o incompiuta, non rifinisce più dal tornarci sopra, dal girarle attorno in mille guise, e modificare e circoscrivere e distinguere, insomma, finchè della tèsi originale non c’è più nemmeno il carcame. E così fu questa volta, che s’andò sfiatando un pezzo come pallone che sventa. Io, zitto, non bado più a lui; volto e rivolto la pistola, come per esaminarla da presso, e in uno di que’ gesti un po’ fantastici, mi piglia la stramberia d’appuntarmela alla fronte, sopra l’occhio destro. «Oibò! — grida Alberto, precipitandosi su di me e levandomi l’arme — che diancine fai?» — «E non hai detto che è scarica?» — «Non importa — soggiunse egli, impazientito — non so comprendere come un uomo possa essere tanto pazzo da uccidersi: il solo pensiero mi fa ribrezzo.»

«Ci siamo — ripresi. — Gran dire che gli uomini non sappiano discorrere d’un argomento qualsiasi, senza che non ti sentenzino: Questa è cosa da pazzo, o da savio; così va fatto e così no. — Strana presunzione! Vi siete forse addentrati nelle intime ragioni dell’azione su cui versate il vostro biasimo? Sapete come originasse, come procedesse, e perchè la cosa dovesse finire a quel modo? Oh! come assai meno solleciti prorompereste ne’ vostri giudizi, dove non vi gravasse la fatica di chiarir prima la vostra coscienza!» — «Non mi negherai questo, a ogni modo — replicò Alberto — che v’hanno per lo meno azioni, che si rimangono pur sempre riprovevoli, qualunque sia il motivo che le informi.»

Mi strinsi nelle spalle — e approvai. «Ma tu concederai, alla tua volta — risposi un momento dopo — che, anche in questo caso, le eccezioni non mancano. Il furto, a cagion d’esempio, è un vizio: sta bene. Ma l’uomo, che per redimere sè stesso e i suoi cari dalla certezza di morir di fame corre alla strada a predare, merita egli castigo, o non più presto la compassione dei suoi simili? Chi solleverà la prima pietra contro al marito, che nella giustizia della propria causa sacrifica all’ira sua la perfida e il suo scellerato seduttore? Chi si scaglierà contro la fanciulla, che in un’ora di fatale oblio abbandona l’onor suo agli irresistibili prestigi dell’amore? Le nostre medesime leggi, queste ragionatrici fredde e pedantesche, si sono lasciate commuovere e hanno trattenuto il loro flagello dal collo del delinquente.»

«Altro caso, altro caso — esclamò Alberto. — Si tratta allora di un uomo, che trascinato dalla foga della passione ha smarrito ogni forza di raziocinio, ed è a considerarsi non altrimenti che un ubbriaco, un demente.»

«O gli uomini sensati che siete voi! — osservai sorridendo. — Passione! ubbriachezza! demenza! E intanto ve ne state riposati e tranquilli, come se nulla fosse, ricusando l’obolo della vostra commiserazione ai mali altrui, perchè la vostra morale v’insegna a vituperar l’ubbriaco, a disprezzare il demente, e a passare dinanzi a costoro col piglio severo d’un ministro di Dio, rendendo grazie all’Altissimo, come il Fariseo, di non avervi effigiati a quella plasma. Oh! anch’io sono stato più d’una volta ubbriaco, e le mie passioni non erano mai discoste gran fatto dalla demenza. Tuttavia non me ne duole, perchè ho notato, senza presunzione di paragoni, come, alla stretta de’ conti, tutti gli uomini che uscirono dal consueto stampo, tutti quelli che operarono cose grandi e meravigliose, che teneano del non possibile, vennero predicati in piazza siccome ebbri di vino e deliranti di senno15. E non pure nelle straordinarie contingenze, ma e nelle faccenduole della povera vita quotidiana, se il naso vi dia in qualche azione libera, generosa, inaspettata, voi gridate a gola rovesciata: Quell’uomo è ubbriaco! quell’uomo è pazzo! Oh via, vergognatevi una volta, o astemii del pensiero! vergognatevi, o savi!»

«Eccoti un’altra volta nelle tue fantasticherie — propruppe l’altro. — Tu esageri ogni cosa, e, certo, in questa hai torto. Vorresti tu porre il suicidio, di cui pur si stava ragionando, in una riga colle grandi azioni, mentre, in fine, non è atto se non se di debolezza estrema, da che il morire è assai più agevole che il sopportare con costanza una vita di miserie e di torture?»

Ero sul punto di troncare il filo, perocchè nulla mi fa più uscire dai gangheri che il vedermi arrivare un uomo, armato di volgari aforismi, quand’io son lì a mettere tutto il mio cuore in un argomento. Nondimeno mi raccapezzai, perchè l’era cosa vecchia per me, e me ne sono troppo spesso invelenito, d’altronde. Gli risposi, adunque, non senza una tal quale vivacità, in questi termini: «Alberto, e tu osi chiamarla una debolezza? L’apparenza ti fa certo traviare il criterio. Ti basterebbe l’animo di gridare debole un popolo, che insanguinato dal pungolo del tiranno leva finalmente il capo d’in su le maglie, e rompe il ceppo che gl’incatena la gola? L’uomo, che nel terrore dell’incendio con disperato sforzo si carica di pesi le spalle, che appena varrebbe a smuovere in circostanze ordinarie; l’uomo, che inferocito da un’ingiuria di sangue affronta le forze di sei uomini uniti e li disperde — è gente da chiamarsi debole codesta? E se il saper raccogliere le proprie forze è gagliardia, perchè sarà fiacchezza il tenderle ad un conato estremo?»

Alberto mi guardò e disse: «Non t’adontare, ma gli esempi che tu mi rechi non sono a luogo.» — «Può darsi — replicai — non è la prima volta ch’io mi odo rinfacciare come la mia maniera d’argomentare s’abbia talvolta dello scucito, o peggio. Vediamo ora se sia possibile di rappresentarci in altro modo lo stato interno dell’uomo, che ha deliberato di squassarsi di dosso il fardello della vita, che pur suol essere caro alla generalità dei viventi. Tu sai che non si può favellare con certa scienza di una materia, se noi non c’invisceriamo in essa.»

«L’umana natura — proseguii — ha steso d’intorno i suoi confini: gioie, dolori, patimenti, tutto essa può tollerare fino ad un dato limite: trasceso questo, rovina. Qui non si tratta, adunque, se il tale sia stato debole o forte; bensì se la misura del suo soffrire non oltrepassasse il vigore, che Dio gli concedeva a sostenerlo — sia che il soffrire sia fisico o morale. Or, io credo fermamente che tanto è strano il chiamar codardo l’uomo, che nell’eccesso del dolore spezza lo stame a’ suoi giorni, come sarebbe insensato il chiamar codardo l’infermo che si morisse di febbre acuta.»

«Paradosso, paradosso — urlò Alberto.» — «Non quanto t’immagini — diss’io. — Tu convieni in questo, che s’ha a dir mortale quella malattia, la quale così t’investe l’organismo della materia, che le tue forze in parte ne rimangono consunte, in parte inerti, tanto che nè più possono rifarsi nè più il fiume della vita può ripigliare il suo corso. Così appunto è dello spirito. Sommesso, per l’angustia dei suoi limiti, ad ogni esterna impressione, le idee vi s’insinuano, vi si accampano a lor grado, finchè l’ingrossare d’una passione prepotente offusca la luce del raziocinio, toglie la pacatezza dei giudizii, e conduce l’individuo a perdizione. Invano l’uomo serio, temperato, prudente, addita all’infelice il pericolo, e s’industria colle esortazioni a ritrarnelo: egli somiglia al sano, che vede affannarsi l’infermo sul suo letto di triboli, e non può comunicargli un solo briciolo della propria forza.»

«Non m’acqueto alle tue ragioni — soggiunse ancora Alberto. — Tu m’hai parlato di febbre. La febbre viene, se così può dirsi, dal di fuori, ci sorprende in qualche modo nel sonno; l’idea del suicidio, all’incontro, si forma dentro di noi per quanto l’impulso sia esterno. L’infermità, nel primo caso, è spontanea, violenta, inevitabile; s’insignorisce d’un colpo di tutte le tue forze, te le soffoca, le distrugge, prima che tu abbia il tempo di guardarti dattorno ed avvisare ai ripieghi. Nell’altro caso, il male si viene svolgendo invece lentamente, a gradi, e quasi direi per fasi regolari, allorquando l’anima nostra è ancora vigilie, ha ancora le sue facoltà, se non intatte, almeno ufficianti tuttavia ed attive; però basta sovente opporsi con risoluto vigore alla prima invasione del morbo, resistere con fermezza alle prime seduzioni della mente, alle prime vertigini del cuore, perchè la nebbia poco a poco si dilegui, e il sole della ragione trionfi, all’ultimo, delle insidiose apparenze del sofisma. Direi, insomma, che la febbre acuta è l’assassino, il quale sbuca all’improvvista e t’uccide, senza darti il minimo segno, senza usarti misericordia, senza accordarti respiro; laddove il suicidio è un ladro galante, che ti bussa all’uscio della camera, e ti chiede licenza prima di derubarti gli averi.»

Crollai allora il capo e venni ad un caso particolare. Rammentai ad Alberto il fatto d’una povera fanciulla, che si era trovata, non ha molto, annegata, e gli domandai perdono di riandarne la storia. «Era una buona creatura — gli dissi — cresciuta in mezzo alle domestiche faccende, educata al lavoro, anzi a lavoro determinato per cómpito ogni settimana. Non sapea di svagamenti, di trastulli, se non che forse le domeniche, in pulito corredo, penosamente raggruzzolato, usciva a spasso colle sue compagne, danzava, tutt’al più, una volta, nelle feste solenni, e del resto passava qualche ora chiacchierando con una sua vicina sul proposito di qualche alterco, o di qualche maldicenza, in cui sempre assumeva con giovanile ardore le parti dell’offeso. La sua indole vivace prova, in fine, lo stimolo di più gentili bisogni, rinfocolati a tempo dalle adulazioni degli uomini. Le modeste gioie del passato le si fanno mano a mano sgradite, finchè s’incontra in un uomo, verso cui si sente irresistibilmente trascinata da un arcano impulso, e da quell’ora in poi il mondo le dispare dattorno, oblia ogni cosa, non ode, non vede, non desidera, non ha nell’anima che quall’unico essere, pel quale solo ella vive, nel quale sono riposte tutte le sue più care speranze. Non guasta dai vacui piaceri di un’incostante vanità, la sua segreta, la sua sola fervida brama è di diventare la sposa di colui ch’ella adora; non crede vera felicità se non quella che le verrà da lui, con cui anela a dividere ogni gioconda ventura e ogni rammarico. Seguono le promesse del drudo, e colle promesse di eterna fedeltà le vicendevoli carezze, gli ardiri dell’amore. L’anima sua s’infiamma di desidèri, nuota nel presentimento di future dolcezze, è tutta un fuoco di voluttà. Stende infine le braccia a stringere l’oggetto de’ suoi voti... e l’uomo del suo cuore è fuggito. Senza sentimento, irrigidita, immobile, ella sta sopra l’abisso: tutto è tenebre intorno a lei: nessuna via di salvezza, nessun conforto: egli ha potuto abbandonarla... egli!... l’uomo in cui ella avea trasfusa tutta la sua esistenza! Che è l’universo per lei? l’occhio suo più non ne misura la vastità; i molti che varrebbero a risarcirla della sua perdita, non vivono per lei: ella si sente sola, ella è abbandonata! Cieca d’angoscia, con lo sprone ai fianchi della sua orribile sciagura, ella si precipita dall’alto per cercare nel silenzio la fine dello strazio interno. — Eccoti, Alberto, la miseranda storia di molti esseri umani! E or mi dirai se questa non è vera infermità. La natura non trova egresso fuori di quel labirinto di forze aggrovigliate e contradittorie — e la creatura di Dio soccombe.»

«Guai a colui che può esclamare in faccia a tanta sventura: Ella era pazza! Perchè non attendere dal tempo la sua consolazione? la disperazione avrebbe dato luogo a sensi più pacati: forse che un altro non avrebbe pututo farla felice? — Gli è come se taluno dicesse: Quel pazzo è morto di febbre! S’egli aspettava, le forze gli sarebbero rifiorite, l’acrezza degli umori avria cessato, il tumulto del sangue si saria sedato: egli oggi avrebbe vita e salute

Alberto, al quale il paragone non voleva parere assolutamente calzante, tentò ancora qualche obiezione; tra l’altre, questa, ch’io infine aveva prodotto l’esempio di una ragazza di corto intendimento, ma che un uomo di proposito, penetrando nel midollo delle cose, non potea mai essere scusato se la imitava. — «Amico — io gli gridai, alla mia volta, per finirla — l’uomo è uomo, e quel po’ di senno ch’egli possiede non basta a scamparlo dall’insania delle passioni. Indarno egli s’agita, dentro alla breve cerchia che lo costringe, che gli si serra più e più sempre dintorno, a guisa di fiamma, che inesorabilmente si inoltri.» — «Per questo appunto...» — «Un’altra volta» — diss’io — e cercai del cappello. Avevo gonfio il cuore: ci separammo senz’esserci intesi.

E credo, in fede mia, che non vivano due esseri al mondo, i quali s’intendano tra loro.


15 agosto.

Sì, sono persuaso che nulla al mondo è necessario all’uomo, fuorchè l’amore. E sento questa verità, quand’io penso a Carlotta; e mi pare d’esser certo ch’ella avrebbe dolore di perdermi, quand’io veggo che questi fanciulli non hanno altro pensiero se non quello, che ei mi rivedranno il dì vegnente.

Oggi ero uscito ad accordare il cembalo di Carlotta; ma non m’è stato possibile: i bricconcelli mi furono tutti intorno a pregarmi che io raccontassi loro qualche storiella. E Carlotta stessa insistette, perchè io ne li compiacessi. Distribuii loro la merenda, ch’essi ora accettano con piacere anche dalle mie mani, e presi a narrare, in crocchio, le avventure della principessa ch’era servita da esseri invisibili. T’assicuro, Guglielmo, che imparo assai cose, in occasioni siffatte, e vo notando con piacevole stupore le impressioni che i ragazzi ne ricevono. Obbligato a inventar di pianta qualche incidente, che poi figura nel progresso del racconto, se talvolta mi accade di scordarmene in séguito, ecco che tosto mi gridano tutti: La non è così! la non è così! Ed io, intanto, ci guadagno l’abitudine di contar le storie con logica coerenza, mentre pur vo esercitando la mia memoria. Se tu fossi qui a vedere come io recito in cadenza, e difilato, senza più intopparmi, o mutare sillaba! Ed ho anche imparato quest’altra cosa, che l’autore che pubblica una seconda edizione d’una sua opera d’immaginazione, e la rimuta, per quanto il rimpasto riesca poeticamente più bello, fa sempre danno al suo libro; perchè noi siamo schiavi delle prime impressioni, e l’uomo è così fatto che tu puoi dargli a credere qualunque strana avventura, ma poi gli si appiccica così salda nella mente che tristo colui, il quale presume di sbarbicarnela!


18 agosto.

Ed è pur vero che ciò che forma la felicità dell’uomo finisce a diventare la fonte della sua miseria. Invano io me ne chieggo il perchè.

Quel fervido sentimento del cuore, che animava di bellezze la natura al mio sguardo, che mi facea prorompere in tanto delirio di gioia, che convertiva in eliso, dintorno a me, l’universo, quel sentimento s’è fatto oggimai il mio manigoldo, il demone che mi perseguita dovunque io sia. Un giorno, quand’io dalla balza contemplava il fiume e i poggi e la sottoposta pianura, e vedea la terra ammantarsi di verdura, e le acque rovesciarsi spumeggianti dal fianco delle colline; quand’io vedea quei monti, vestiti di folti alberi, e le valli adombrate, ne’ loro meandri, dai più dilettosi boschetti, e la placida onda del fiume correre bisbigliano tra le canne, e specchiarvisi dentro graziosamente le nubi, portare dai blandi zefiri del tramonto; e udiva gli augelli garrire nella selva, e le miriadi d’insetti agitarsi nell’ultimo raggio purpureo del morente sole, e intuonare il grillo la sua stridula canzone; e lo sguardo errava or sulla terra, ora tra il musco dell’antica roccia, ora tra l’umili ginestre crescenti in mezzo all’aride sabbie, svelandomi da per tutto, in ogni latèbra del suolo, la sacra, ardente, eterna vita della Natura, — oh, come il mio cuore s’estasiava di tante meraviglie, e le pompose forme del creato mi rivivevano nell’anima, fatta santuario d’un Dio! Montagne enormi m’attorniavano, i precipizi spalancavansi dinanzi a me, i ruscelli, gonfiati dalla pioggia, rovinavano dall’alto, i fiumi devolveano maestosi le loro acque sotto a’ miei piedi, la selva e il monte risonavano d’infinite potenze della terra svolgere, nell’operoso silenzio della tenebra, i fili della loro tela misteriosa, e le mille stirpi degli animali brulicare nell’aere e sulla vasta distesa delle glebe, ora feconde or brulle, e l’uomo trincerarsi ne’ suoi ripari, e annidarvi e signoreggiare, com’egli presume, sull’universo!

Signoreggiare! Povero stolto, a cui la propria inanità fa parer vile ogni cosa che lo circonda! Dalle inaccessibili giogaie, di là dai deserti, dove mai non penetrava orma di creatura umana, infino ai termini dell’irremigato oceano, passeggia lo spirito dell’eterno Plasmatore di mondi, e si rallegra di ogni atomo di polve che lo comprende e l’adora.

Oh! quante volte, in quei felici giorni, io m’augurava di poter volare sulle penne della gru, che mi trascorreva sul capo, fino alle spiagge dei mari interminati; di bermi, fuor della coppa spumante dell’infinito, la potente vita de’ celesti; di sentirmi, foss’anco un solo brevissimo istante, circolare in queste vene mortali una stilla di quell’etere divino, che rinfiamma di ignoti gaudi l’Essere, che tutti ci stringe nel suo pensiero, dal cui pensiero, perpetuamente industre, scoppiano le sembianze tutte della terra e dei cieli!

Oh, fratello del cuor mio, la sola rimembranza di quelle ore beate m’infonde un insolito vigore nelle membra: lo stesso sforzo che io fo, per risuscitare quell’ineffabile voluttà, per rovesciarla fuor di me stesso colla parola, ingigantisce nel suo sentire l’anima mia — e addoppia, pur troppo, l’ansia mortale del mio stato presente!

Direi che il velo dell’Iside si è rimosso dinanzi all’anima mia, e lo spettacolo dell’infinito mi si è trasfigurato, d’un subito, nella voragine del sepolcro, eternamente minaccioso. Puoi tu dire ciò esiste, mentre ogni aspetto è mutabile? mentre ogni cosa guizza a’ tuoi occhi colla rapidità del baleno, prima sovente di giungere al suo compiuto sviluppo; e il torrente se la trascina nel suo fiotto, e la frantuma contro le fredde pareti della rupe? V’ha egli forse momento che non sia pronto a distruggere la tua esistenza e quella de’ tuoi cari? un momento, in cui tu stesso non sia distruttore, alla tua volta, pur tuo malgrado? La più innocente delle tue passeggiate costa a migliaia di miseri vermicciuoli la vita; il tuo piede sparpaglia i faticosi abituri delle formiche, calpesta un piccolo mondo, e lo condanna a ignominiosa tomba. Oh, non sono già le grandi e rade calamità, non le inondazioni e i tremuoti, che inghiottono le città vostre, le quali commuovono a pietà il mio cuore! Sono le forze consumatrici, che si celano nel grembo della natura, di quella natura che nulla ha creato, che non finisca ad annientare il suo vicino — e sè stesso!

Ahi! così vo io brancolando all’oscuro, pieno d’angoscia il petto, in mezzo alle creatrici forze del cielo e della terra — e non discerno che mostri, i quali divorano eternamente sè stessi, eternamente si vanno rimasticando le proprie membra sanguinolenti.


21 agosto.

Indarno io stendo le braccia verso di lei, il mattino, quand’io mi riscuoto trafelante da lugubri sogni; indarno io la vo cercando intorno a me nelle tenebre, allorchè un sogno avventuroso e innocente m’illude, persuadendomi che io mi seggo accanto a lei, sul prato, e premo la sua rosea mano, e la copro di mille baci. Ah! quando, ancor mezzo sepolto nell’ebbrezza del sonno, palpo anelando le coltri — e mi sveglio — un torrente di lagrime erompe dall’ingannato cuore, ed io guato sconsolatamente incontro al fosco avvenire che l’anima mia presagisce.


22 agosto.

Sono pure infelice, o Guglielmo! Tutte le mie forze m’abbandonano: un’irrequieta indolenza si è impadronita di me — e non posso starmene scioperato, e m’è impossibile d’intraprendere cosa alcuna. La fantasia è muta, ogni senso della natura esterna è ottuso, i libri mi noiano mortalmente. Oh, è pur vero, che, quando noi veniamo meno a noi stessi, ci vien meno intorno a noi ogni cosa!

Ti giuro, Guglielmo, che sono lì lì, talvolta, per desiderarmi di essere un bracciante, di non avere, al destarmi, se non un solo pensiero, una sola cura, una sola speranza — quella del domani! Invidio assai spesso Alberto, che veggo sepolto in documenti e pergamene fino alle orecchie, e mi pare che starei bene s’io fossi ne’ suoi panni. Già più volte m’è venuta la tentazione di scrivere a te ed al ministro, per ottenere l’ufficio presso l’ambasciata, che tu mi accerti non mi sarebbe rifiutato. E anch’io lo credo. Il ministro m’ama da lungo tempo, da lungo tempo m’ha fatto intendere com’io dovessi consacrarmi a qualche occupazione. E ci penso, alle volte, un’ora intiera; ma poi mi corre alla memoria la favola del destriero, che insofferente della propria libertà si lascia imporre la sella e le barde — e finisce ad essere vergognosamente corso. Non so, davvero, quel ch’io mi faccia.

O amico! questo ardente desiderio di cambiare stato, è forse altro che un’interna, incresciosa impazienza, che mi perseguiterebbe dovunque io movessi i miei passi?


28 agosto.

Non può negarsi: se la mia malattia non fosse di genere insanabile, questa famiglia avria già medicate le mie piaghe. Saprai che oggi è il mio dì natalizio. Or, fino dal primissimo mattino, mi capita da Alberto un piccolo involto: l’apro — e il primo oggetto che mi viene agli occhi, è uno de’ nastri rosei, che Carlotta portava quand’io la vidi la prima volta, e pel quale, d’allora in poi, l’avevo ripetutamente supplicata. E v’era inoltre un Omero del Wetstein, due graziosi volumetti in-12°, edizione ch’io sovente avevo cercata, per non trascinarmi dietro, nelle mie passeggiate, l’altra incomodissima dell’Ernesti16.

Così, amico mio, essi antiveggono i miei desidèri, così vanno in traccia di tutte le piccole seduzioni dell’amicizia, le quali mi giungono le mille volte più care che non quegli abbaglianti regali, con cui la vanità del donatore mortifica il nostro orgoglio. Oh, come ho baciato e ribaciato questo nastro! di quanti baci ancora lo ricolmo! Come a ciascuno de’ miei trasporti, a ciascun respiro, mi vien soave nel petto la ricordanza de’ dolci istanti ch’io ho passati in quei giorni, ah! tanto brevi — e felici tanto! — e svaniti oggimai senza speranza di ritorno!

Così è, o Guglielmo; nè io m’attento di mormorarne: i fiori della vita non sono che sfuggevoli apparizioni. Quanti di essi scompaiono, senza lasciar vestigio del loro passaggio sulla terra! come pochi son quelli che metton frutto — e come dei frutti pochissimi arrivano a maturità! — E tuttavolta ve ne hanno ancora quanto basta; se non che... E noi lasceremo negletti, o fratello, disprezzati, inassaggiati que’ frutti, che pur sono maturi? Li condanneremo noi a imputridire?

Addio. L’estate non potrebbe essere più splendida. Io seggo spesso sotto a qualche albero, nel giardino di Carlotta, e vo abbacchiando, a tempo a tempo, le pere, inerpicatomi fin sulla cima: e allora quell’amabile fanciulla raccoglie, a piè dell’albero, il canestro ch’io le sporgo.


30 agosto.

Sciagurato! Non sei tu pazzo? Non vai tu ingannando te stesso? A che questa forsennata passione che mai non ha fine? Il mio labbro non ha più preci — se non son quelle ch’io rivolgo a lei! Nessuna forma si offre più alla mia immaginazione, che non sia l’immagine sua; il mondo non esiste più per me, se non perchè ella v’esiste. — E questo delirio è pure la fonte di qualche ora piena di dolcezza, s’io non dovessi staccarmi ogni momento da lei!

Guglielmo! Guglielmo! a che mi spinge talora il mio cuore! — Quand’io mi sono assiso vicino a lei, le due, le tre ore sovente, e mi sono deliziato nelle sue forme leggiadre, ne’ suoi modi, nella celeste espressione delle sue parole, e i miei sensi, grado a grado, si son venuti esaltando, e mi si abbuiano le pupille, e l’orecchio appena distingue confusamente i suoni, e mi afferra le fauci una pressura, come il masnadiero cui stringe sul palco l’orrido nodo — e il mio cuore batte a palpiti di febbre, e anela un pugno d’aria — un sol filo — per sedare l’angoscia inesprimibile — e non fa che crescere la confusione de’ sensi... o mio Guglielmo, io, in que’ momenti, non mi so più se ancor viva!

Talvolta una blanda melanconia mi vince, e caccia ogni altro sentire. Carlotta allora m’assente il misero refrigerio del pianto — e piango nelle sue mani — e l’affanno ha sosta. M’alzo, e corro per la campagna; m’arrampico su per la costa ripida del monte, sento una pazza gioia d’andar frugando pel bosco, e aprirmi, a forza di braccia, un sentiero, attraverso gl’intrecci delle fratte e de’ cespugli, in mezzo alle spine delle siepi, che mi dilaniano tutte quante le carni. — E sto un po’ meglio; un poco! E allora la stanchezza e la sete mi sorprende nella solitaria foresta; ed io seggo su qualche ramo d’albero distorto, per alleviare il martirio delle mie piante insanguinate, e guato alla luna che piove tutti i suoi raggi sulla terra, finchè la fatica m’assonna. — Riposo non riparatore di forze!

Oh dolce amico! la solinga cella del cenobita, il suo cilicio di crini, il suo cordiglio di triboli, sarebbero un ristoro allo strazio della povera anima mia. — Addio. — La sola fossa può metter fine a tanta miseria.


3 settembre.

Bisogna assolutamente ch’io parta. Abbiti le mie grazie, amico, d’avermi rinfrancato nel mio vacillante proponimento. Corrono già due settimane che il disegno di abbandonarla m’è sòrto nella mente. Sì: convien partire: Ella è di nuovo da una sua amica, in città. E Alberto... insomma, è tempo — e me n’andrò.


10 settembre.

Che notte, Guglielmo! che orribil notte! — Ora io sento che sosterrò ogni cosa. Non la vedrò più, o Guglielmo! Deh, perchè non mi è dato di volare al tuo collo, di esprimerti con mille lagrime, e mille battiti, le sensazioni che mi fanno assedio intorno al cuore! Sono qui, colle labbra arse, con un’afa di spirito che mi affoga — e schiudo la bocca, avido d’uno spiro di brezza. E intanto aspetto, palpitando, la luce del crepuscolo: i cavalli saranno qui all’albeggiare.

Ah, ella dorme, a quest’ora! ella dorme tranquillamente e non sa ch’ella non mi rivedrà più mai! Mi sono schiodato: ho avuto forza bastante di padroneggiarmi, di non lasciarle intravvedere la mia risoluzione. Pure mi sono intrattenuto due intiere ore in discorsi con lei. Dio, che discorsi! che sera!

Alberto m’avea fatto promessa di scendere con Carlotta nel giardino, subito dopo cenato. Io mi stava sull’aperto terrazzo, sotto gli alti castagni, e seguiva collo sguardo il sole, ch’io dovea veder tramontare per l’ultima volta su queste valli ridenti, su questo placido fiume! Quante volte eravamo stati in quel medesimo luogo, Carlotta ed io, contemplando lo spettacolo sublime di quella scena! — Ed ora!...

Mi diedi a passeggiare su e giù, lungo il viale che m’è sempre stato sì caro! Un segreto moto di simpatia m’avea trattenuto sì spesso intorno a quegli alberi, prima che io conoscessi Carlotta: e come ci rallegrammo l’un coll’altra, quando, sui primi giorni della nostra amicizia, scoprimmo a vicenda il nostro amore per questo sito delizioso, uno de’ più romantici, senz’altro, ch’io abbia veduto mai fabbricarsi dalle mani dell’arte! Anzi tutto, la vista s’apre tra due castagni ad una vasta prospettiva, che ti schiera allo sguardo... Ma che! or mi sovviene d’avertene già scritto, e a lungo — o parmi — come un doppio filare di faggi ti cinga d’ogni intorno, e il viale si vada sempre più rinfoscando pel contiguo boschetto, finchè, da ultimo, s’arriva ad una geniale cerchiata17, piena dei sacri brividi della solitudine. Ancora mi ricorda la prima volta ch’io la visitava negli ardori del meriggio, e il senso che m’invase allora le fibre. Ah, un indistinto presagio mi susurrava nel cuore che il luogo sarebbe stato un giorno per me un asilo di soavi estasi e di dolore!

Una mezz’ora era forse passata, negli amari e dolci pensieri dell’addio e del ritorno, quando s’udì salire il terrazzo. Corsi incontro ai vegnenti; afferrai con un tremito la mano di Carlotta — e la baciai. Non sì tosto fummo sopra un’altra volta, che la luna fe’ capolino dietro ai cespugli del colle. Parlammo di varie cose; a poco a poco ci avvicinammo, senz’avvedercene, al- l’opaco gabinetto. Carlotta vi pose il piede e s’assise; dalle due parti, Alberto ed io. Ma la mia irrequietudine d’animo non mi permise ch’io stéssi lungamente: balzai in piedi, mi piantai ritto dinanzi a lei, poi cominciai a passeggiare su e giù; infine tornai a sedere. Era uno stato penosissimo. Ella ci fe’ osservare il magico effetto della luna, che illuminava all’estremità dei filari il terrazzo in faccia a noi: vista tanto più solenne che intorno a noi regnava un assoluto buio. Eravamo tutti in silenzio: di lì a poco ella prese a dire: «Non m’accade mai di passeggiare al chiaro di luna, mai, che non mi occorra subito il pensiero de’ miei defunti, che il sentimento della morte e dell’avvenire non occupi tutta me stessa. Noi rivivremo — proseguì ella con accento di commovente mestizia — ma ci scontreremo noi un’altra volta, o Werther? ci scontreremo noi? ci raffigureremo noi l’un l’altro scontrandoci? Che ne pensate? che dite?»

«Carlotta — io risposi, stendendole la destra, con una lagrima agli occhi — noi ci rivedremo certo! e qui, e in un’altra esistenza!» — Non mi fu possibile di continuare. — Oh Guglielmo! ed era appunto, mentre il mio cuore gemeva nell’idea della nostra separazione, ch’ella doveva indirizzarmi una siffatta domanda!

Carlotta ripigliò: «Pur chi sa se quei cari nostri hanno contezza di noi, s’ei sappiano i fatti nostri, e come, nelle nostre gioie, noi ci ricordiamo di loro con tenerezza! L’immagine di mia madre è sempre dinanzi a me, quand’io, la sera, m’assido tra i suoi figliuoletti, ora miei, ed ei si raccolgono intorno a me siccome soleano intorno alla buona donna. E sovente le lagrime mi piovono sulle guance, ed alzo gli occhi al cielo, nel mesto desiderio ch’ella mi guardi e vegga com’io adempia alla fede che le ho data, nell’ora della morte, d’essere madre a’ suoi figli. Oh, come io la prego, dal segreto dell’anima, di perdonarmi s’io non sono a quegli innocenti tutto ciò che ella era in vita! E mi par di ragionare con lei e di dirle: O madre, tu vedi ch’io fo per loro quanto le mie forze concedono: io li ho vestiti e nutriti, ed ho avuto ogni cura di loro e li ho amati: se tu potessi mirare la nostra concordia, o santa donna, renderesti grazie a quel Dio, che supplicavi con amaro pianto per la prosperità de’ tuoi diletti!»

Così ella parlava, o Guglielmo; ma chi può ripetere ciò ch’ella disse? La morta lettera mal può rendere immagine di questo celeste fiore del pensiero! Alberto la interruppe: «Per l’amor di Dio, mia buona Carlotta, questi pensieri vi commuovono troppo: cessate!» — Ed ella: «O Alberto, io so che tu non puoi dimenticare le sere, allorchè noi sedevamo insieme al tavolino, quando mio padre era partito, e i ragazzini s’erano coricati. Tu avevi sovente qualche buon libro, e nondimeno non ti riusciva quasi mai di leggere, perchè la presenza di quell’anima benedetta ci riempiva tutti di sè stessa. Non è vero, amico mio, ch’ella era una creatura soave e bella, e sempre lieta e operosa? Dio sa le lagrime, con cui sovente io l’ho pregato, nel coricarmi, perchè Egli mi facesse simile a lei.»

«Carlotta! — io gridai, gittandomi a’ suoi piedi e bagnandole di pianto la mano — Carlotta, la benedizione di Dio riposa sovra di te, e lo spirito di tua madre ti contempla dal cielo.» — «Oh! — diss’ella — se voi l’aveste conosciuta! — e mi strinse affettuosamente la mano: ella era degna d’essere conosciuta da voi.»

Mi pareva di morire: non mi era inteso mai proferire una più superba parola! — E continuò: «Il destino volle che una tal donna si morisse nel fiore appunto degli anni, quando ancora il più piccolo dei figli non aveva toccato i sei mesi! La sua malattia non durò molto: morì tranquilla, rassegnata: il solo pensiero dei figli l’angustiava, e sovra tutto del minore tra essi. Vedendolo appressarsi il suo fine, ella mi chiamò a sè e mi disse: Carlotta, non ti rincresca di condurmi i figliuoli. I più piccoli s’accostarono al letto della moribonda, senza intendere nulla di quella funebre scena: i più grandicelli erano costernati e tremanti. Quella pia sollevò le sue mani e pregò per loro, poi li baciò, l’un dopo l’altro, e li accommiatò; e a me disse: Mia figlia, tu sarai madre a quei derelitti. Ed io le diedi in pegno di fede la destra. Bada che la promessa — soggiunse — è grande, o figlia mia; l’occhio e il cuore d’una madre! Pure ho veduto sovente, dalle tue lagrime di riconoscenza, che questo sentimento non t’è ignoto. Sii dunque l’occhio e il cuore di madre ai tuoi piccoli fratelli ed alle sorelle, ed abbi per tuo padre l’obbedienza e la fedeltà d’una moglie: tu lo consolerai. — Domandò di lui: egli era uscito per nascondere a noi l’insopportabile ambascia che lo straziava. Povero padre! — E tu, Alberto, eri nella camera: ella udiva passeggiare, e ti chiamò a sè: e il suo morente sguardo cercò i nostri volti, girando dall’uno all’altro a vicenda, come s’ella non volesse partirsi di qui senza la certezza che noi saremmo felici, un giorno, in compagnia l’un dell’altro. E parea che l’avesse.»

Alberto le si gittò al collo e la baciò. «Sì, noi siamo felici, noi lo saremo — diss’egli.» Quest’uomo, sì riposato, era commosso in tutte le sue viscere: io non sapeva più ove mi fossi.

«E questa donna, o Werther — ripigliò Carlotta — questa donna dovea perire! Mio Dio! penso sovente come avvenga che noi lasciamo involarci quanto abbiamo di caro nella vita, senza opposizione veruna. I soli fanciulli sentono profondamente le cose: i nostri durarono lungo tempo a querelarsi che gli uomini neri avevano portato via la mamma.»

Carlotta s’alzò: io era tutto concitato, stravolto — e mi rimasi seduto, premendo tra le mie la sua mano. — «È tempo che ce n’andiamo» — osservò ella. Si provò a liberarsi la mano, ma io la serrai più stretta. «Noi ci rivedremo — esclamai — noi ci ritroveremo, noi ci ravviseremo sotto tutte le possibili sembianze. Io parto, e con lieto cuore; pure, s’io dovessi dire per sempre, non mi soffrirebbe certamente l’animo. Addio Carlotta! addio, Alberto! Noi torneremo a vederci.» — «Domani» — disse la Carlotta, sorridendo.

Quel domani mi rintronava stranamente nel cervello. Ah! ella ignorava, allorchè ritrasse la sua destra... Uscirono entrambi dal viale: io stetti un poco a riguardarli, nel mentre s’allontanavano: — il lume della luna batteva su di loro. Mi gittai a terra! sfogai nel pianto l’immensa piena del mio affanno; poi mi risollevai e corsi al terrazzo. Scòrsi ancora, sepolto tra l’ombra degli alti tigli, biancheggiare da lunge la sua candida veste, attraverso il cancello del giardino: — stesi convulso le braccia — era scomparsa18!

  1. Sospetto che Melusina, e la sua leggenda, siano tra noi poco note. Sono d’origine germanica, o almeno s’intrecciano nelle tradizioni germaniche; e forse non sono indegne d’una spiegazione, non foss’altro, per la singolarità della favola. — «Melusina, la bella, al cui nome s’appiccica una fiaba, che ha dato vita a parecchie scritture, era, al dire di taluni, un demone marino di sesso femminile; altri credono ch’essa discendesse, paternamente, da un re d’Albania e da una fata. Paracelso ne fece una ninfa; ma i più la vogliono una fata potente, che si unì in connubio con un principe della casa de’ Lusignani. Avea forme umane, ma a certi giorni era obbligata a comparire con aspetto a metà di donna e metà di pesce; ond’è che, in quelle condizioni, essa industriavasi di tenersi occulta al marito ed ai servi della casa. Nondimeno, un giorno che il marito, stimolato dalla curiosità di sapere che mai facesse Melusina nel suo ritiro, s’avvisò d’entrare improvviso nelle stanze di lei, la vide trastullarsi entro a un vaso d’acqua, tramutata in sembianze, in cui non avevala mai prima veduta. Senza lasciargli tempo di mostrare la sua sorpresa, Melusina, come si trovò scoperta, mise un alto grido — e scomparve. Da quell’ora, ogni volta che uno della casa de’ Lusignani era minacciato di qualche disastro, o che un re di Francia periva in modo strordinario, ella mostravasi in vesti brune, sull’alto della gran torre dei Lusignani, ch’ella medesima aveva fatto innalzare, mandando gemiti e sospiri. Solo allorquando la torre, nel 1574 rovinò, disparve Melusina per sempre.» — Così una Enciclopedia tedesca; la quale peraltro, come già avranno avvertito i lettori, non soddisfa che in parte, colla sua descrizione, all’intelligenza del testo che suggerì la nota. (Il traduttore.)
  2. Nelle carte ebraiche occorrono frequenti i passi che accennano all’importanza solenne delle fonti. Rousseau, nel suo Essai sur l’origine des langues, avea già citato il Capo XXI della Genesi, a proposito della querela insorta tra Abramo e Abimelech, per la violenta occupazione di un pozzo, che sortì poscia il nome di Beerseba, ossia pozzo del giuramento. Secondo il Capo XLVI dello stesso Libro, veniva esule, più tardi, a quel medesimo pozzo Israele, e vi facea sagrificii al Dio d’Isacco. Tutti sanno di Agar (Capo XVI), trovata dall’Angelo presso una fonte, nel deserto, che dai portenti annunciato è poi chiamato il pozzo della visione. Nel Capo II dell’Esodo, leggesi di Mosè, il quale, fuggendo dall’ira di Faraone, va a ricoverarsi tra’ Madianiti, ove s’asside ad un pozzo, e venutevi le figlie del Sacerdote, le aiuta ad attinger acqua e ad abbeverare il gregge, perchè il padre, a rimeritargli il servigio, gli assente una delle sue figliuole in isposa. Del resto, il pozzo, a cui in questa lettura si allude, vedesi ancora oggidì ne’ dintorni di Wetzlar, dinanzi alla così detta Porta di Wilbach (Wilbacher Thor), ed è visitatissimo dai viaggiatori. E gli abitanti, a memoria del poeta, l’hanno denominato il pozzo di Werther. (Nota del traduttore.)
  3. Heyne Cristiano Gottlob, nato nel 1729, morto nel 1812, letterato, archelogo e storico di soda fama, da non confondersi con altri del medesimo nome. Fu caro al Winckelmann; lavorò con esito pari all’intento intorno ai testi di Omero, Pindaro, Tibullo, Virgilio e Apollodoro. (Nota del traduttore italiano.)
  4. Non si dia briga il lettore d’indagare i luoghi che qui sono citati; perocchè si è stimato conveniente di mutare i veri nomi che si leggono nel manoscritto originale. (Nota dell’editore tedesco.)
    Dal libro intitolato «Goethe e Werther» ossia Lettere di Goethe scritte per la massima parte nel tempo della sua gioventù, venuto in luce a Stuttgart, nel 1855, raccogliesi che il nome vero del luogo, a cui qui allude l’Autore, è Garbenheim, sito di delizie, poco discosto da Wetzlar, nel regno di Prussia. — Wahlheim, del resto, significa dimora, o luogo d’elezione: ignoro se il caso o l’arte abbiano presieduto alla scelta del nome, ma mi reputo obbligato d’avvertirne i lettori che non sono infarinati di tedesco (Nota del traduttore italiano.)
  5. L’editore ha sentito la necessità di sopprimere questo passo dalla lettera, per non dare appiglio a chicchessia di lagnarsi; comecchè, a dir vero, i giudizi d’una sola fanciulla, e quelli d’un giovine di carattere incostante, non possano esere di gran peso per un autore. (Nota dell’editore tedesco.)
  6. Noto romanzo del Goldsmith, apparso nel 1766. (Il traduttore italiano.)
  7. Anche qui si sono tralasciati i nomi d’alcuni patrii scrittori. L’editore ha pensato che gli uomini, i quali sentono di meritarsi le lodi di Carlotta, debbono esserne avvertiti dal loro cuore, nel leggere questo passo della lettera. Gli altri non hanno bisogno di sapere che il passo esista. (Nota dell’editore tedesco.)
  8. Credo che l’Ode del Klopstock, a cui qui accenna l’autore, sia quella intitolata Die Frühlingsfeier: nessuna edizione e nessuna versione di queste Lettere, ch’io ricordi, la cita. Nota ai concittadini dei due grandi poeti, parmi degna d’essere conosciuta anche tra noi, a intelligenza, non foss’altro, del passo. Eccola in veste di prosa:

    «La Primavera.»

    «Io non mi precipiterò nell’oceano dei mondi, non mi solleverò alle sfere, dove i primi mortali adorano i giubilanti cori dei figli della luce, nel profondo dell’anima, e si sommergono nell’estasi.
    Solo intorno alla goccia del vaso, solo intorno alla terra io librerò le mie ali e starò in adorazione. Alleluia! Alleluia! La goccia del vaso piovve anch’essa dalla mano dell’Onnipossente.
    Allorquando dalla mano dell’Onnipossente scaturirono i maggiori pianeti, e i torrenti della luce scrosciarono, e comparvero le pleiadi — allora, o gocciola, tu stillavi dalla mano dell’Onnipossente.
    Or chi sono le migliaia, chi le miriadi tutte, che abitano, che hanno abitata quella goccia? — E chi sono io? — Alleluia allo Spirito Creatore! più che i pianeti creati, più che le pleiadi che’ebbero vita da un torrente di raggi!
    Ma tu, o insetto della Primavera, che in veste d’oro e di smeraldo, ti trastulli vicino a me, tu vivi — ed oh! non sei forse immortale?
    Io sono uscito per adorare — e piango! Perdona, perdona anche questa lagrima all’essere finito, tu che ancor non esisti!
    Tu mi solverai ogni dubbio, Tu che mi guiderai un giorno a traverso l’oscura vallea della morte! Io saprò allora se l’aureo insetto aveva un’anima.
    Oh, se tu non sei che plasmata polve, figlio del maggio, torna volubil polve, o ciò che piaccia altrimenti all’Eterno!
    Venite, o lagrime di gioia, venite ad irrorarmi ancora la pupilla! Oh arpa mia, esalta il Signore!
    Velata un’altra volta, tutta velata di palme è l’arpa mia; io canto il Signore. — E qui son io: e intorno a me tutto è onnipotenza e meraviglia — tutto!
    Ed io contemplo con profonda reverenza il creato, però che tu, o Senza-nome, tu lo creasti!
    O aurette, che mi aleggiate dintorno e spirate una soave frescura sul mio volto infocato, voi, aurette meravigliose, voi mandava il Signore, lo Spirito infinito!
    Ma ora elle s’acchetano — appena alitano più. Il sole del mattino cresce i suoi ardori; le nuvole accorrono e s’addensano: ecco ch’Ei si manifesta, l’Eterno viene!
    I venti s’agitano e romoreggiano e turbinano. Oh, come la foresta s’inchina, come la bufera s’innalza! Visibile, qual Tu puoi essere a’ mortali, eccoti, o Infinito!
    La foresta s’inchina, fugge il torrente, ed io non mi prostendo colla faccia a terra? O Signore, Signore! mio Dio misericordioso e clemente! Tu, o Vicino, abbi Tu pietà del mio nulla!
    Ti adiri Tu, o Signore, perchè la notte è la Tua veste? Questa notte è benedizione alla terra. Padre, Tu non Ti adiri!
    Essa viene a spandere la frescura sullo stelo corroborante, sull’uve rallegratrici dei cuori. Padre, Tu non Ti adiri!
    Tutto è silenzioso dinanzi a Te, o Vicino! Tutto è silenzioso dintorno. Anche l’insetto, vestito d’oro, si tace — e ascolta. Forse ch’esso non è senz’anima! Forse è immortale!
    Deh, potess’io, o Signore, esaltarti com’io anelo! Sempre più splendido ti manifesti Tu al cuore; sempre più scura, e più piena di benedizioni, si fa la notte dintorno a Te!
    Vedete voi il testimone del Vicino — il guizzante baleno? Udite voi il tuono di Jehova? L’udite, l’udite voi lo scrollante tuono del Signore?
    Dio! Dio! Signore di misericordia e di clemenza! Adorato, esaltato sia il Tuo splendido nome!
    E i venti della procella? — Ei portano il tuono. Come essi rombano, come essi corrono a guisa di fiotti a traverso la foresta! E ora si tacciono: lentamente passeggiano le negre nuvole.
    Vedete voi il nuovo testimone del Vicino — il fuggente baleno? Ei grida: Jehova! Jehova! — E la percossa foresta fuma!
    Ma non la nostra capanna. Il padre nostro ingiunse al suo devastatore di sorvolar chetamente la nostra capanna.
    Ah, già romoreggiano, già romoreggiano cielo e terra sotto alla benefica piova! Ora la terra — com’ella era sitibonda! — è rinfrescata — e il cielo s’è sgravato della sua piena ubertosa.
    Ecco Jehova non vien più nella bufera: in dolce, tacito murmure vien Jehova — e sotto a lui s’inclina l’iride della pace!» (Nota del traduttore italiano.)

  9. Il Lavater ci ha dato un’eccellente predica su questo soggetto, che leggesi tra quelle composte intorno al libro di Giona. (Nota dell’editore tedesco.)
  10. A questo voleva riuscire il Werther, al mal umore generato dalla gelosia. Ma allora le teorie e le ragioni generali più non reggono, perchè la gelosia ha molti medici, ma nessun farmaco, ch’io sappia. E chi la vorrebbe muta, od anche solo disciplinata, non ha amato mai, se non forse diplomaticamente, o alla maniera di quegl’isolani del Mar Pacifico, che includono la moglie nei doni dell’ospitalità, e s’arricciano contro lo straniero che non aggradisce l’offerta. Può dirsi della gelosia quel che un Francese della prudenza degli innamorati: «Dites donc à deux amants d’être prudents: dès qu’ils le sont ils ne s’aiment plus.» — «Chi ama teme» dice la Stuarda dello Schiller, o un passo a ogni modo di quella tragedia, se ben rammento: e questa è la spiegazione migliore della gelosia, come n’è la sola giustificazione. Analizzarne le ragioni metafisiche, o gl’ingredienti, e se abbia sede in un muscolo, o in un apparecchio più che in un altro, finchè tanta parte dell’uomo rimane inesplorata e geroglifica, e si tenzona di nervi, di visceri, d’organi encefalici, di temperamenti semplici o misti, e si va brancolando alla cieca tra la sostanza aromale di Fourier, e il trisplancnico, la midolla allungata, il fluido biotico, la glandola pineale, ed altre consimili fantasticaggini de’ fisiologi materialisti, è fatica sapiente e fruttuosa quanto quelle di Sisifo e delle Danaidi d’antica tradizione. (Nota del traduttore.)
  11. Il fiorino del Reno valeva 2.40 italiane del corso attuale; quella della Prussia lire 2.10. (Nota del traduttore italiano.)
  12. Intendi: ardere perpetuamente la lampada, senza bisogno di mai supplirvi l’olio (Nota del traduttore italiano.)
  13. Allude, come si vede, alla barite, conosciuta volgarmente sotto il nome di pietra di Bologna. (Nota del traduttore italiano.)
  14. La così detta silhouette, tanto in uso fra’ Tedeschi.
  15. Rammenta quell’antico dettato: Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiæ. (Nota del traduttore italiano.)
  16. L’edizione d’Omero, dell’Ernesti di Lipsia è in cinque volumi, e fu pubblicata dal 1759 al 1764. L’altra del Wetstein, svizzero, comparve, a quanto pare, in Amsterdam; ma ne ignoriamo il tempo. (Il traduttore italiano.)
  17. È la laube de’ Tedeschi, il berceau de’ Francesi. Ho tradotto cerchiata; ma, pur troppo, non è voce d’universale accettazione in quel senso, tra noi. Supplisca adunque il lettore; e se la pergola gli désse più nel gusto, s’accomodi. (Il traduttore italiano.)
  18. Gl’Italiani leggeranno alcuni passi di questa lettera, ed altri che per avventura li somigliano, senza torcere la bocca al sogghigno, o mostrarsene stupefatti. La natura germanica è più ingenua insieme e più paziente della nostra. Dove noi sospettiamo, essa fida; dove la gelosia c’inviperisce, sorride; dove tempestiamo, ragiona, vuol sincerarsi; ove infine noi sbuffiamo odio e vendetta, ella soffre, tace e perdona. Così almeno, nelle generali, quando la passione dell’amore ci è sopra. Nè è ad invidiarsi quell’indole, perchè Dio sa quel che ha fatto a sortire ad ogni popolo la sua; ma nè a disprezzarsi, pel solo motivo ch’è antipoda alla nostra. Forse la differenza sta tutta in questo, che l’amore, ne’ climi dove le brezze sono glaciali, ha regno temperato e mite; laddove, nelle elevate temperature, il tiranno regna e governa, e non tollera consiglio di ministri, non bavaglio di costituzioni, o spartimento di podestà che tenga in bilico le voglie. (Nota del traduttore.)

Note

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