Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.


D I S C O R S O 1


DI OTTAVIO FALCONIERI


INTORNO ALLA PIRAMIDE


DI C. C E S T I O


Ed alle pitture che sono in essa con alcune

Annotazioni sopra una Iscrizione

antica appartenente alla medesima.


Io sono andato più volte meco stesso divisando, qual benefizio fra tanti e tanti conferiti dalla Santità di N. S. Alessandro VII. alla città di Roma, debba reputarsi il maggiore, nè mai alcuno me se n’è all’animo rappresentato, il quale io stimi dover anteporsi, nè forse agguagliarsi alla magnificenza e grandezza d’animo usata a prò di essa da Sua Beatitudine in adornarla in tanti e sì varj modi; Imperciocchè quantunque grandissimi sieno, e ciascuno per se medesimo incomparabili quelli i quali quasi in ciascun anno del suo Pontificato, e specialmente ne’ primi Roma ha ricevuti dalla sua benefica mano; dalla quale ora dalla carestia, ora dalla pestilenza, ora dall’inondazione del Tevere fu liberata, sempre con ammirabil providenza e con liberalità singolare; nulladimeno parmi che questo tuttoche al presente stato della città non tanto forse giovevole quanto i già mentovati, non lasci però di essere il più considerabile per due ragioni principalmente: l’una perch’egli è volontario, ed in conseguenza manifesto argomento della benevolenza di chi n’è l’Autore; l’altra perch’egli è durabile sino a quanto dureranno le sontuose fabbriche fatte da Sua Santità, nè solamente è conferito a coloro i quali hanno in sorte di veder i primi risorger Roma alle sue primiere grandezze, e vincer per così dire se stessa antica; ma si comunica eziandio a nostri posteri, i quali se non avranno goduto della previdenza, della clemenza, e della giustizia di Alessandro VII., goderanno con dolce invidia de’ lor passati della magnificenza, e della liberalità di lui, ammirandone gli effetti dovunque a vagheggiar le sue bellezze si volgano.

A questo stesso benefizio d’abbellire con nuovi adornamenti le città niun altro con più ragione si può paragonare, e forse anteporre, che quello dì ristorare e mantenere in piedi li memorabili avanzi degl’antichi Edifizj . Imperocchè essendo quelli per lo più testimonj pubblici nelle città, o della pietà, e della beneficenza de’ principi, o del valore de’ cittadini, egli importa soprammodo al bene della Repubblica, che essi a più potere si conservino per dare esempio, e stimolo insieme agli uni ed agl’altri d’operar somigliantemente. Quindi è che in gran Consol. ad Heis venerazione furono sempre tenute da’ Romani le vestigia anche men considerabili dell’antichità; onde come osserva Seneca, quel popolo vincitor del mondo fra tanti edifizj che adornavano la cima del Campidoglio, conservava con somma cura la casa di paglia o capanna ch’ella si fosse, in cui era fama avere abitato Romolo nel primo nascimento di Roma. E però come azione lodevolissima, e degna di principe non men savio che grande si racconta di Alfonso Ant. Panormit. de dict. et fact. Re d’Aragona, che essendo mancate nell’assediar Gaeta le pietre da caricarne l’artiglierie, nè potendosene avere altrimenti, che col gettare a terra un’antica fabbrica, la quale credevasi essere stata la villa di Cicerone; volle piuttosto il Re far cessare le batterie, che permettere che si ruinasse una Alph Reg Arag. l. 1 benché inutile e forse non ragguardevole memoria d’uom così celebre. Ma questo più che d’ogni altro principe può dirsi con ragione pregio particolare d’Alessandro VII. e forse niun Pontefice ha avuto Roma, al quale sia stato maggiormente a cuore il mantenere in piè i laceri avanzi delle sue antiche bellezze. Essendochè non solamente la Santità Sua ha fitto usare ogni diligenza, perchè le memorie de’ passati secoli scolpite, e scritte ne’ marmi le quali di mano in mano vengono in luce, sieno, per quanto egli è possibile conservate diligentemente a pubblico benefizio, ma ha fatti ancora ristaurare molti avanzi quasi cadenti di fabbriche antiche, delle quali senza ciò si sarebbe affatto perduta la notizia, A questo nobil genio di Sua Santità dea attribuirsi altresì che il famoso portico del Panteon, di cui ingombralo prima nella parte di fuori da’ privati edifizj, appena si vedeva intera la faccia, apparisca da ambedue i lati liberamente scoperto al curioso aspetto de’ riguardanti, i quali mirando con stupore le gran colonne dello stesso marmo, e della stessa grandezza dell’altre del portico cavate nuovamente di sotterra e quivi condotte per riporle nel luogo, donde furon forse tolte via dall’altrui barbarie, sono da ciò astretti a considerare, quanto sia generoso l’animo di chi a si stupenda fabbrica ha renduto i suoi primi ornamenti, e come all’adempimento di così nobil desiderio, elle quasi per destino sieno state riserbate per lo spazio di tanti secoli. Ma sopratutte le altre cose operate da Sua Santità a questo fine, degnissima ed utilissima è stata quella di ristaurare la piramide di C. Cestio; si perchè egli era conveniente il mantener viva in Roma una delle più illustri memorie della sua antica magnificenza nel sepolcro d’un suo semplice cittadino, anche più riguardevole per la condizione di que’ tempi; sì anche per le cose che nel far ciò sono venute in luce degne d’esser sapute da’ curiosi dell’antichità. Ond’io per non defraudargli della notizia di esse, ho intrapreso di pubblicarle, parendomi convenevole, che, siccome Sua Beatitudine ristaurandolo ha adornato con tal opera la vera Roma, cosi quella, che descritta dalla penna del Nardini esce ora nuovamente in luce non apparisca dissomigliante da essa per la mancanza di questo nuovo ornamento, sperando ancora di far cosa grata a quelli, i quali si dilettano di simili studj, communicando loro una esatta descrizione del sepolcro sopraddetto, come si vede al presente, e delle pitture, che ancor durano in una stanza racchiusa in mezzo di esso, con alcune annotazioni fatte da me tanto sopra le iscrizioni scolpite nella piramide stessa, che sopra l’altra, la quale si legge replicata in due basi di marmo ritrovate nel cavare attorno alla medesima, come dirassi a suo luogo.

Essendosi dunque intrapreso per comandamento di N. S. di ridurre la piramide sopraddetta di ruinosa e cadente, ch’ell'era, allo stato, in cui presentemente si vede, e discoprirla fino al zoccolo, sul quale si posa, fu di mestieri abbassar per buono spazio attorno il terreno che la nascondeva, alzandosi in alcuni luoghi sino a 22. palmi. Nel far ciò furono ritrovati sparsi in quà, e in là i pezzi delle colonne di marmo scanalate, le quali messe insieme si veggono erette nel lato occidentale di essa sopra alcuni zoccoli di travertino assai rozzi ritrovati pur quivi, siccome anche le basi di esse colonne, e i capitelli assai vagamente lavorati, come si vede nella figura. Nel medesimo tempo trovaronsi ancora due basi quadrate di marmo, sopra una delle quali si vede un piede di bronzo, dalla cui grandezza si raccoglie che la statua, della quale egli è parte, poteva esser grande intorno a 14. o 15. palmi. Questa essere stata posta a Cajo Cestio si manifesta dall’iscrizione, che è la medesima nella base sopraddetta, e nella compagna sulla quale doveva essere l’altra statua: costume usato in altre occasioni dagli antichi, e di cui vediamo l’esempio in uno de’ due ponti che portano all’isola dì S. Bartolomeo, il quale essere stato restaurato dagl’Imperatori Valentiniano, Valente, e Graziano si legge in due iscrizioni dello stesso tenore poste nelle sponde di esso. Ad imitazione del qual costume nel magnifico arsenale fatto fabbricare a Civita Vecchia da N. S. è stata posta da ambedue le parti la stessa iscrizione. Queste due basi sostenenti le statue di Cajo Cestio erano, secondo me, situate ne’ due angoli della faccia orientale della Piramide riguardante la via Ostiense, come in luogo più esposto alla pubblica vista, e dovevano esser collocate sopra zoccoli di travertino somiglianti agli altri, che sostengono le colonne dalla parte opposta, se non che dove quelli sono larghi 6. palmi, questi ritenendo la medesima larghezza sono lunghi per appunto due quadri, cioè il doppio di essi, onde par che si possa credere probabilmente, che essendo le predette basi, le quali sono per l'appunto palmi 6. per ogni verso collocate nella metà del zoccolo, che guarda in fuori, l'altra più vicina alla piramide fusse occupata dalle colonne corrispondenti a quelle, che oggi sono in piedi, le quali o furono in altri tempi trasportate altrove, ed adoperate ad altro uso, o rimangono sepolte intorno alla piramide in sito diverso da quello, dove si è cavato.

S’alza la piramide sopra uno zoccolo di travertino alto palmi 3., e tre quarti, che le serve di basamento, all’altezza di palmi 164. e due terzi, distendendosi in quadro palmi 130. ed è incrostata tutta di lastre di marmo bianco grosse per lo più circa un palmo e mezzo. Il massiccio è di palmi 36. per ogni verso, dentro al quale al piano del zoccolo s’apre una stanza lunga palmi 26. larga 18. ed alta 19. La volta è di quel sesto, che comunemente si chiama a botte, e questa, siccome le pareti ne’ luoghi dov’esse non son guaste, si veggono Lib. VII
Cap. 6.
incrostate finissimamente di stucco, in quella guisa cred’io che da Vitruvio è ordinato dovere usarsi nelle muraglie, che hanno ad esser dipinte; cioè, che pestandosi più minutamente, ch’e’ si può, le scaglie del marmo tanto che si riducano in polvere, e quella poi vagliata diligentemente, e separata secondo la maggiore, e minor finezza in tre sorti; di tulle e tre mescolate con calcina, cioè prima la più grossa, e poi con l'altre di mano in mano si ricuoprano le pareti, e con istromenti a ciò atti quanto fa di bisogno si striscino. Nella sopraddetta stanza si veggono dipinte in diversi scompartimenti alcune figurine di donne, vasi, ed altri rabeschi a grottesca, delle quali pitture a suo luogo diffusamente si parlerà, avendole io fatto intagliare in rame per maggior soddisfazione degli studiosi.

La piramide com’ella è di presente, è descritta esattamente nella figura qui annessa, e solamente vi sono aggiunti i due zoccoli doppj ne’ due angoli verso Levante per dimostrare il sito, dov’è probabile come abbiamo veduto, ch’essi fussero anticamente.

Passando ora alle considerazioni, le quali sopra questo sepolcro di Cajo Cestio posson farsi io riconosco primieramente nella forma, ch’egli ha di piramide, il costume usalo dagli antichi, ed osservato da Servio sopra que’ versi di Virgilio: VII. Æneid.

... Fuit ingens monte sub alto
Regis Dercenni terreno ex aggere bustum
Antiqui Laurentis, opacaque ilice tectum.

Apud majores (dic’egli) nobiles aut sub montibus altis, aut in ipsis montibus sepeliebantur. Unde natum est, ut super cadavera, aut Pyramides fierent, aut ingentes collocarentur columnae. E però fu forse fatta anche a Scipione il distruttor di Cartagine la sepoltura a foggia di piramide nel campo Vaticano, come si raccoglie da Acrone nell'Ode IX. dell’epodo d’Orazio. Di questa, se si dee credere al Fulvio, durarono i vestigj non lungi Lib. IV cap. 31 dalla Mole d’Adriano fin ne’ tempi d’Alessandro VI. il quale la fece gittare a terra per aprire la strada da Castello al palazzo di S. Pietro, la quale si chiama oggi Borgo nuovo, e i marmi de’ quali all’era altresì incrostata, furono tolti via per testimonio del medesimo Fulvio, del Fauno e d’altri antiquarj dal Pontefice Donno I per lastricarne l'atrio cioè il cortile di S. Pietro. D’un’altra piramide pur di marmo Della Relig. de’ Romani. parla Guglielmo Choul nella spiegazione ch’egli fa della medaglia di L. Caldo. Ma dalla seguente Iscrizione, ch’egli dice leggervisi OPVS ABSOLVTVM DIEBVS CXXX EX TESTAM. C. CORNELII TRIB. PLEB. SEPTEMVIRI EPVLONVM, assai chiaramente si scorge esser ella la medesima di Cestio, benchè vi si ponga il nome dì Cornelio dal Choul, il quale per la poca notizia, che doveva avere delle antichità di Roma, dove per avventura non fu giammai, non potette accorgersi dell’errore Dial. VII. ch’egli prese copiando, siccome io credo questa iscrizione da Andrea Domenico Flocco Fiorentino, il quale sotto nome di Fenestella (come avvertisce Antonio Agostini) così per l'appunto la porta nel suo libro de’ magistrati Romani. Dell’inavvertenza del quale io tanto meno mi meraviglio. quanto che ho osservato l’iscrizioni, che sono in questa piramide per non so quale Speziai destino dalla maggior parte di coloro, i quali ne han parlato, essere state copiate scorrettamente. E sopra tutto è intollerabile la negligenza di chi nella Roma sotterranea stampata ultimamente pur qui in Roma le ha scritte nel modo, che segue, cioè quella della parte superiore,

C. CESTIVS. L. F. POB. EPVLO.
PV. IV. PL. VII. EPVLONVM.

E l’altra

OPVS. ABSOLVTVM. EX. TESTAMENTO.
DIEBVS. CCCXXX.
ARBITRATV. POMPEI. P. F.
CLOMELÆ. HÆREDIT.
ET. P. OST. LO.


Ma ciò suole avvenire ordinariamente, che in quelle cose, delle quali è più facile l’accertarsi della verità, si commettano maggiori errori per la trascuraggine con cui si fanno, e per la fidanza che si prende di starsene, come in cose già noto alla fede altrui. Quindi hanno origine tante opinioni false, che corrono intorno alle antichità. E di questa Piramide, nello quale a lettere di ben forse due piedi è scritto il nome di C. Cestio, era opinione del popolo al tempo d’Andrea Fulvio, ch’ella fusse il sepolcro Lib. VI cap. 31. di Remo, non peraltro forse, se non perchè ella è posta mezza dentro e mezza fuori delle mura di Roma; dalla quale opinione nata forse in più antichi tempi egli stima essersi mosso il Petrarca ad affermare in una delle sue epistole, che il sepolcro di Remo fusse ancora in piedi.

Intorno dunque alle sopraddette iscrizioni riportate da me fedelmente a’ suoi luoghi, giacché da tanti altri, che ne hanno parlato, non è stata fatta sopra di esse considerazione alcuna, non giudico fuor di proposito il dirne qualche cosa. E primieramente circa a quella, la quale si legge nella parte superiore delle due faccie, Orientale, ed Occidentale, ed è la seguente:

C. CESTIVS. L.F. POB. EPVLO PR. TR. PL.

VII. VIR. EPVLONVM.

parmi cosa degna d’osservazione, ch’essendo in essa chiamato Cestio con titolo d’Epulone.

C. CESTIVS. L. F. POB. EPVLO.


nella medesima poco appresso, dopo gli altri di Pretore, e di Tribuno della Plebe, se gli attribuisca quello di VII. VIR. EPVLONVM. quasi che l’Epulone ed il Settemviro degli Epuloni fussero cosa diversa. Io considerando ciò credetti a prima giunta la cagione di tal diversità doversi riferire a questo, che il Collegio di coloro, i quali avevano la cura d’apparecchiare gli epuli o conviti che vogliam dire, a Giove ed agli altri Dei, fusse composto di due sorte di persone, cioè alcuni, i quali come inferiori di grado avessero semplicemente il nome d’epuloni, e di altri, ch’essendo come i capi del collegio fossero chiamali prima con quello di Triumviri, e poi di Settemviri degli Epuloni; in quella guisa che oggi quelli i quali godono le dignità delle Collegiate, si distinguono ne’ titoli dagli altri pure del medesimo corpo. Su questo dubbio mi posi a ricercare se nelle iscrizioni, in cui si fa menzione di questo uffizio, o Sacerdozio ch’egli fosse, si trovasse esservi stati degli altri, i quali fossero nominati Epuloni semplicemente, o se dalla diversa qualità delle persone che aveano avuto la dignità di Settemviro potesse inferirsi essere stati questi da quelli diversi, come io dubitava. Ma la verità si è, che in tutte quelle che io ho vedute nella raccolta del Grutero, niuna ve n’ha, in cui si faccia menzione degli Epuloni semplicemente, ed il titolo di Settemviro si trova indifferentemente usato e da Imperatori come da Tiberio e da Nerone, e da personaggi grandi come da Dolabella, da L. Cornelio Sulla, da Munazio Planco, e da quel Tiberio Plauzio Silvano, il quale oltre al Consolato ed altri onori fu uno de’ principali ministri di Claudio nell’impresa d’Inghilterra, e da persone men note, come da un certo Cajo Salilo Arisleneto, da un altro Cajo Popillo Caro a tempo d’Antonino Pio, e finalmente anche da Liberti, come apparisce da quest’iscrizione.

VINICIO. COCTAEO, CALAT. 2
VII. VIR. EPVL. LIBERTO.
OPTIMO.       PATRONVS.

A’ quali cominciò forse ad accomunarsi, dappoiché Commodo prese senz’alcun riguardo a conferire le dignità anche più riguardevoli in persone vili, ed abiette: mentre por altro quella di Settemviro degli Epuloni essere stata fin ne’ tempi di Trajano in grande stima, pare che si raccolga da un luogo di Plinio il giovane, Lib. 2. Ep. 2. il quale scrivendo ad Adriano il successo dell’accusa fatta da lui in Senato con una lunghissima Orazione contro Mario Prisco accusato di peculato dagli Africani, conta fra le altre circostanze, che gli davano timore nell’orare in quella causa, la considerazione della qualità della persona, ciò ch’egli rappresenta con quelle parole: Stabat modo Consularis, modo Septemvir Epulonum, jam neutrum.

Rifiutata dunque quest’opinione, niun altra tanto verisimile me se ne appresenta, quanto quella di credere, che l’EPVLO in questo caso sia il cognome di C. Cestio preso nella sua famiglia a contemplazione del Settemvirato degli Epuloni, onore forse da essa frequentemente goduto, siccome da diverse dignità sagre essere stato uso di prenderlo si vede in altre famiglie, come quello di Augurino nella Genuzia , e nella Minuzia , di Flaminio nella Quinzia, di Camillo nella Furia , e nell'Ovinia, di Feciale nell'Annia, di Sacrovir nella Giulia, di Pepa, e di Sacerdote nella Licinia ; E ciò maggiormente si persuade dall'esser posta questa parola EPVLO immediatamente dopo quella di POB. ch'è il nome della Tribù Poblilia, (altrimenti Publilia , Lib 2. de Rep. Romana. o Popillia, come vuole il Panvinio col testimonio di molte iscrizioni) nel luogo appunto, in cui nella maggior parte delle iscrizioni antiche suol porsi il cognome nella guisa che si legge in quelli che nella faccia Orientale è posta più sotto:

OPVS. ABSOLVTVM.
EX. TESTAMENTO.
DiEBVS. CCCXXX.
ARBITRATV.
PONTI. P. F. CLA. MELAE.
HEREDIS. ET. POTHI. L.


Da questa istessa iscrizione si dichiara essere stata fatta la piramide ad arbitrio di Lucio Ponzio erede e di Potho liberto; cosa usata spesso da' Romani, come c'insegnano gli antichi marmi , ne' quali si legge essere stati fatti i sepolcri ora ARBITRATV HEREDVM semplicemente, ed ora di Liberti, e d'altre persone quivi nominate, e lo stesso si raccoglie da' Digesti , e particolarmente dalla Lib. 3 de funer. L. 6. de Condict. et denionstr. e dalla L. /^o. del medesimo Titolo come osserva Giovanni Kirkmanno . Onde fra 1. 1 §. 5. gli altri documenti, che Tiresia appresso Orazio dà a colui che andava a caccia delle eredità , questo ancora si legge.

. . . . Sepulcrum
Permissum arbitrio sine sordibus extrue.

E' ancora da osservarsi questo sepolcro essere stato fatto nello spazio di 330. giorni , cioè in meno d'un anno , non solamente per essere stata finita in sì poco tempo una fabbrica così magnifica, ma anche perchè da ciò si confermi 1'usanza che avevano gli antichi di prescrivere nel testamento agli Eredi, ed a chiunque aveva la cura di fabbricare il sepolcro, il termine dentro il quale doveva esser finito. Cosi nella L. 44: de Hæred. Instit. Paterfamilias duos hæredes instituerat in diebus certis, e più chiaramente nella L. 6. ff. de Condition. Instit. Si quis ita institutus sit: Si monumentum post mortem testatoris in triduo proximo mortis ejus fecisset.

Tom, 1. pag. 405 Nella Roma sotterranea si legge credersi, che questo sepolcro fosse comune eziandio agli altri Epuloni senza che si comprenda, se questa sia opinione del Bosio, o degli altri, i quali hanno avuto parte in quell’opera. Ma siasi di chi ella si voglia, non so quale fondamento possa avere; onde stimo soverchio il parlarne più oltre per riprovarla.

Avendo a bastanza ragionato di ciò che è nella parte esteriore della Piramide resta che si dica alcuna cosa delle pitture, le quali si veggono nella stanza in essa rinchiusa, della quale si è parlato di sopra, od in cui si entra per un piccolo corridore aperto nuovamente nel massiccio dalla parte occidentale; non essendovi prima: per quello che si vede altra strada per andarvi, se non quell’apertura, di cui apparisce l’entrata nel lato settentrionale in un piano assai più alto del presente, e per questa dovettero entrarvi il Bosio, e gli altri, i quali nella fine del secolo passato vi scrissero i lor nomi col carbone, Ella è di forma bislunga, come si può raccogliere dalle misure che ne ho già portate, ed è volta co’ minori lati all’entrata. Nella muraglia si vede dipinto attorno attorno un ordine andante di scompartimenti alti palmi 6. e larghi palmi 3. e mezzo, ciascuno de’ quali è intramezzato da un altro di altezza di palmi 6. e mezzo, ma non più largo di un palmo e un quarto, e quest’ordine vien terminato dal suo basamento di palmi 2. e mezzo, e dalla cornice distinta di linee di diversi colori, ed adornala di tanto in tanto di alcuni come piccoli fioretti. Negli scompartimenti maggiori, cioè nel mezzo di esso per ogni verso son poste le figure, ed i vasi come più distintamente vedremo poco dapoi, e ciascuno de’ minori è adornato d’un rabesco a grottesca, rappresentante, cred’io una specie di candelabro antico di bellissimi colori vagamente lavorato, il quale l’occupa per tutta l’altezza; le figure, le quali si sono conservate sono quattro; due nel lato destro, e due nel sinistro, in faccia luna all’altra, la sedente alla sedente, e l’inpiedi all'inpiè, e sono grandi circa un palmo e un quarto. I vasi cinque, due nel lato destro, uno nel lato manco, e uno dappiè a sinistra dell’entrata, dì forma e di proporzione diversi, e ciascheduno posato sopra il suo zoccolo. L’ordine col quale stanno tanto quelle che questi è lo stesso de’ numeri notati con differente serie sotto le une, e gli altri facendosi dalla sinistra all’entrare. La volta è riquadrata anch’ella nella sua parte inferiore da due come liste profilate pur di varj colori, e distanti l’una dall’altra intorno a un palmo e mezzo. In mezzo della medesima nella più alta parte vi è un altro riquadramento doppio della stessa fattura, dentro il quale è probabile esservi stata o l’imagine di Tom. 1 pag. 407 C. Cestio, come essere stata opinione del Bosio si ha nella Roma sotterranea, o qualche altra pittura guastata poi da chi o con la solita speranza di trovar qualche tesoro, o per altro facendovi una rottura, la quale occupa quasi tutto lo spazio di mezzo, tentò di farsi l’adito alla parte superiore della Piramide. Nello spazio che rimane fra i riquadramenti superiore ed inferiore vicino a quattro angoli del primo, si veggono altrettante figure di donne alate affatto simili, e di grandezza circa un palmo e mezzo, le quali tengono nella destra una corona, e nella sinistra un serto. E perchè troppo lungo sarebbe stato, e quasi impossibile il descrivere esattamente gli abili tanto di esse che dell’altre quattro figure, le cose eh" elle hanno in mano e l’altre circostanze necessarie a sapersi da chi voglia investigare quello a che abbiano allusione questa pitture, ho stimato bene di descriverle al vivo nelle tre carte, che dovranno accompagnare il presente discorso; la prima delle quali rappresenta la metà della stanza, com’ella è per r appunto, e l’ordine, e la disposizione delle cose in essa dipinte, l’altre due, i vasi e le figure in grande disegnate con quella maggior diligenza, che si è potuto, e sopra tutto con ogni fedeltà, massimamente in quelle cose; le quali possono alterare le conghietture degli uomini eruditi circa l’investigazione de’ riti antichi. Onde io non mi son voluto fidare in ciò del mio proprio parere, ma ho procurato, che dove era manchevole la pittura, o per essere la muraglia scrostata, o per altro, se ne rintracciassero i vestigj a giudizio di persone intendenti in questa materia, considerandogli a parte a porte, e seguitando quanto più si è potuto li contorni dell’antico.

Di questa pittura lasciò scritto Giulio Mancini Medico famoso del Pontefice Urbano VIII. in un suo Trattato delle pitture di Roma non ancora stampato, ch’elle possano esser opra di alcuno de’ Fabii, o di Pacuvio poeta, il quale, come riferisce Plinio, Lib. 35. cap. 10. dipinse il tempio d'Ercole nel Foro Boario; presupponendo forse, che Cajo Cestio fosse stato in tempi più antichi di quelli, ne’ quali egli veramente visse; cioè almeno più d'un secolo dopo Pacuvio, il che apparisce manifestamente dall’iscrizione ch’è nelle basi sopramenzionate, come vedremo; ciò ch’egli certamente non avrebbe affermato, se avesse avvertito, che gli Epuloni al tempo di Pacuvio erano tre solamente, e non sette come a quello di Cestio; al qual numero non potere essere stati accresciuti se non da Silla lib. 2 de Rep. Rom dimostra il Panvinio con argomenti assai probabili. Ma quando si volesse torre ad indovinare per via di conghietture cosi fatte, potrebbero piuttosto attribuirsi queste pitture a quell'Aurelio famoso dipintore, il quale fiorì in Roma poco innanzi Lib. 35. cap. 10. Augusto, e fa biasimato dall’istesso Plinio per aver corrotta l'arte dipignendo sotto l’imagine di Dee le femmine, dall’amore delle quali di tempo in tempo era preso.

Il medesimo Mancini le chiama del secol rozzo o puerizia della pittura Romana, il che non pare a me, riconoscendosi in esse, così guaste com’elle sono, e particolarmente nelle quattro figure degli spartimenti, una certa grazia, e leggiadria, che oltre al buon disegno mostrano, che sono opera di non volgare artefice, chiunque egli si sia.

Venendo ora alla dichiarazione di ciò, che io mi persuado ch’elle rappresentino, dico ch’essendo stato Cajo Cestio nel numero di coloro, i quali chiamavansi Settemviri degli Epuloni, è probabile, che nel sepolcro di lui si facessero dipignere da chi ne aveva avuta la cura quelle cose, nelle quali si potesse meglio conservar la memoria della dignità sacra, ch’egli godè vivendo. Della quale avendo parlato a bastanza, oltre a Livio, Gellio, e Macrobio, il Rosino, ed altri moderni, lascerò di dirne altro considerando solamente ciò che fa al proposito nostro, che a’ Settemviri degli Epuloni s’apparteneva l’apparecchiare l’Epulo agli Dei, e particolarmente a Giove; qualora in occasione di vittorie solenni, o per timore di qualche grave calamità sovrastante alla republica facevasi quella cerimonia sagra In quale appresso i Romani chiamavasl Lettisternio, come si ha in moltissimi luoghi di Livio. A tale apparecchio stimo io, che si riferiscano le cose rappresentate in queste Pitture, dalla quale opinione, per mio avviso, non si allontanerà chiunque consideri ciò, che ha in mano la Figura contrassegnata col numero II. ch’è un bacino, o piatto grande, in cui oltre ad alcune foglie verdi le quali dinotano erbaggi, si vede una cosa di color giallo, e di forma tale, che non può quasi giudicarsi esser altro, che una torta o placenta, com’essi la chiamano, cibo usato da’ Romani frequentemente, e sopra tutto ne’ Conviti sagri. Anzi Giovanni Brujerino, il quale ha scritto particolarmente di questa Lib. 6 cap. 7. materia, afferma con l’autorità di Ateneo, esservi stata una sorte di Placente, la quale si usava solamente ne’ Pervigili, cioè in occasione de’ Conviti sopraddetti, co’ quali andava sempre unito il Pervigilio. Porta dunque la suddetta figura in quel piatto diverse sorte di cibi, e di cibi tali quali per l’appunto Dionisio Alicarnasseo narra di aver veduto usare Lib. 2. a Roma ne’ conviti, i quali si apprestavano ne’ Tempi agli Dii, cioè: ἀλφίτων μάζας καὶ πόπανα καὶ ζέας καὶ καρπῶν τινων ἀπαρχὰς καὶ ἄλλα τοιαῦτα λιτὰ, καὶ εὐδάπανα καὶ πάσης ἀπειροκαλίας ἀπηλλαγμένα: Polente di farina, Placente, farro le primizie d'alcune frutta, e cose simili semplici, e di poca spesa, senz’alcun lusso ed artifizio.

Nè voglio tralasciare, ciò che fa in qualche modo al proposito nostro, che fra l’altre cerimonie usate in occasione de’ giuochi Secolari, nel qual tempo si facevano particolarmente i Leltisterni e gli Epuli agli Dei, una era di dare a chi faceva la funzione, le primizie dell’orzo, e del grano; e delle fave; e da questo costume dichiara eruditamente il Panvinio una medaglia battuta a Domiziano in tempo de’ giuochi Secolari, nel rovescio de la quale innanzi a un De lud. Saec. Tempio si vede l'Imperatore sedente sopra il suggesto in atto di distribuire a due figure, che gli stanno a lato, ciò, che sta in tre diversi vasi posti a’ suoi piedi, e vi si legge FRVG. AC. A. POP. cioè fruges acceptae a populo. Porta anche questa stessa figura nella sinistra un vaso non molto grande, e con un manico solo; onde pare assai somigliante a quelli che si chiamavano urceoli, i quali servivano, come si usa oggidì ancora in Francia, a dar da bere alle mense. Ne’ vasi degli spartimenti, figurati di tenuta grande, e di forma differente dagli altri adoperati ne’ sagrifizj, io ravviso quelli, i quali scrive Varrone, che sino a’ suoi tempi si ponevano su le mense degli Dei. Lib. 4. de l. l. Vas vinarium grandius Sinum ab sinu; quod sinum majorem cavationem, quam pocula habebat. Item dicta * O Lepesta, come vuole Giuseppe Saligero Depesta etiam nunc in diebus sacris Sabineis vasa vinaria in mensam Deorum sunt posita. Nelle Tibie, le quali tiene nelle mani la terza Figura, si veggono alcuni piccoli pivoli, i quali servivano, secondo me, ad uso di tasti, come nelle Sordelline, ed i fori onde si formava il suono, assai distanti l'uno dall’altro, e ciò le dinota più antiche, e diverse da quelle, che usavano a tempo di Orazio, così descritte da lui:

Epist. ad Pisones

Tibia non, ut nunc, orichalco vincta, tubaeque
Æmula, sed tenuis, simplexque foramine pauco.

Ora queste usavansi nelle solennità de’ Conviti sagri per quella stessa cagione, per la quale si adoperavano ne’ sagrifizj, e nell" altre pompe sagre, nel numero delie quali solennità è annoverata anche Lib. 1. Sat. c. 16. questa da Macrobio: Sacra celebritas est, vel cum sacrificia dis offeruntur, vel cum dies divinis epulationibus celebratur. E nell'antico Calendario intagliato in un marmo, ch'è nel Palazzo di Farnese, si legge sotto il mese di Settembre. EPVLVM MINERVALE; ed in quello dì Novembre IOVIS EPVLONVM. Anzi è da osservarsi al proposito Lib 10. de Arte Gramm. nostro, ciò che si ritrae da Mario Vittorino, che in simili occasioni usassero le Tibie lunghe, quali sono quelle, che tiene la soprammentovata figura, e osservazione di questo costume dichiara ingegnosamente il Turnebo, perchè Ottone, come racconta Lib. 17. cap. 20. Svetonio nella Vita di lui., essendo per un turbine sopravvenuto, mentre egli stava pigliando gli augurj, caduto in terra, dicesse più di una volta adirato, e pien di dispetto γάρ μοι καὶ μακροῖς αὐλοῖς; Che ho io da fare con le Tibie lunghe? intendendo per esse le cerimonie sagre, le quali egli allora stava facendo. Dalla quarta figura similmente, quando ella abbia allusione a ciò, ch’io vado immaginando e che son per dire appresso, può ritrarsi qualche indizio, da non disprezzarsi in confermazione della mia opinione. Ella siede sopra uno sgabello a foggia di trespolo, ed ha nelle mani una tal cosa, la quale io dopo averla più volte attentamente considerata, a niun’altra ho saputo meglio assomigliare, secondo il parere ancora di molti altri, a’ quali l’ho fatta vedere, che ad una tavola da scrivervi, o volume, ch’egli debba dirsi, e tale veramente lo dimostrano non solamente la figura, ch’egli ha d’un quadrilatero terminante manifestamente in angolo; ma ancora la positura della mano, la quale benissimo si conosce passar sotto al detto volume, e l’atto della figura medesima riguardante quello, ch’ella ha nelle mani, come di chi per appunto leggesse un libro.

Posto che ciò sia, due cose potrebbero significarsi, secondo me da questa figura. Una (e questa io non intendo di proporla se non come un semplice pensiero passatomi per la mente) che il volume, ch’ella ha in mano, possa avere allusione a’ libri Sibillini, a’ quali si aveva ricorso ne’ bisogni più urgenti della Republica per vedere, quali Dei si dovesse cercar di placare, ed in qual modo; onde poi si decretavano i Lettisiernj, ed insieme gli Epuli, come si ha in infiniti luoghi di Livio, essendoché all’uffizio degli Epuloni si apparteneva l’avvertire i Pontefici de’ mancamenti, i quali si commettevano contra i riti della Religione ne’ Giuochi, o nell’altre Cerimonie sagre; perchè essi vi provvedessero, e ciò De Atrusp. repons. insegna Cicerone in quelle parole: Vosque Pontifices, ad quos Epulones Jovis Opt. Max. si quod est prætermissum, aut commissum adferunt, quorum de sententia eadem revocata celebrantur. L’altra si è il costume usato non solamente da’ Romani, e da’ Greci di celebrare ne’ conviti le lodi de’ loro falsi Dei, ma ancora da’ Cristiani pe’ primi tempi della Chiesa, e prima dagli Ebrei, di cantare in simili occasioni Inni in ossequio del vero Iddio. Il che se da’ Romani in tutto ciò, che alla Religione si apparteneva, oltre modo superstiziosi usavasi nelle cene private; molto più è verisimile, che ciò si facesse in que’ Conviti, che agli stessi Dei si apparecchiavano a cagione di domandare il loro ajuto ne’ bisogni pubblici, ovvero ne' Pervigili, i quali prima che ad essi si desse cominciamento duravano per buono spazio della notte, siccome osserva Volfango Lazio. De Rep. Rom. libro II. cap. 5. Può essere ancora, ohe in ciò si alluda a que’ versi, che negli anni Secolari cantavansi in Greco, ed in Latino da’ fanciulli, e dalle fanciulle, come quelli che abbiamo d’Orazio; giacché una delle principali funzioni, le quali si facessero in tale occasione, era quella de’ Lettisternj, e Pervigili. Ed Erodiano parlando Lib. 3. cap. 8. de’ giuochi Secolari, i quali sotto Settimio Severo, ed Antonino Caracalla si celebrarono per l’ottava volta l’anno di Roma 957. conta di aver veduto particolarmente ἱερουργίας τε, καὶ παννύχιδας ἐπιτελεθείσας εἰς μυστηρίων ζῆλον, cioè sacrificii (non supplicationes, come traduce il Poliziano) e Pervigilj ad imitazione de’ Misterj di Cerere.

Questa medesima figura essendo posta a sedere non è da credersi, che ciò sia stato fatto a caso; e quindi io stimo potersi trarre indizio, che nelle solennità de’ Lettisternj si usasse dì sedere, secondo quello stesso rito, per cui, non solamente gli Antichi sedevano nel prendere gli auguri, come c’insegnano Plutarco nella Vita di Marcello, e Servio sopra quel luogo di Virgilio: Ænei. 9.

.... Luco tum forte parentis
Pilumni Turnus sacrata valle sedebat.

Ma ancora nell’adorar gli Dei, nel fare i voti, forse in altre funzioni sagre. Di questo fanno testimonianza S. Agostino ne’ libri della Città di Dio Lib. VII. con l’autorità di Varrone Lib. 1. cap. 10, e Macrobio ne’ Saturnali, affermando, che ad Opi, la quale i Gentili credevano essere il medesimo, che la Terra, si concepissero i voti a sedere. Quello si raccoglie da un Lib. 2. Eleg. 28 luogo di Properzio, il quale promette a Giove in nome della sua donna inferma, dov’egli le rendesse la sanità, atti di rendimento di grazie, e di venerazione in quel verso.

Ante tuosque pedes illa ipsa adoperta sedebit.

Lib. 2. Eleg. 7 E da quell’altro di Tibullo,

''Illius ad tumulum fugiam, supplexque sedebo.

Nelle Quistioni Rom. E più chiaramente da Plutarco Autore de più versati nella cognizione de' Riti Romani in quelle parole: Ἢ καθάπερ ἔτι νῦν προσευξάμενοι καὶ προσκυνήσαντες ἐν τοῖς ἱεροῖς ἐπιμένειν, καὶ καθίζειν εἰώθασιν Ovvero, come anche al presente nell’orare, e nell’adorare usano di formarsi ne’ tempj, e di sedere. Il misterio, ch’era in questo rito vien dal medesimo dichiarato nella Vita di Numa, dove fra l’altre cose, ordinate da quel Re ad imitazione de’ Pittagorici, annovera το κάθησθαι προκυνήσαντας cioè che quelli, i quali adoravano (gli Dei) sedessero, adducendone appresso la ragione nelle seguenti parole, τὸ δὲ καθέζεσθαι προσκυνήσαντας οἰωνισμὸν εἶναι λέγουσι τοῦ βεβαιότητα ταῖς εὐχαῖς καὶ διαμονὴν τοῖς ἀγαθοῖς ἐπιγίνεσθαι: lo stare a sedere quelli, che adorano dicono (i Romani) essere augurio della confermazione delle preghiere, e della durata delle felicità. Quindi con ragione Tertulliano riprende coloro, i quali a’ suoi tempi ritenendo ancora questo De Oratione abuso della Gentilità usavano di orare stando a sedere. Porrò (dic’egli) cum perinde faciant Nationes adoratis sigillaribus suis residendo, vel propterea in nobis reprehendi miretnr, quod apud Idola celebratur. Nè sarebbe forse cosa affatto vana di credere, che per una simil misteriosa cagione si rappresentassero a sedere la maggior parte delle Deità femminili, come io ho particolarmente osservato nelle medaglie, e specialmente in quelle, che battute in occasione d’infermità degl’Imperatori, o della ricuperata sanità di essi, hanno nel rovescio la Dea Salute con l’ara avanti, e con la patera in mano.

Alle conghietture adotte fin’ora si aggiugne quella, la quale può cavarsi dalla prima Figura, ed è mio parere la meno inverisimile, quantunque soggetta a molte opposizioni. Questa è posta anch’essa a sedere, ed ha innanzi a mio credere una di quelle mense le quali si chiamavano Monopodj, cioè Tavole d’un sol piede, l’uso delle quali riferiscono Livio, e Plinio essere stato introdotto in Roma dopo Lib. 39
Lib. 34. cap. 3.
Ne' Com. sopra Vitruv. lib. 6.
la guerra d’Asia, e di questa sorta testifica Guglielmo Filandro di averne vedute scolpite alcune in diversi Bassirilievi, di forma rotonda, come per l’appunto dovevan esser quelle, che in diversi luoghi di Cicerone, di Marziale, e di Giovenale vengono chiamate con nome Orbes, né senza misterio, se crediamo a Plutarco , il quale afferma, che elle si facevano in questa forma ad imitazione della Terra, la quale ci alimenta, ed è anche essa ritonda. Parrà forse ad alcuno, che il giro di questa sia piccolo per una mensa, nè io il niego; ma oltre che di simil piccolezza si veggono figurate nella Notizia dell’uno, e l’altro Imperio, e poco maggiori ne’ Bassirilievi, dove sono anche due, e tre persone a mangiare, e che i Dipintori per lo più si contentano di accennar le cose senza ohbligarsi all’esattezza delle proporzioni, e delle misure, è da sapersi, che gli Antichi ne’ loro Conviti ogni volta che portavan nuovi servizj mutavano ancora le tavole, come dimostra Lib. de Vasc. ampiamente il Baifio con l’autorità di molti Scrittori antichi, onde poi metaforicamente il nome di mense prime, e seconde attribuivasi a’ cibi, che secondo quest’ordine in esse ponevansi; e perciò è credibile, che affinchè elle potessero facilmente portarsi da un luogo all’altro, si facessero assai raccolte, massimamente se fusse vera l’opinione di coloro, i quali mossi da alcuni luoghi d’Omero, hanno creduto, che si usasse anticamente di porre a ciascuno de’ Convitati una mensa da per se. L’atto della figura, la quale stende la mano verso di essa, accresce forza alla conghiettura, siccome ancora lo stare ella a sedere; essendo noto, che le donne ne’ Conviti mangiavano sedendo; e come avvertisce il Lazio De Rom. Rep. lib. 2. cap. 5.. altre volte citato, era rito speziale de’ Lettisternj, che dove Giove, e gli altri Dei stavano a giacere, Giunone, Minerva si ponessero sedenti. Le figure alate, dipinte come s’è detto, ne’ quattro canti della volta, non credo potersi dubitar da alcuno, che elle non sieno immagini di Vittorie quivi figurate, o perchè in occasione d’aver vinto, e soggiogato alcun popolo inimico si facevano agli Dei, e particolarmente a Giove nel Campidoglio i Conviti, de’ quali si tratta; o perchè nella rappresentazione di questa solennità tornasse in acconcio il figurarvele per quella stessa ragione, per la quale le Vittorie si fingevano, che assistessero a diverse altre, come si vede in un Basso rilievo rappresentante la Deificazione d’Ercole, il quale si conserva nella Guardaroba del palazzo Farnese, ed in un altro, ch’è nel Giardino del Serenissimo Gran Duca di Toscana alla Trinità de’ Monti, ed in una medaglia di bronzo mezzana portata da Fulvio Orsini nella Famiglia Oppia, appartenente a Quinto Oppio Pretore, nel rovescio della quale è una Vittoria in tutto il resto somigliante a questa, se non ch’ella ha nella destra un lunghissimo ramo di palma, e nella sinistra (ciò che è ancora da osservarsi al proposito nostro) un bacino entrovi de’ pomi, o cose simili da mangiare. Quello, che io ravviso di particolare, e che fuse è fatto per dinotare più espressamente, a qual fine esse vi sieno state poste, è il serto, ch’elle hanno nella man manca, somigliante, per quanto si può conoscere per la sua piccolezza nella pittura scolorita, a quelli, che si veggono in mano a persone, che stanno a mensa in moltissimi Bassirilìevi. i disegni de’ quali si conservano nel famoso Studio del Commendatore Cassiano dal Pozzo e dal Commendator Carlo Antonio suo fratello mi sono stati cortesemente comunicati. Io so bene, che a molti di quelli, i quali non avranno vedute le pitture istesse, non parerà, che questi, ch’io dico esser Serti, sieno veramente tali: ma se vedessero, ch’essi sono del medesimo colore, che le corone tenute nella destra dalle stesse Vittorie, e considerassero, che attesa la rozzezza della pittura, alcuni tratti della quale, onde talora si distuguon le cose, non seno imitabili da chi intaglia in rame, confesserebbero agevolmente, che la somiglianza, la quale essi hanno di que’ lacci nell’estremità co’ già detti de’ Bassirilievi, e con quelli, che pendono dalle Cercne istesse, è motivo bastante per render probabile la mia opinione, la quale siccome tutte l’altre, io porto nel presente Discorso, non pretendo di proporre a’ Lettori, se non come semplici coghietturare

Rimarrebbe, che si dicesse qualche cosa di que’ Rabeschi, i quali ho detto esser negli scompartimenti fra l’un riquadramento, e l’altro, i quali benché sieno fatti a foggia di Candelabri, non credo, che abbiano relazione alcuna col rimanente della Pittura, come semplici Grottesche, ch’elle sono: nella qual sorta di pittura biasimata da Vitruvio, come Lib .VII. cap. 5. disdicevole secondo le regole dell’arte, si usava specialmente di fare de’ Candelabri nella forma, che dal medesimo Autore sono descritti nelle seguenti parole: Idem Candelabra ædicularum sustinentia figuras super fastigia earum surgentes ex radicibus cum volutis, coliculi teneri plures habentes in se sine ratione sedentia sigilla; non minus etiam ex coliculis flores dimidiata habentes ex se exeuntia sigilla alia humanis alia bestiarum capitibus similia. Della qual sorta di Grottesche moltissime non men belle, che stravaganti raccolte con particolare studio da’ Dipintori eccellenti si hanno in diverse Carte stampate, si veggono imitate nelle Loggie del Palazzo Vaticano, ed altrove.

Egli è ben cosa degna di osservazione, perchè in questa Pittura sieno solamente rappresentate figure di Donne, e forse da ciò sì moverà taluno a dubitare, ch’ essa ad altro si riferisca, che alle cerimonie sagre de’ Lettisternj, e de’ Conviti degli Epuloni. Ma questo semplice dubbio, quando non sia avvalorato da argomenti, che dimostrino il contrario, non è bastante, per mio avviso, a render meno probabile l’opinione, la quale fin qui ho cercato di stabilire. Imperocchè non avendosi dagli antichi Scrittori notizie particolari delle cerimonie, che ne’ predetti conviti facevansi, né della qualità de’ ministri, i quali avevano a fare nell’apparecchio di essi, nè delle persone, che c’intervenivano, nè essendoci per altro conghiettura veruna, la quale ci persuada il contrario, nulla ci vieta il poter credere, che per qualche ragione a noi ignota, le donne avessero luogo in quella solennità, siccome esse l’avevano in diverse altre Feste, e Sagrifìzj. E dall’altra parte sappiamo; che le medesime non solamente servivano negli apparecchi de’ Conviti, come si cava da un Basso rilievo, ch’ è nella Vigna de’ Giustiniani alla Porta del Popolo, ma anche di dar da bere, ciò, ch’essersi fatto dalle fanciulle scrive Volfango Lazio Lib. 3. de Rep. Roman.
Lib. 5 Antiq. Conv
.
già mentovato, e di sonar le Tibie, come osserva Guglielmo Stuchio, e queste chiamavansi da’ Greci αυλητρίδαι, cioè Sonatrici delle Tibie. E da Suida si fa menzione di alcune Donne chiamate δειπνοφόροι: cioè, come dichiara egli stesso φέρουσαι τοῖς κατακεκλιμένοις ἐν τῷ τῆς Ἀθηνᾶς ἱερῷ τὰ δεῖπνα. Quelle, che portavano da cena a coloro, i quali stavano a mensa nel Tempio di Pallade. Oltre di ciò, che le Donne nominatamente, e da per se sole 15. ann. Celebrassero talora i Lettisternj, è manifesto da un luogo di Tacito, dov’egli raccontando i sagrifizj, e l’altre cerimonie sagre, le quali per placare gli Dei irritati dalle sceleraggini di Nerone si erano fatte in quell’anno, cosi dice: Mox petita a Diis piacula, aditique Sibyllæ libri, ex quibus supplicatum Vulcano et Cereri Proserpinæque ac propitiata Juno per Matronas, primum in Capitolio, deinde apud proximum mare. Unde hausta aqua Templum et simulacrum deæ perspersum est; et lectisternium ac pervigilia celebravere Feminæ quibus mariti erant.

Da tutte le sopraddette cose stimo, che si possa probabilmente conchiudere, queste Pitture, siccome proposi da principio, non per altro essere siate fatte nel sepolcro di Cajo Cestio, che per mantener viva in esse la ricordanza della dignità di Settemviro degli Epuloni goduta da lui. Opinione, ch’io non intendo di proporre a’ Lettori, se non come fondata su quelle incertezze, fra le quali è costretto a ravvolgersi chiunque muove il passo per la folta nebbia dell’Antichità. Ma qualunque ella sia a miglior fondamento di ragioni la giudico appoggiata, di quella di chi stimò, che in esse si rappresentassero cose appartenenti a Funerali, ed a quelle cerimonie, che dagli Antichi chiamavasi Instauratio funeris, argomentando ciò dalle Tibie, che ha nelle mani la terza Figura, dal vaso, che porta nella man manca la seconda, ch’egli stima esser quello dell’acqua lustrale, e da’ Panieri di fiori, che e’ suppone avere in mano l’altre due Figure sedenti. Ma oltre che intorno a quest’ultime il fatto non è cosi, avendo esse nelle mani cose tanto diverse (ed in ciò sia pur certo il Lettore di non essere ingannato) a quest’ opinione, per altro ingegnosa, si oppone manifestamente il vedere, che le donne sono vestite di diversi colori, e taluna di esse con vesti fregiate da piè di una lista di diverso colore, e somiglianti a quelìe, delle quali Catullo finge, che fussero vestite le Parche, In Argonaut. cosi descrivendole.

His corpus tremulum, complectens undique vestis
Candida, purpurea talos incinxerat ora.

Ad imitazione di Orfeo, appresso il quale le Parche In Hymn. Parcar.. sono descritte nello stesso modo.

....πορφυρέοισι καλυψάμεναι ὀθόνησι .


È forse di quella sorta, che in una epistola di Gallieno portata da Trebellio Pollione nella Vita di Claudio il Gotico si chiamano Limbatæ. Il che repugna dirittamente a ciò, che appresso i Romani si usava in occasione di mortorj, ed era, che le donne ne’ tempi più antichi vi andavano sempre vestite in nero, e poi sotto gl’Imperatori di bianco, quando cresciuto il lusso nel vestire, per l’introduzione di nuove sorte di vestimenti di maggior prezzo, cominciarono ad aversi a vile, e perciò a stimarsi atti a dinotare il lutto quelli di color bianco, siccome da varj luoghi di Scrittori inferisce eruditamente Lib. 2. capite 2.
Lib. 6, Fast.
Giovanni Kirkmanno nella sua opera già citata de’ Funerali degli Antichi. E quanto alle Tibie, era sì vario l'uso di esse, secondo che ne insegna Ovidio in que’ versi.

Cantabat fanis, cantabat Tibia ludis,
Cantabat moestis Tibia funeribus.

Che ciò non è indizio bastante a poter conchiudere, che questa Pittura appartenga a Funerale piutosto, che ad altro. Anzi quando volesse aversi riguardo strettamente all’uso proprio delle Tibie in tale occasione, potrebbe opporsi non avere esse avuto luogo verisimilmente nel mortorio di Cajo Cestio; Imperocchè esse si adoperavano solamente in quelli de’ giovani, argomentandosi ciò da quel verso di Stazio: 6 Theb. Tibia, cui teneros suetum deducere manes.


E più chiaramente dalla sposizione che fa di esso, Lattanzio, o come altri vogliono Lutazio Placidio antico Espositore del medesimo Poeta. Jubet religio, ut majoribus mortuis tuba, minoribus tibia caneretur. Alla quale usanza ebbe ancora riguardo Lib. 5 Eleg. 7. Properzio in questo luogo.

Ah mea tum quales caneret libi Cynthia cantus
Tibia, funesta tristior illa tuba.


Né fa forza appresso di me, che questa Pittura serva d’ornamento ad un sepolcro, ed in conseguenza appartenga a materia lugubre; poiché gli antichi erano soliti di adornare i loro sepolcri con abbellimenti, i quali non avevan che far punto co’ Funerali, figurando in essi e giuochi, e sagrifizj e battaglie, e Baccanali, ed altre cose varie, come si vede nell’Urne di marmo, che son pervenute a’ nostri tempi, di molte, e molte delle quali Giorgio Fabrizio nella cap. 21 sua Roma fa una lunga descrizione. E piuttosto si potrebbe domandare a chi tien l’opinione contraria, che cosa abbiano da fare le Vittorie nel sepolcro di uno, il quale per quanto si può sapere dalle Storie Romane, non ebbe mai alcun carico militare, né vanto di Capitano illustre: che se ciò fosse stato, non avrebbero tralasciato di farne menzione gli Autori di esse, da’ quali neppure è nominato questo Cajo Cestio, siccome io ora son per dire nelle Annotazioni, che per compimento del presente Discorso ho qui aggiunte sopra l’Iscrizione, la quale ho già detto leggersi nelle due basi; che sostenevano anticamente la Statua del medesimo, ed è la seguente.

M. VALERIVS. MESSALLA. CORVINVS.
P. RVTILIVS. LVPVS. L. IVNIVS. SILANVS.
L. PONTIVS. MELA. D. MARIVS.
NIGER. HEREDES. C. CESTI. ET.
L. CESTIVS. QVAE. EX. PARTE. AD.
EVM. FRATRIS. HEREDITAS
M. AGRIPPAE. MVNERE. PER
VENIT. EX EA. PECVNIA. QVAM.
PRO. SVIS. PARTIBVS. RECEPER.

EX VENDITIONE. ATTALICOR.
QVAE. EIS. PER. EDICTVM.
AEDILIS. IN. SEPVLCRVM.
C. CESTI. EX. TESTAMENTO.
EIVS. INFERRE. NON. LICVIT.


Da questa Iscrizione apparisce chiaramente, che quel Cestio, al quale fu eretta per sepolcro la Piramide, di cui si è ragionato sin ora, non è altrimenti quello, il quale fu Console insieme con Gneo Servilio sotto Tiberio, come credettero il Panvinio, ed il Lipsio. Imperocchò essendo nominate in essa delle Li 2. de Rep. Rom In Comm.
Tac. lib. 6. Ann. In Fast
.
persone, le quali è cosa certa, che non poterono arrivare a’ que’ tempi e specilmente M. Agrippa, il quale secondo il medesimo Panvinio mori nell’anno DCCXLI. dalla fondazione di Roma, cioè nove anni innanzi alla salutifera Incarnazione del Salvatore; ne viene in conseguenza ch’egli possa al più aver vissuto fin verso la metà dell’Imperio d’Augusto. Ma siccome di ciò non può dubitarsi; cosi sarebbe impresa vana il voler determinar cosa alcuna di certo intorno olle notizie particolari di chi egli si fosse propriamente non avendoci Scrittor veruno delle cose Romane, che dica cosa alcuna delle sue qualità. o delle azioni fatte da lui, tuttoché l’essere egli stato onorato dopo morte di Sepoltura si riguardevole per la magnificenza, e quasi singolare per la forma, massimamente in que’ tempi, dia indizio, ch’egli sia stato uomo illustre, e potente, anzi che nò. Tale essere stata la Famiglia Cestia, che per altro non fu delle Patrizie, danno a crederlo alcune memorie particolari, che si hanno di essa. Delle Mele Cestiane, cosi dette verisimilmente da qualcun de’ Lib. 15. cap 14.
Lib. 23 cap. 14
Cesti, fanno menzione Plinio, e Galeno. Il cognome di Cestiano si legge usato dalla famiglia Pletoria, o Letoria, ch’ella debba dirsi, nelle Medaglie ad essa appartenenti. Che vi fusse ancora la Tribù Cestia, come ha creduto il Panvinio, Lib. 2 de Rep. Rom. non è leggiero indizio il trovarsi in alcune Iscrizioni, che egli porta. queste tre lettere CES. Ed il Ponte, che di presente congiunge l’Isola di S. Bartolomeo al Trastevere, detto anticamente Cestio, è certo, che prese il nome da uno di questa Famiglia, e forse dal medesimo Cajo Cestio, di cui sì ragiona; Lib. 8. cap. 3. argomentando bene il Nardino, non potere esso essere stato fatto da quel Cestio Gallo, il quale fu Console sotto Tiberio, siccome fu parere del Panzirolo; perocchè In Com Not. Imp. Occiden. essendo stato fabbricato il Ponte a tempo degli Imperatori avrebbe preso il nome dal Principe, e non dal Console. Nel resto, di diversi Cestj trovo farsi menzione appresso varj Autori, e particolarmente appresso Seneca nelle Controversie. Di un Cajo Cestio Part. 6 si legge il nome in un marmo antico, ch’è fra gli altri raccolti dal Boissardo, in cui sono scolpite di mezzo rilievo, e d’assai buona materia due Figure, una d’uomo, e l’altra di donna, con la seguente Iscrizione.

Grut. 1123. 2

HAVE             HAVE
       HEROTION
       ET          VALE
       AETERNOM
C. CESTIVS FILIAE
       P.             C.

Ma chi vorrà arrischiarsi ad affermare, che questo sia quello di cui si cerca, piuttosto, che un’altro, forse un Liberto di quel C. Cestio, A car. Dcccc. lxvii. de’ Liberti del quale si legge il nome in due altre diverse iscrizioni appresso il Grutero; ovvero quel C. Cestio Littore mentovato da Cicerone nelle Orazioni contra Verre? Più verisimilmente potrebbe esser quegli, che con titolo di Cavalier Romano è chiamato per testimonio dallo stesso Cicerone a favore di L. Flacco nell'Orazione fatta in difesa di esso, se bastasse il fondare la conghiettura sopra la corrispondenza de’ tempi, Giovanni Glandorpio, il quale delle in Onomast. Ro. antiche Famiglie Romane ha scritto con somma diligenza, raccogliendo tutte le memorie, le quali si trovano di esse appresso gli Scrittori, non fa menzione avanti i tempi di Tiberio, se non di due Cestj. Uno è quello, il quale, come narra Seneca, essendo trascorso a dire, che Cicerone, a cui egli era avverso, Suas. vii. non sapeva di lettere, fu poi dal figliuolo del medesimo, il quale commandava in Asia, fatto solennemente sferzare in un Convito: ond’ebbe origine qual detto; Cicero patri de corio Cestii satisfecit. L’altro è quegli, di cui racconta Plutarco, che essendo andato a trovar Pompeo al Campo Nella vita di Pompeo in Farsaglia, dove dagli altri fu ricevuto con risa per essere egli zoppo, ed in età già decrepita, ebbe dal medesimo dimostrazioni particolari di stima, essendosi Pompeo, appena vedutolo, rizzato in piedi, e andatogli incontro per riceverlo. Questo però non con nome di Cestio, ma con quello di Sestio vien chiamalo da Plutarco, né so per qual ragione il Glandorpio lo faccia di questa Famiglia, se forse egli non si è lasciato indurre a ciò dall’opinione, dalla quale non si mostra lontano, che le Famiglie Cestia, e Sestia sieno la stessa; ed in ogni caso il prenome di Tidio, che Plutarco stesso gli attribuisce, senza molte altre opposizioni, che potrebbero farsi in contrario, non lascia luogo di dubitare s’egli possa essere il Cestio, di cui sì ragiona; del quale non avendosi notizia particolare dagli Scrittori antichi, non è da maravigliarsi, che i moderni, i quali hanno parlato della Piramide, non abbiano detto cosa alcuna di lui.

M VALERIVS MESSALLA CORVINVS.

M. Valerio Messalla (o come è scritto appresso il Glandorpio, il Manuzio, ed anche in alcune antiche Iscrizioni) Messala Corvino, di cui si fa menzione in questo luogo, è quello, a mio parere, che fu figliuolo dell’Oratore, ed anche egli Oratore insieme, di cui Cicerone parla con tanta lode in una lettera, che scrive a Bruto in sua raccomandazione, e Tibullo ne celebra altamente il valore nel Panegirico, che unico in verso Eroico egli compose in sua lode. Fu prima contro Augusto, del quale divenne poscia confidentissimo, per modo che si crede, ch’egli comandasse il corno sinistro nella famosa battaglia di Azio. Di esso, come di uomo uno de’ In Chronic. più illustri del suo tempo, parlano quasi tulli gli Scrittori delle storie Romane, e secondo Eusebio, egli morì circa il mezzo dell’Imperio d’Augusto.

Potè anche essere figliuolo dì questo, il quale fu Console con Gneo Lentulo Getulico l’anno, nel quale (secondo alcuni) nacque il Salvatore.

P. RVTILIVS LVPVS. Sono stati molti nella Famiglia Rutilia, i quali hanno avuto il pronome di Publio, ed il cognome di Lupo; ma fra di essi non e’ è niuno, il quale si accosti più al tempo dell’Iscrizione, di quello, il quale fu Pretore sul principio della Guerra Civile, e Tribuno della Plebe, secondo il Glandorpio, nel Consolato di Marcellino, e Filippo. Di questo è fatta menzione da Pompeo il Magno in una lettera, ch’egli scrive a Lentulo, e M. Marcello Consoli, e si trova fra quelle di Cicerone, nella quale dire di aver significato a Publio Lupo, ed a Cajo Coponio Pretori, che si unissero a’ Consoli con quel più di soldatesca, che avessero potuto mettere insieme. E benchè non si legga quivi il nome di Rutilio, esser egli medesimo, si raccoglie chiaramente da questo luogo di Cesare, nel quale Bell Civ. l. 1 dopo aver arrato di molti, che si accostavano alla parte di Pompeo, quando egli si ritirò a Brindisi, soggiugne: L Manlius Prætor, cum cohortibus sex profugit. Rutilius Lupus Prætor, Tarracina cum III. quæ procul equitatum Cæsaris conspicatæ, cui præerat Bivius Curius, relicto Prætore signa ad Cæsarem transferunt.

L. IVNIVS. SILANVS. Io credetti a prima giunta, che questi fusse quel L. Silano, il quale destinato da Claudio per suo genero fu poi per opera di Agrippina escluso dalle nozze d’Ottavia, ma essendo egli allora in età giovanile, che tale lo rappresenta Tacito: Ann. 12 Juvenemque alias clarum insigni triumphalium, et gladiatorii muneris magnificentia, ne segue, ch'egli non possa essere stato erede di Cajo Cestio, il quale abbiamo veduto essere infallibilmente morto durante l’imperio d’Augusto.

Meglio è dunque dire. ch’e’ possa esser quello, il quale da Plinio vien chiamato Proconsole sotto il Consolato di Gneo Ottavio, e Cajo Scribonio nell'anno 678. dalla fondazione di Roma 3. Quindi ancora si manifesta sempre più falsa l’opinione del Glandorpio, e d’alcuni Critici, i quali con la L doppia, e con la V hanno usato di scrivere questo cognome, quasi egli traesse origine da Sylla, e non da Silus, siccome argomenta eruditamente Antonio Agostini dal significato di quella parola, il quale è, secondo Festo, di uno, che abbia il naso arricciato; onde a somiglianza di ciò le celate, che chiamavansi anch’esse Cilœ. e Silus, fu ancora cognome de’ Sergi, e de’ Licinj.

L. PONTIVS. MELA. Questi è lo stesso, di cui si legge il nome nella Piramide, il quale non solamente fu uno degli eredi di Cestio; ma ebbe ancora la cura di fabrlcargli, come si è veduto, il sepolcro a suo arbitrio e di Potho liberto. Il cognome dì esso, ciò che ne insegna manifestamente quest’iscrizione, è di Mela, non di Clamela, o Clamella, come mostrano di aver creduto molti Antiquarj4, i quali in quella della Piramide hanno scritto CLAMELAE senz’alcuna distinzione di punto, che pure ora vi si vede chiaramente, oltre a qualche poco di distanza fra la prima sillaba, e le due seguenti. Più manifestamente di tutti gli altri è incorso in questo errore il Glandorpio, il quale usando di porre nelle Famiglie diversi cognomi, secondo l’ordine dell’Alfabeto, nella Ponzla pone il cognome di Clamella, avanti quello di Cominio, di Fregellano, e di Erennio; dove che s’egli l’avesse preso per MELA, o MELLA, gli avrebbe dato luogo dopo quello di Luciano, e di Massimo. Eppure egli poteva avvedersene facilmente, osservando, che il cognome di Mela era usato non solamente nelle Famiglie Annea, Aquilia; e Pomponia: ma nella Ponzia Gruter. a car. Decc. LXXV stessa, come in quella Iscrizione:

DIS MANIBVS.
L. PONT. C. F. MELL.
L. PONTIVS.
EVTYCHVS. SIBI.


E’ di più unito con la Tribù Claudia, la quale Gruter. a car. 100 vien significata in CLA. come in quest’altra.



CONCORDIAE,
C. AQVILIVS. C. F. CLA. MELA.

Aeneid., lib. vii Ed è una delle più antiche, e novissima per quel verso di Virgilio.

Claudia nunc a quo diffunditur, et tribus, et gens.

D. MARIVS NIGER. Chi sia stato questo Mario Nigro non saprei dirlo, essendo che nelle Storie Romane, o ne’ marmi antichi non si fa menzione alcuna di lui; e nella Famiglia de’ Marj non trovo esservi stato alcuno, il quale abbia avuto questo cognome.

L. CESTIVS Fulvio Orsini nel suo libro delle Famiglie Romane illustra la Cestia con una medaglia d’oro, nella quale da una parte è la testa di una figura rappresentante l’Affrica con una proposcide d’Elefante in capo a uso di celata; dall’altra la sedia Curule sopravi un’altra celata fatta alla stessa foggia. Nella parte superiore sopra la sedia si legge L. CESTIVS. di sotto C. NORB. dai lati S. C. e PR. donde inferisce con ragione l’Orsino questo L. Cestio essere stato Pretore. Un’altra medeglia pur d’oro aggiugne a questa Famiglia il Patino nella nuova edizione del suddetto libro, la quale ha da una parte una testa pur di donna, a cui fra’ capelli apparisce quella fascia, che propriamente è il diadema. Sopra alla medesima vi si legge C. NORBANVS. e sotto L. CESTIVS. Nel rovescio si vede la Madre degli Dei sedente sopra un Carro tirato da due Leoni. col S. C. Questo L. Cestio non è gran fatto, che fusse quello, il quale è nominato nella presente Iscrizione, considerato ch’egli fu Pretore insieme con Cajo Norbano. il quale, secondo Fulvio In Fam Norbana Orsini fu Pretore in Sicilia, e dapoi Legato di M. Antonio, e ne’ Fasti venendo nominato per Console con Appio Claudio Palcro l’anno di Roma DCCXV, fra’ Trionfanti registrato quattro anni appresso, fu per l’appunto in que’ tempi ne’ quali è manifesto esser vivuto C. Cestio. Che se ad alcuno piace di credere collo stesso Orsino, che questo C. Norbano sia un’altro, il quale fu Console con L. Scipione Asiatico quarantacinque anni prima io non avrò ripugnanza alcuna a concedergli, che L. Cestio, il quale fece battere le predette medaglie, fosse il padre, se non altrimenti il fratello di Cajo. Il qual Cajo, se si ammetta esser morto prima, che Augusto cominciasse ad imperare, al che non v’è cosa alcuna, che ripugni; ciò posto nulla ci vieta il credere, che di Lucio suo fratello debba intendersi Appiano, dov’egli racconta di un Cestio ( senza porvi lib. 6.
Bel. Civ.
il prenome, come spesso usano di fare gli Scrittori Greci) il quale a tempo della Proscrizione standosene in villa nascosto appresso certi servi, suoi amorevoli, e vedendo ogni giorno scorrere in qua, e in là Centurioni armati con le teste de’ Proscritti non potè soffir lungamente di vivere in quella continua paura; e perciò fatto accendere il rogo da’ suoi Servi, acciocchè potessero dire di aver essi seppellito Cestio, vi si gittò dentro coraggiosamente.

Lib. 2. de Fun. Ro. D’un altro L. Cestio si trova memoria nella seguente iscrizione portala dal Kirkmanno.

L. CESTIVS. HILARVS. VIXIT. A. XXXV.

APPAIENA. AMABILIS. ET.

Q. MINVCIVS. FAVSTVS.

POSVERVNT. DE. SVO.


Dal tenore della quale, e dal cognome, che egli ha di HILARVS, si scorge assai chiaramente, che in essi non si parla d’ uno della Famiglia de’ Cestj, ma di qualche Servo, o Liberto di essa, a’ quali il costume di que’ tempi concedeva il pigliare li nomi, ed i prenomi de’ padroni. Ma lasciando stare di aggirarci più intorno all’investigazione di ciò, passiamo a considerare nelle parole seguenti: QVÆ EX PARTE AD EVM FRATRIS HEREDITAS M. AGRIPPÆ MVNERE PERVENIT; come andasse questo fatto, ch’egli non chiamato altrimenti fra gli altri nominati di sopra all’eredità, ne avesse nulladimeno la sua parte per via di M. Agrippa, in due maniere poter essere avvenuto io mi avviso. L’una, che Cajo Cestio per qualche suo fine particolare chiamasse a una parte della sua eredità M. Agrippa; e ciò fosse per seguitare il costume assai usato in que’ tempi di lasciare eredi Personaggi grandi, e talora anche lo stesso Imperatore. Di che si legge un bellissimo esempio in Dione, dove egli racconta di un certo Sesto lib. 53. Pacuvio, altrimenti Apudio, il quale diversi atti di sfacciatissima adulazione usati verso d’Augusto, si dichiarò un giorno publicamente, ch’egli averebbe fatto erede Augusto egualmente col suo figlio per cavar qualche utile da questa dimostrazione di benevolenza verso di lui. Comunque ciò fusse, egli è credibile, che Agrippa:, come colui, ch’era ricchissimo, e non bisognoso punto dell'altrui, per usar magnanimità cedesse la sua parte a L. Cestio fratello del defonto, il quale poi, siccome a uomo grato si conveniva, procurasse di mostrarsi tale con qualche publica dimostrazione!, dichiarando in quelle parole M. AGRIPPAE MVNERE di esser tenuto alla liberalità di M. Agrippa della parte, la quale gli era toccato nella roba del fratello. L’altra si è (e questa io stimo la più probabile) che Cestio con animo di provvedere di sì possente patrocinio la sua Famiglia, e sicuro dall’altra banda della generosità d’Agrippa lo lasciasse in quella parie, ch’egli avea destinata al fratello, erede Fiduciario, nella guisa ch’essersi usato anticamente si ha in molti luoghi de’ Digesti, e spezialmente nella l. Sejus Saturninus, ad Senatus Consult. Trebell., ed egli poi (per usar la parola propria) la rendesse al medesimo, onde potesse dirsi, che L. Cestio l’avesse avuta per dono, o per benefizio di M. Agrippa. A questa conghiettura conferisce maravigliosamente ciò, che n’insegna il §. primo Instit de sideic. che i Fideicommissi in que’ tempi rade volte avevano il loro effetto per una ragione, la quale rende ciò assai credibile, ed era: quia nemo invitus cogebatur praestare id. de quo rogatus erat, e perciò erano chiamati Fideicommissi: quia nullo vinculo Juris. sed tantum pudore eorum, qui rogabantur continebantur. Perchè Augusto, o fatto avveduto di ciò dalle persuasioni di uomini autorevoli, o per l’altre cagioni riferite nel Testo; cioè; Quia per ipsius salutem rogatus quis diceretur, aut ob insignem perfidiam, pose ordine, che a indi in poi i Consoli interponessero la loro autorità, acciocché la fede di chi facea testamento non rimanesse defraudata, e dopo di lui Claudio creò que’ Pretori, i quali dalla cura speciale, che avevano di soprastare a ciò, chiamavansi Fideicommissarii, come si raccoglie dalla L. 2. §. deinde ff. de orig. Juris. Per modo che potendo esser morto G. Cestio, avanti che Augusto publicasse la predetta legge, quando stava all’arbitrio altrui il rendere, o nò l’eredità diducialmente a se lasciate, M. Agrippa con far ciò aveva da bastevol cagione a Lucio fratello di quello, d’attribuire a suo dono la parte, che in quella del fratello aveva avuta. Ed è anche da osservarsi in confermazione di ciò, che in questa iscrizione si usa la parola PERVENIT, come per appunto ne’ testi con significato particolare, dove si tratta d’eredità, la quale si pervenga, a chi che sia per ragione di fidecommisso; e particolarmente nella l. in fideicomisi §. cum Pollidius ss. de usuris, e nella l. quidam cum filius familias 46. ss. de hæred. instituendis.

EX VENDITIONE ATTALICORVM. Li drappi d’oro, i quali Attalici nomavansi appresso i Romani da Attalo Re di Pergamo, il quale, Plinio narra Lib. 37. cap. I. esserne stato 1’inventore, cominciarono ad usarsi in Roma, secondo il medesimo, insieme con l’altre delizie ìntrodottevi dopo la guerra d’Asia; cioè dopo l’anno di Roma 564. Servirono essi primieramente per vestimenti, al quale uso, è verisimile, che fussero da principio ritrovati. Quindi cresciuto il lusso, cominciarono ad adoperarsi indifferentemente in tutte le altre occasioni, nelle quali cadesse in acconcio alla Romana magnificenza il far pompa di se medesimo con la ricchezza, e con la singolarità degli ornamenti. Questi diversi usi degli Attalici sono annoverati da varj Scrittori, ma da niuno più distintamente, che da Properzio, dal quale sono mentovali in diversi luoghi, per vestimenti, come in que’ versi.

Attalicas supera vestes, atque omnia magnis Lib. 3. Eleg. 17.

Gemmea sint ludis.

o per addobbi da coprir le letta ne’ Mortorj, e ne’ Conviti in altro:

Nec sit in Attalico mors mea nixa toro. Lib. 2. Eleg. 13.

ed altrove:

Sectaque ad Attalicis patria signa toris. Lib. 4. Eleg. 5.

o finalmente ad uso di paramenti, laddove rimprovera a Cintia, ch’ella mostrasse di avere in dispregio le grandezze di Roma.

Scilicet umbrosis sordet Pompeja columnis Lib. 2. Eleg. 15.

Porticus, aulæis nobilis Attalicis.

Act. 6. Nè solamente in Roma, ma ancora nelle Provincie furono usati gli Attalici. Onde Cicerone fra le altre cose rimproverava a Verre la rapina di alcuni, i quali erano famosi per tutta la Sicilia. Quid illa Attalica tota Sicilia nominata ad eadem peripetasmata emere ohlitus est ?

Erano dunque gli Attalicì drappi d’oro ricchissimi, ne’ quali (ciò che si fa oggidì ne’ panni di Arazzo) si tessevano varie Figure, come s’inferisce da quelle parole patria signa del già allegato verso di Properzio. E perciò dovevano essere ricchissimi d’oro, e di maggior rilievo di quello, che sono i broccati moderni. Al qual proposito racconta L. Fauno, che essendosi ritrovala in S. Pietro, con occasione della nuova fabbrica di Giulio II. l’arca dov’era sepolta Antichità di Roma Maria moglie dell’Imperatore Onorio, dalla vesta, e da un panno, ch’ella avea in capo, si cavarono da 40. libbre d’oro finissimo. Ora per intender meglio la cagione, per la quale non fusse stato lecito agli eredi di Cajo Cestio, il porre nel sepolcro di lui gli Attalici, de’ quali si parla nell'Iscrizione, è da sapersi, che in riguardo all’eccessive spese, le quali a’ tempi antichi si facevano ne’ Mortorj, fu d’uopo, che ad un tale abuso si provedesse dalle leggi, e particolarmente nelle Republiche ben regolate, proibendo quelle, ch’erano soverchie, e prescrivendo quanto dovesse farsi, e non più, in simili occasioni. Ciò per legge di Solone ebbe luogo da prima nell’Ateniese, ed ad imitazione di essa passò con le dodici Tavole nella Romana per testimonio di Cicerone. de leg. E perchè ne gli ornamenti principalmente del corpo, come nei vestimenti, e cose simili, le quali, o si abbruciavano, o si seppellivano col cadavere, consisteva il più della spesa; fu spezialmente provveduto a ciò, come si comprende dalle parole medesime di Cicerone. Extenuato igitur sumptu tribus Riciniis, et vinculis, o come in altri testi si legge, clavis purpureis. Nel qual luogo non è da dubitare, che per Ricinio non debba intendersi una sorte di vestimento; che che abbiano scritto in contrario il Turnebo, il Giunio, ed altri uomini eruditi, e spezialmente de Jure Manium l. 1 c. 17 Jacopo Gutiers, il quale con poca ragione, a mio parere, riprende gli antichi Interpreti delle dodici Tavole, perch’eglino abbian creduto, che il Ricinio fosse, come ho detto, una sorte di vestimento; laddove egli tiene per evidente, ch’ei fusse una spezie di panno, o di velo, che si portasse in testa dalle Donne in occasion di lutto. Ma la contraria opinione è con più probabili ragioni sostenuta da Quæs. Ep. l. 1 c. 7. Jacopo Gottifredo, dal Resino, e più diffusamente dal Lipsio, il quale non solamente prova il suo intento, adducendo il costume antico accennalo da Virgilio in que’ versi Aen. lib. 6.

Purpureasque super vestes: velamina nota
Conjiciunt.

Al quale è verisimile, che potessero avere avuto riguardo i Legislatori; ma di più con l’autorità di Festo stesso addotta dal Gutiers, e dagli altri a lor favore in quel luogo: Ricæ, et riculæ vocantur parva ricinia, ut palliola ad usum capitis facta; allegando quell’altro del medesimo Autore Recinium omne vestimentum quadratum ii, qui duodecim interpretati sunt, esse dixerunt. Il quale egli corregge nelle susseguenti parole non meno ingegnosamente, che verisimilmente facendo, che dove prima si leggeva: Vir toga, qua mulieres utebantur, con quel, che segue; si legga Ver. togam, cioè Verrius togam, qua mulieres utebantur, prætextam clavo purpureo: onde il sentimento di tutto il luogo sia, che il Recinio, è qualsivoglia vestimento quadrato, secondo gl’Interpreti delle dodici Tavole; ma secondo Verrio una toga, o veste da donna guarnita di porpora. Da’ predetti due luoghi di Festo, siccome si raccoglie, che la Rica, ed il Ricinio fusscro due cose diverse in quanto alla forma, ed all’uso, e somiglianti in quanto alla materia, tessendosi forse anche questo, come quella, secondo lo stesso Festo, ex lana succida alba: così non sò vedere per qual ragione leggendosi nelle dodici Tavole tribus Reciniis, voglia il Gutiers, che la legge non parli quivi altrimente di una sorte di vestimenti, ma di un panno, o velo, che portassero in testa le donne; come se appunto tribus ricis o riculis, e non tribus riciniis vi si leggesse.

E le parole di Varrone, ch’egli allega per se, mulieres in aversis rebus, aut luctibus: cum omnem vestitum delicatiorem, ac luxuriosum postea institutum ponunt, ricinia sumnnt; dov’elle si piglino nel loro piano, e diritto senso, dimostrano piutosto il Ricinio essere stato una sorte di veste da bruno, delle quali si vestivano le donne in cambio delle sontuose, e belle, che deponevano; onde confermano l’opinione del Lipsio, che l’intenzione de’ Decemviri non fosse il far divieto, che più di tre donne vestite di bruno non intervenissero ai Mortorj, come han credulo i soprammentovati da me; ma che solamente tre vestimenti si potessero abbruciare, o seppellir col defonto, intendendo per Ricinio, non un vestimento di lutto, ma d’ornamento, il quale era forse in que’ tempi il più prezioso, ed il più nobile e perciò specialmente nominato nella legge, nella quale quelle parole tribus riciniis, clavis purpureis si accordano troppo bene con le già allegate di Verrio appresso Festo, dove ei chiama il Ricinio, togam prætextam clavo purpureo. Senzache ciò ch’egli soggiunge nel medesimo luogo: Unde reciniati Mimi planipedes, lo dimostrano chiaramente, non essendo probabile in verun conto, che i Mimi negli spettacoli sollazzevoli usassero vestimenti, i quali fussero proprj de’ Mortorj.

Ora siccome in que’ primi tempi il divieto intorno a questa parte del lusso ne’ Funerali ristrignevasi per le dodici Tavole a’ Ricinj, siccome abbiamo già detto; così di mano in mano dovette andarsi applicando a tutte le sorte di vestimenti, o addobbi di prezzo, i quali negli altri si usano onde venissero compresi in esso a tempo di C. Cestio, anche gli Attalici, di cui si favella in questa Iscrizione, i quali se debbano intendersi esser vesti equivalenti alla Toga Pretesta, la quale portavano anche i Settemviri degli Epuloni, addobbi di altro uso, poco rilieva al proposito nostro. Vi sono ancora intorno a ciò delle leggi speciali fatte sotto gl’Imperatori. E fra le altre, una ve n’è di Ulpiano, il quale fu ne’ tempi d’Alessandro Severo, ed è la tredicesima ff. de religios. et sumpt. del tenor, che segue: Non oportet autem ornamenta cuni corporibus condi, nec quid aliud hujusmodi, quod homines simpliciores faciunt. Dove la chiosa per ornamenta, dichiara doversi intendere ancora i vestimenti, e questa medesima legge per l’appunto tradotta in Greco si trova nei corpo dello Costituzioni degl’Imperatori di Costantinopoli pubblicato da Giovanni Leunclavio. Lib. LIX. Tit. x.

PER EDICTVM AEDILIS. Che gli Edili non altrimenti, che i Pretori, nel pigliar l’uffizio pubblicassero l’editto contenente il modo, col quale disegnavano di far ragione sopra ciascuna controversia, è cosa notissima, avendosi nel Corpo delle leggi un titolo particolare De Aedilitio Edicto. Egli è ben vero che questo, per quanto si raccoglie dal medesimo, non apparteneva a tutti gli Edili, che di tre sorte ce n’avea, della Plebe, Curuli, e Cereali, ma solamente a’ secondi, e ciò si specifica in quasi tutte le leggi del predetto titolo. Prima dunque di determinare cosa alcuna circa all’Editto, al ruale possa riferirsi questa Iscrizione, fa di mestieri investigare a quale degli Edili toccasse il dar regola alle spese de’ Mortorj, senza contravvenire agli ordini, di cui non fusse stato lecito agli Eredi di Cajo Cestio il porre nel sepolcro di lui quei drappi d’oro, dal prezzo de’ quali essergli poi stata fatta la statua si comprende dal tenore della medesima. Io, considerato bene, da ciò, chee de’ Magistrati Romani hanno scritto diversi Autori, qual fusse l’uffizio di ciascheduno, inclinato a credere, che siccome quelli, i quali si chiamavano della Plebe, l’autorità di cui era grandissima, avevano cura propriamente d’ovviare al soverchio lusso, ed a tutto ciò, che poteva cagionare corruzione ne’ costumi; come, per esempio, proibire, che non si vendessero nelle Taverne vivande delicate, e di grande spesa, punir coloro, i quali in detti, o in fatti facessero altrui villania, raffrenar l’ingordigia di quelli, che prestavano ad usura, rivedere se le misure, e i pesi fussero giusti, e cose simili, così essi fussero esecutori delle leggi sopra il lusso, e le soverchie spese, si ne’ Mortorj, come in altro proibendo, che non si seppellissero co’ morti gli Attalici, o simili vestimenti di prezzo, e ciò facessero con Editto particolare, ch’io stimo poter esser quello di cui si ragiona. E perchè nominandosi qui l’Edile nel numero del meno, pare ch’esso sia concepito in nome d’un solo, e non de’ due, i quali formavano quel Magistrato; può quindi inferirsi, ch’essendo fra loro divisa l’autorità ad uno di essi ne toccasse quella parte, la quale rirguardava le cose già dette.

EX TESTAMENTO EIVS. Usò la stolta cecità de’ Gentili, siccome è noto, di ardere insieme co’ cadaveri nella Pira quelle cose in qualsivoglia genere, le quai egli, come in questa così dovesse goderne noll’altra; e de’ Trionfanti in ispecie riferisce Polibio, elle si seppellivano con abiti, quali essi portavano in quell’occasione. Nè furono esenti per Lib. 5. qualche tempo da simil vanità anche i Cristiani, costumando di seppellire co’ morti, bencchè a diverso fine, che in loro non poteva essere, se non di magnificenza, e di lusso, molti preziosi, e rari ornamenti, quali si trovarono nella sepoltura già mentovata di Maria moglie d’Onorio Imperatore, de’ quali io per brevità tralascio di fare special menzione, rimettendomi a L. Fauno, il quale minutamente gli annovera. Lib. 1. c. 10 Quindi avveniva, che ciò che vediamo essere stato ordinato nel suo Testamento intorno agli Attalici da C. Cestio, si facesse da molti altri circa a diverse cose, alle quali portavano una certa particolare affezione; il che si raccoglie non solamente da molte leggi del corpo Civile, ma anche da una, la quale si ha nel Codice delle leggi Visigotiche posto in luce dal Pitèo. E di ciò è chiarissimo esempio il testamento di una tal donna, le parole del quale riporta Scevola Lib. 11. T. 2. nella L. ult. §• ult. ff. de auro argent. e sono seguenti: Funerari me arbitrio viri mei volo: et inferri mihi quæcumque sepulturæ meo; causa feram, ex ornamentis, lineas duas ex margaritis, et viriolas ex smaragdis. Di questi tali si fa beffe con ragione Luciano, laddove egli introduce se medesimo a ragionare con Nigrino Filosofo Platonico di questa guisa. In Nigrino. ἃ δὲ καὶ μεταξὺ λέγοντος αὐτοῦ γελᾶν προήχθην, ὅτι καὶ συγκατορύττειν ἑαυτοῖς ἀξιοῦσι τὰς ἀμαθίας καὶ τὴν ἀναλγησίαν ἔγγραφον ὁμολογοῦσιν, οἱ μὲν ἐσθῆτας ἑαυτοῖς κελεύοντες συγκαταφλέγεσθαι τῶν παρὰ τὸν βίον τιμίων . Mentre egli così diceva, vennemi da ridere di costoro, i quali vogliono, si seppellisca con esso loro la propria ignoranza, la sciocchezza confessano in iscritto: ordinando alcuni, che si abbrucino seco nello stesso rogo i vestimenti più, preziosi; che adoprarono in vita, con quel che segue. Tutto il contrario ordinò circa al Mortorio nel suo testamento quella buona vecchia, l’astuzia di cui narra Orazio. L. 2. Sat 6.

......anus improba Thebis
Ex testamento sic est elata: cadaver
Unctum oleo largo, nudis humeris tulit hæres.
Scilicet elabi si posset mortua.

E perciò saviamente fu ordinato dalle leggi, che quantunque nell’altre cose si dovesse prestare ogni favore, acciocché si adempisse la volontà del testatore, in quanto alle soverchie spese niun conto dovesse farsene, come si dice nella già citala legge ff. de religios. et sumpt. al §. hic actio: Sciendum est, nec voluntatem testatoris exequendum, si res egrediatur justam sumptuum rationem.

Tanto mi è avvenuto d’osservare intorno alla Piramide di C. Cestio, ed all’altre cose ad essa appartenenti. La qualità dell’argomento trattato darà motivo, siccome io spero, all’erudito Lettore d’appagarsi del mio Discorso, più di quello, che abbian potuto fare le notizie, e le conghietture addotte in esso a tal fine; sì veramente ch’egli consideri, come per trattarlo fermamente sarebbe stato di mestieri l’aver raccolto quanto dagli Scrittori antichi, e moderni, de’ quali oggimai è infinito il numero, possa essere stato detto delle persone, delle quali sì è avuto a ragionare, e de’ Riti antichi necessarj a spiegarsi; onde può accader di leggieri, che ad altri succeda d’illustrarlo maggiormente con un sol luogo di un’Autore osservato da lui per fortuna, che non è succeduto a me ricercandone a bello studio molti, e molti. E perciò io confido, ch’egli sia per contentarsi dì aver saputo in tal maniera quanto basta, e non quanto se ne potrebbe dire; esercitando a mio favore quell’ammaestramento d’Aristotele, così dichiarato latinamente dal Lambino: Est hominis eruditi, tantam in unoquoque genere subtilitatem desiderare, quantam rei ipsius natura recipit. L. 1. Eth.

  1. Questo discorso, ed il seguente unitamente colla Roma Antica del Nardini, tradotti furono in latino dal celebre Tollio, ed ebbero assieme colla Roma suddetta il primo luogo nel quarto tomo della gran collezione delle Antichità Romane fatta dal Grevio, ove quest’illustre Collettore nella Prefazione lasciò del loro Autore la seguente onorevole testimonianza: Post Nardinum habes Octavii Falconerii (viri generis splendore, dignitate, et elegantia ingenii præstantissimi, et mihi cum superesset conjunctissimi, ut nulla unquam dies apud me sit obliteratura ejus memorium, et desiderium) duas pereruditas dissertationes de Pyramide Caji Cestii, et Latere ex ædificii veteris ruderibus eruto.
    In riguardo agli accennati discorsi il Sig. Apostolo Zeno ancora nelle sue giudiziose, e pregiatissime Note alla Biblioteca del Fontanini Tom. 2 pag. 252, nel riferire la seconda edizione Romana del Nardini fatta dall’Andreoli, onorar volle la memoria dol nostro Autore, dicendo: “Ottavio Falconieri, che in questa edizione ha il suo merito, fu Prelato de’ più dotti del suo tempo, e massimamente nelle cognizioni delle Antichità erudito.”
    Valse molto certamente, e fece gran progressi in questo studio; ma non furono intorno a questo solamente ristrette le di lui cognizioni, che anzi giudicarle dobbiamo stese ad altri ameni studj, come ce lo persuadono oltre il gran grande, e vario commercio di lettere co’ primi Letterati oltramontani, di cui abbiamo distinta, e piena notizia nella seconda parte della Prefazione all’Iscrizioni del Gudio nell'edizione fattane dall’Hesselio, le lettere ancora a lui dirette dall’insigne Astronomo Gio: Domenico Cassini sopra il confronto di alcune osservazioni su le Comete comparse l’anno 1665., che impresse in foglio abbiamo incontrato nella Biblioteca del Collegio Romano; come pure la lettera dal medesimo Falconieri diretta al Principe Leopoldo di Toscana, dipoi Cardinale, in favore del Tasso, riferita con tanta lode dell’Autore, da Monsignor Fontanini nella Biblioteca tom. 2. pag. 297.; non dovendosi per ultimo tralasciare la scelta, e copiosa di lui Biblioteca, ricca de’ più rari Scrittori in materia massime di Sacra, e Profana erudizione, che con sommo studio, ed industria raccolti aveva ne’ suoi viaggi, dalle più rinomate oltramontane Librerie, passate poi dopo la di lui morte in potere del Card Benedetto Panfili, che ne fece l’acquisto, come di tutto ci rende sicura testimonianza l'Abbate Piazza, scrittore contemporaneo, nel Trattato delle Biblioteche Romane.
    La Somma riputazione, che fra’ Letterati di quel tempi godeva il Falconieri, lo fece distinguere dalla Regina di Svezia Cristina, che però lo volle annoverare tra gli illustri Personaggi, che componevano l’accademica, e virtuosa Adunanza, che bene spesso si teneva nel di lei Palazzo, e però leggesi il di lui nome nell’Elenco degli Accademici, che vien riportato dall’Archenoltz nel Tom. 1. pag. 502. e Tom. 2. pag. 139. delle memorie dal medesimo radunate per servire alla storia di quella Regina gran Protettrice delle beile Arti, e delle lettere, e a gran ragione chiamata dal Cardinale Noris soeculi decus, et miraculum.
    Per il medesimo riguardo troviamo diretta al nostro Falconieri la faticosa, ed eccellente opera de Præstantia Numismatum, donde si rendè tanto celebre il nome di Ezechiele Spanemio nell’Antiquaria Republica. Avendo pur fatto le stesse dimostrazioni di stima Niccolò Einsio nel dedicargli il terzo libro delle sue Elegie, ed altri Uomini dotti nel dar alla luce le loro letterarie fatiche. Ma ritornando all’Opere del Falconieri, quelle che più lo distinsero, e renderono celebre il di lui nome, furono l'iscrizioni Atletiche colle copiose, e tanto pregiate di lui Note, per le quali ricevette questa materia una nuova luce, ed un nuovo aspetto; come pure la dissertazione de Nummo Apamensi, Deucalionei diluvii Typum exhibente, in occasione di esaminare un Medaglione di Filippo Seniore del Museo Mediceo, per cui fece abbastanza conoscere e il molto suo ingegno, e la rara, e vasta sua erudizione; essendo comparse ambedue alla luce unitamente nella Stamperia del Falco in Roma nel 1668. in un giusto volume in quarto, dedicato al Cardinale Rospigliosi, e riprodotte poscia, ed inserite dal Gronovio nel Tesoro delle Greche Antichità. Le iscrizioni, e Note nel Tomo ottavo immediatamente dopo il trattato de Re Athletica di Pietro Fabro, nella Prefazione del qual Tomo alla pag. 7. in riguardo alle fatiche del Falconieri su le dette Iscrizioni, quel degnissimo Scrittore lasciò le seguenti onorevoli espressioni ivi: ut quum tempori nostro contigerit, ut excitaretur vir nobilissimus, et tersissimæ doctrinæ Octavius Falconerius, qui eas faceret opus suum...,. ut appareat quantum illæ Fabro, quantum eximio illæ debeant Falconerio; ritrovandosi poi nel Tomo decimo del medesimo Tesoro delle Greche Antichità ristampata tra l’opera degli altri Scrittori la dissertazione suddetta, stata già fatta pubblica separatamente la prima volta sino dall’anno 1667. dal suo Autore per una dimostrazione di ossequio, e di plauso verso Pietro Seguino dotto Antiquario Francese, ch’era in quel tempo venuto a Roma per la terza volta, a cui in fatti era questa Dissertazione diretta, e che non era gran tempo che aveva trasmessa da Parigi una Medaglia di Severo consimile a quella di Filippo coniata pure in Apamea, a Francesco Gottifredi, chiamato dal Noris la Fenice degli Antiquari Romani, ed amicissimo del Falconieri, dalla qual Medaglia trasse questi un nuovo argomento, con cui avvalorare le di lui congetture su quella di Filippo Seniore, come tutto si rende manifesto dalle prime pagine della Dissertazione, di cui si tratta. Nè l'applauso che riportò questo componimento del Falconieri da’ primi Letterati di quel tempo; né le lodi, che furongli date dipoi da quei che vennero dopo, come il Fabricio, il Bonarroti nelle osservazioni sopra alcuni Medaglioni, dal Maffei nel Tomo 6. delle sue Osservazioni letterarie, dal Moneglia nella Dissertazione sulla Religione de’ due Filippi, ed altri possono oscurarsi, e diminuirsi dal giudizio poco favorevole, che si legge in una Nota sotto il nome rispettabile del Sig Apostolo Zeno nella Biblioteca del Fontanini Tom. 2. pag. 252., e che noi non potiamo persuaderci, che sia veramente sentimento proprio di quel sì degno Scrittore, nol consentendo la cognizione, che abbiamo della di lui saviezza, e delicata circospezione nel giudicare, mentre con gran franchezza nel luogo citato si dice; „ Che il Falconieri fu infelice nella spiegazione di un Medaglione degli Apamensi nella Frigia battuto in tempo di Filippo, nel qual parvegli di vedere l'imagine e la rappresentanza dell’universal diluvio con l'Arca ec., e di leggervi sotto ΝΩΕ. cioè il nome del Patriarca Noè, quando quelle tre lettere staccate dal rimanente dell’Epigrafe, e poste ivi come isolate, non altro sono, se non la continuazione della parola ΑΠΑΜΕΩΝ, le quali tre lettere riguardate dalla destra alla sinistra dicono ΝΩΕ; ma lette dalla sinistra alla destra dicono ΕΩΝ finimento dell’interna voce ΑΠΑΜΕΩΝ„ facendo con tal diceria conoscere l’Autore della censura di non aver, né letta la Dissertazione, né veduto il Medaglione. Poiché se letta l’avesse, avrebbe potuto comprendere, che ben lungi il Falconieri dalla pretensione di dare una vera, e positiva spiegazione del lodato Medaglione, non chiama la sua Dissertazione con altro nome, che di mera e semplice congettura, tanto nel Monito, che precede l’edizione sopraccennata del 1668., che nel decorso della medesima, dicendo dippiù nel detto Monito verso il fine, dopo aver parlato delle Iscrizioni Atletiche; come ivi: Demum quod attinet ad dissertationem de Nummo Apamensi, id unum te scire volo, erudite lector, me in adstruenda Scriptura nominis Noe ex litteris, qua; in celebri illo nummo extant, ejus solum partes suscepisse, qui rem quæ facto in primis nititur, ratione et conjecturis illustrare aggressus, de re ipsa minime laboret. Illud non reticebo conjecturæ meæ non parum præsidii attulisse V. Clar. Patrum Seguinum etc., ripetendo lo stesso nella Dissertazione, per cosi dire, ad ogni passo, e massime su1 principio, ivi: in mentem statim venit, occasionem oplutissimam offerri mihi observantiam erga te meam tibi Romam advenienti publico aliquo monimento declarandi si meam de praæclarissimo Philippi Numismate conjecturam tuis auspicitis vulgurem, quam anno superiore, epistola ad Gothifredum leviter attigeram etc.
    Ciò supposto, avrebbe dovuto, come ragion chiedeva, l’Autore della Censura per isfuggire il dispiacere di trovarla cosi mal fondata, prima di proferir giudizio, riflettere alcun poco, ed esaminare le conghietture addotte dal Falconieri per rendere più verisimile il di lui pensamento, che ritrovate avrebbe di tal forza, e valore, che facilmente indotto r avrebbero a cambiare opinione. Fu ben considerato il merito delle medesime dal Signor Marchese Maffei, e rilevati i pregj di molte, donde poi si trovò vinto, e costretto ad abbracciare il sentimento del Falconieri, come si può vedere nel Tomo 6. delle sue Osservazioni letterarie pag. 294. e seg.
    Con uguale, se non maggiore, franchezza si può credere, che il Censore veduto non abbia mai il Medaglione di Filippo, poiché se osservato, e considerato l’avesse, avrebbe veduto ancora a piedi del rovescio tutta intera e distesa con lettere ben chiare la parola ΑΠΑΜΕΩΝ, e per conguenza non poter aver luogo la di lui immaginazione che le tre lettere ΝΩΕ che trovansi scolpite nel corpo della Nave fossero la continuazione, e finimento della parola ΑΠΑΜΕΩΝ. che abbiamo tutta intera senza di questo straniero ricercato sussidio, nel qual caso la suddetta imaginazione si riduce ad una ridicola, ed inutile ripetizione, come ha pure osservato il Gori nel fine della sua osservazione su di questo Medaglione nell’insigne Opera del Museo Mediceo.

    Dopo d’aver unite assieme, e me meglio si è potuto, colle ricerche su’ libri, queste poche notizie riguardanti la Persona di Ottavio Falconieri, e date alle stampe, abbiamo oltre ogni nostra aspettazione scoperto, che molto parlasi di questo Personaggio nelle carte, e scritti lasciati dal sopralodato Francesco Gottifredi, e passati dopo l’estinzione della linea mascolina dì quell'illustre Famiglia in potere dell’Eminentissimo Fantuzzi. Non essendo noi in grado di più poterci prevalere di tale scoperta per non trattenere la stampa, lascieremo il campo a qualche altro, che talento abbia di acquistare maggiori cognizioni, restando ben contenti di aver potuto additare il luogo, ove si conservano. (Nota della vecchia Edizione.)
  2. La parola Calatori, o sia Kalatori, scrivendosi tanto in una, che nell’altra maniera; non altro significa, che un Ministro pubblico, la di cui principal cura era di servire ne’ sagrifizj, e in altre cose sacre, ed anche per avvisare il Popolo ad astenersi da’ lavori in tempo delle Ferie publiche, come abbiamo dal Pitisco nel Lessico delle Romane Antichità, e viene bastantemente indicato dalla seguente Iscrizione, riferita dal Grutero nel Tom. 1. part 2. come esistente in area domus Cardinalis Cœsii.


    Q. CAELCILIO FEROCI KALATORI
    SACERDOTII TITLLIVM
    FLAVI ALIVM ec.


    (Not. V. Ed.)

  3. Di un Giunio Silano parla l’iscrizione sull’Arco a S. Tommaso in Formis, che viene riferita dal Mazzocchi nelle sue Iscrizioni, ed anche dall’Abb. Venuti nel primo Tomo delle Antichità di Roma:

    P. CORNELIVS. P. F. DOLABELLA
    C. IVNIVS. C. F. SILANVS.
    FLAMEN MARTIAL. COS.
    EX S. C. FACIENDVM. CVRAVERVNT
    IDEALQVE. PROBAVERVNT

    Ma presso il Mazzocchi si legge in luogo d’Idem que, Eidemque. (Nota della V. Ediz.)

  4. (*)

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.