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NOTE
NOTIZIA INTORNO ALLE EDIZIONI DI QUESTI CANTI1
I due primi furono pubblicati in Roma nel 1818, con una lettera a Vincenzo Monti. Il terzo, con una lettera al conte Leonardo Trissino, nel 1820 in Bologna. Dieci Canti, cioè i nove primi e il diciottesimo, in Bologna, nel 1824, con ampie annotazioni, e copia d’esempi antichi, in difesa di voci e maniere dei medesimi Canti accusate di novitá. Altri Canti pure in Bologna nel 1826: i quali, coi sopraddetti dieci, e con altri nuovi, in tutto ventitré, furono dati susseguentemente dall’autore in Firenze nel 1831. Diverse ristampe di questi Canti, o tutti o parte, fatte dalle edizioni di Bologna o dalla fiorentina, in diverse cittá d’Italia, essendo state senza concorso dell’autore, non hanno nulla di proprio. Undici componimenti non piú stampati furono aggiunti nell’edizione di Napoli del 1835, e gli altri riveduti dall’autore e ritocchi in piú e piú luoghi. Dei Frammenti, i due primi erano giá divulgati, gli altri non ancora. Le poche note poste appiè del volume furono cavate quasi tutte dalle edizioni precedenti. In questa parigina sono aggiunti per la prima volta i canti XXXIII e XXXIV, finora non istampati.
- ↑ Preparata per l’edizione che doveva fare il Baudry [Ed.].
Note
I, v. 74. — Il successo delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa canzone s’introduce a poetare, cioè da Simonide; tenuto dall’antichità fra gli ottimi poeti lirici, vissuto, che piú rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l’epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell’undecimo libro, dove recita anche certe parole di esso poeta in questo proposito, due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso dell’ultima strofe. Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e d’altra parte riguardando alle qualitá della materia per se medesima, io non credo che mai si trovasse argomento piú degno di poema lirico, né piú fortunato di questo che fu scelto, o piú veramente sortito, da Simonide. Perocché se l’impresa delle Termopile fa tanta forza a noi, che siamo stranieri verso quelli che l’operarono, e con tutto questo non possiamo tenere le lacrime a leggerla semplicemente come passasse, e ventitré secoli dopo ch’ella è seguita: abbiamo a far congettura di quello che la sua ricordanza dovesse potere in un greco, e poeta, e dei principali, avendo veduto il fatto, si può dire, cogli occhi propri, andando per le stesse cittá vincitrici di un esercito molto maggiore di quanti altri si ricorda la storia d’Europa, venendo a parte delle feste, delle maraviglie, del fervore di tutta un’eccellentissima nazione, fatta anche piú magnanima della sua natura dalla coscienza della gloria acquistata, e dall’emulazione di tanta virtú dimostrata pur dianzi dai suoi. Per queste considerazioni, riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza fossero perdute, non ch’io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell’animo del poeta in quel tempo, e con questo mezzo, salvo la disuguaglianza degli ingegni, tornare a fare il suo canto; del quale io porto questo parere, che o fosse maraviglioso, o la fama di Simonide fosse vana, e gli scritti perissero con poca ingiuria (Lettera a Vincenzo Monti, premessa alle edizioni di Roma e di Bologna).
III. v. 80. — Di questa fama divulgata anticamente, che in Ispagna e in Portogallo, quando il sole tramontava, si udisse di mezzo all’oceano uno stridore simile a quello che fanno i carboni accesi, o un ferro rovente quando è tuffato nell’acqua, vedi Cleomede, Circularis doctrina de sublimibus, l. ii, c. i, ed. Bake (Lugduni Batavorum, 1820), p. 109 seq.; Strabone, l. iii, ed. Amstelodami, 1707, p. 202 B; Giovenale, Satirae, xiv, v. 279; Stazio, Silvae, l. ii, Genethliacum Lucani, v. 24 seq.; ed Ausonio, Epistulae, xviii, v. 2. Floro, l. ii, c. 17, parlando delle cose fatte da Decimo Bruto in Portogallo: «Peragratoque victor Oceani litore, non prius signa convertit, quam cadentem in maria solem, obrutumque aquis ignem, non sine quodavi sacrilegii metu et horrore, deprehendit». Vedi ancora le note degli eruditi a Tacito, De Germania, c. 45.
III, v. 96. — Mentre la notizia della rotonditá della terra, ed altre simili appartenenti alla cosmografia, furono poco volgari, gli uomini, ricercando quello che si facesse il sole nel tempo della notte, o qual fosse lo stato suo, fecero intorno a questo parecchie belle immaginazioni: e se molti pensarono che la sera il sole si spegnesse, e che la mattina si raccendesse, altri immaginarono che dal tramonto si riposasse e dormisse fino al giorno. Stesicoro, apud Athenaeum, l. xi, c. 38 (ed. Schweighäuser, t. iv, p. 237); Antimaco, apud eundem, i, c. 238; Eschilo, l. c.; e più distintamente Mimnermo, poeta greco antichissimo, l. c., cap. 39, p. 239, dice che il sole, dopo calato si pone a giacere in un letto concavo, a uso di navicella, tutto d’oro, e cosí dormendo naviga per l’Oceano da ponente a levante. Pitea, marsigliese, allegato da Gemino, c. 5, in Petavio, Uranologia (ed. Amstelodami, p. 13), e da Cosma egiziano, Topographia Christiana, l. ii, ed. Montfaucon, p. 149, racconta di non so quali barbari che mostrarono ad esso Pitea il luogo dove il sole, secondo loro, si adagiava a dormire. E il Petrarca si accostò a queste tali opinioni volgari in quei versi: (canzone «Nella stagion», stanza iii)
- Quando vede il pastor calare i raggi
- del gran pianeta al nido ov’egli alberga.
Siccome in questi altri della medesima canzone, stanza i, seguí la sentenza di quei filosofi che per virtú di raziocinio e di congettura indovinavano gli antipodi:
- Nella stagion che ’l ciel rapido inchina
- verso occidente e che ’l di nostro vola
- a gente che di là forse l’aspetta.
Dove quel «forse», che oggi non si potrebbe dire, fu sommamente poetico; perché dava facoltá al lettore di rappresentarsi quella gente sconosciuta a suo modo, o di averla in tutto per favolosa: donde si deve credere che, leggendo questi versi, nascessero di quelle concezioni vaghe e indeterminate, che sono effetto principalissimo ed essenziale delle bellezze poetiche, anzi di tutte le bellezze del mondo.
III, v. 132. — Di qui alla fine della stanza si ha riguardo alla congiuntura della morte del Tasso, accaduta in tempo che erano per incoronarlo poeta in Campidoglio.
VI, v. i. — Si usa qui la licenza, usata da diversi autori antichi, di attribuire alla Tracia la cittá e la battaglia di Filippi, che veramente furono nella Macedonia. Similmente nel nono canto si séguita la tradizione volgare intorno agli amori infelici di Saffo poetessa, benché il Visconti ed altri critici moderni distinguano due Saffo; l’una famosa per la sua lira, e l’altra per l’amore sfortunato di Faone; quella contemporanea d’Alceo, e questa piú moderna.
VII, v. 29. — La stanchezza, il riposo e il silenzio, che regnano nelle cittá, e piú nelle campagne, sull’ora del mezzogiorno, rendettero quell’ora agli antichi misteriosa e secreta come quella della notte: onde fu creduto che sul mezzodí piú specialmente si facessero vedere o sentire gli dèi, le ninfe, i silvani, i fauni e le anime de’ morti come apparisce da Teocrito, Idillia, i. v. 15 seq.; Lucano, l. iii, v. 422 seq.; Filostrato, Heroicus, c. i, § 4 (Opera, ed. Olearius, p. 671); Porfirio, De antro nympharum, c. 26 seq.; Servio, Ad Georgicam, l. iv, v. 401, e dalla Vita di san Paolo primo eremita, scritta da san Girolamo, c. 6, in Vita patrum (ed. Rosweyde), l. i, p. 18. Vedi ancora il Meursio Auctarium philologicum, c. 6, colle note del Lami, Opera Meursii (ed. Florentiae), vol. v, col. 733; il Barth, Animadversiones ad Statium, parte ii, p. 1081, e le cose disputate dai comentatori, e nominatamente dal Calmet, in proposito del demonio meridiano della Scrittura volgata, Psalm. 90, v. 6. Circa all’opinione che le ninfe e le dèe sull’ora del mezzogiorno si scendessero a lavare nei fiumi e nei fonti, vedi Callimaco in Lavacrum Palladis, v. 71 seq., e quanto propriamente a Diana, Ovidio, Metamorphoseon, l. iii, v. 144 seq.
VIII, v. 47. — «Egressusque Cain, a facie Domini, habitavit profugus in terra ad orientalem plagam Eden. Et aedificavit civitatem». Genesi, c. iv, v. 16.
v. 117. — È quasi superfluo ricordare che la California è posta nell’ultimo termine occidentale di terra ferma. Si tiene che i californi sieno, tra le nazioni conosciute, la piú lontana dalla civiltá e la più indocile alla medesima.
XXIII, v. i. — «Plusieurs d’entre eux (parla di una delle nazioni erranti dell’Asia) passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins». Il Barone di Meyendorff, Voyage d’Orenbourg à Boukhara fait en 1820, appresso il Giornale des savants, 1826, septembre, p. 518.
v. 132. — Il signor Bothe, traducendo in bei versi tedeschi questo componimento, accusa gli ultimi sette versi della presente stanza di tautologia, cioè di ripetizione delle cose dette avanti. Segue il pastore: — Ancor io godo pochi piaceri (godo ancor poco); né mi lagno di questo solo, cioè che il piacere mi manchi; mi lagno dei patimenti che provo, cioè della noia. — Questo non era detto avanti. Poi, conchiudendo, riduce in termini brevi la quistione trattata in tutta la stanza; perché gli animali non s’annoino, e l’uomo sí: la quale se fosse tautologia, tutte quelle conclusioni, dove per evidenza si riepiloga il discorso, sarebbero tautologie. XXXII, v. 34. — Pelliccia in figura di serpente, detta dal tremendo rettile di questo nome, nota alle donne gentili dei tempi nostri. Ma come la cosa è uscita di moda, potrebbe anche il senso della parola andare fra poco in dimenticanza. Però non sará superflua questa noterella.
XXXIV, v. 51. — Parole di un moderno, al quale è dovuta tutta la loro eleganza.
I nuovi credenti, v. 95, «onde barone è Vito». — Celebre venditore di sorbetti, che, divenuto ricco, comperò una baronia e fu domandato il barone Vito (Nota di Antonio Ranieri).