< L'asino d'oro
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Apuleio - L'asino d'oro (II secolo)
Traduzione dal latino di Agnolo Firenzuola (XVI secolo)
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AVVERTENZA DELL'EDITORE




Da Bastiano de’ Giovannini da Firenzuola e da Lucrezia figlia di Alessandro Braccesi1 nacque Agnolo in Firenze nel 1493 a’ 28 di settembre. — Studiò a Siena e a Perugia, com’egli stesso narra nel principio della versione d’Apuleio, riferendo a sè gli avvenimenti che questi, trasformato in asino, di sè stesso racconta. — Trasferitosi a Roma, patrocinò cause per alcun tempo in quella curia, e fu caro a Clemente VII, che gustava molto gli scritti di lui. In Roma rifermò l’amistà che a Perugia avea preso con Pietro Aretino, e a’ piedi di questo santo con lettera del 5 ottobre 1541 confessa un morbo che l’infestò undici anni, e che gli suggerì forse il capitolo del Legno santo.

Eran ventisei mesi o poco manco,
    Ch’attorno avevo avute tre quartane,
    Ch’avrian logoro un bufol, non che stanco.
Avevo fatto certe carni strane,
    Ch’io parevo un Sanese ritornato
    Di Maremma di poche settimane.
Tristo a me, s’io mi fussi addormentato
    Tra i frati in chiesa! in sul bel del dormire
    E' m’arebbon per morto sotterrato.
Quanti danari ho speso per guarire,
    Che meglio era giucarseli a primiera,
    Che tutt’uno alla fin veniva a dire.
Ho logorato una speziarla intera:
    Sonmi fatto a’ miei di più serviziali,
    Che ’l Vescovo di Scala quando ci era.
Credo aver rotto duecento orinali;
    E qui in Roma prima, e poi in Fiorenza,
    Ho straccati i maestri principali.
Ho avuto al viver mio grande avvertenza
    Alla fila alla fila uno e due mesi,
    Ed altrettanto vivuto a credenza.
Ho mutato aria, ho mutato paesi,
    Or ho abbracciata la poltroneria,
    Or in far esercizio i giorni ho spesi.
Ma per non far più lunga diceria,
    Conchiuderò, che non pigliando il legno,
    Io ero bello e presso andato via.


Vestì l’abito di monaco vallombrosano e in quell’ordine ottenne ragguardevoli onori, cioè la Badia di S. Maria di Spoleto, e quella di S. Salvador di Vaiano. Così il Tiraboschi, il quale s’appose che fosse senza più abate commendatario. Se non che Brunone Bianchi chiarì meglio la cosa. “Da un Breve, egli dice, veduto dal Canonico Moreni nel Bollario Arcivescovile di Firenze, che porta lo scioglimento di esso Firenzuola da’ voti religiosi, ed è spedito del 1526 a nome di Clemente VII dal generale vallombrosano Giovammaria Canigiani, si rileva, che il vestimento e la professione di lui non furono secondo le regole, e che dev’esservi stato alcuno di quei tanti abusi che in tal materia s’erano introdotti e si vedevano, prima che il Concilio di Trento vi provvedesse, prescrivendo termini e modi d’assoluto rigore. Imperocchè vi si allega come notabile la causa stessa del prender l’abito; si dice pretesa l’esibizione, o portamento, di quello; e vi è chiamata non legittima la professione. Dal che si potrebbe non assurdamente inferire che Messer Agnolo, qual che si fossero le circostanze che accompagnarono questo suo mal passo,.... non si mostrasse mai pubblicamente in veste di frate, nè abitasse convento; ma, pochi forse consapevoli della sua professione, si vivesse a se, sciolto d’ogni regola di disciplina, e tutto al più considerandosi come un devoto o aggregato di quell’Ordine; sinchè o coscienza, o amor di sua pace lo persuase a farsi togliere legittimamente una qualità che lo noiava, e a cui per repugnante natura non avrebbe mai saputo accomodarsi. Nè a questa opinione farebbe ostacolo il nome d’abate che in diverse antiche scritture gli è dato; chè non sempre siffatta appellazione importa governo di religiosa famiglia; ma spesso non è che un titolo beneficiario, o di commenda. E tanto è ciò vero, che il Papa dichiara nel suo Breve non volere che sia impedimento a dispensar con lui, si quo tempore monasterium aliquod dicti Ordinis in titulum, vel commendam, aut alias quovis modo obtinuerit; e nel 1539, cioè 13 anni dopo questa dispensa, troviamo il Firenzuola abate di Vaiano su quel di Prato; che volea dire usufruttuario e amministratore perpetuo di quella badìa.”

Quest’abito ecclesiastico più o meno attillato e stretto alla vita fu di gran noia al Firenzuola, più buongustaio che ghiotto in amore, ma tutto dato alle piacevolezze ed al riso, che non può essere mai schietto e franco, o almeno dicevole ed accetto nella gravità del sacerdozio. Secondochè il Guerrazzi disse saporitamente a un abate, per quanto i preti si abbaruffin le chiome, ci si vede la chierica; il che non si allega per far rimprovero del lor carattere, ma per avvertirli che non ne escano, e tutta la fine coltura dei Bembi e dei Casa si richiede a far loro perdonare le loro capestrerie. Se non che in quell’età il sacerdozio era più spesso andazzo che vocazione, più spesso speculazione mondana che missione ispirata; tantochè dicono che Pietro Aretino aspirasse alla mitera. Il fatto è che tutti gli spiriti più elevati erano amici di lui, e non per paura, come i Principi, ma per conformità di gusto e per simpatia. E come se l’intendesse col nostro Angelo lo mostri questa lettera che il cinico di Arezzo gli scrisse, con bel ricordo della loro scapigliatura:

« Nel vedere io, M. Agnolo caro, il nome vostro iscritto sotto la lettera mandatami lagrimai di sorte, che l’uomo che me la diede fece scusa meco circa il credersi di avermi arrecato novelle tanto triste, quanto me l’aveva portate buone. Ma se il ricevere carte da voi mi provoca a piangere per via d’una intrinsica tenerezza, che sarà di me in quel punto, che Cristo mi farà dono del potervi stampare i baci dell’affezione nell’una gota e nell’altra? per Dio, che egli è siffatto il desiderio, ch’io tengo in far ciò, che lo metto ora in opra con la veemenza del pensiero. Onde mi pare veramente gittarvi al collo le braccia; e nel così parermi, i miei spiriti commossi dalla isviscerata carità dell’amicizia ne dimostrano segno non altrimenti, che la imaginazione fusse in atto. Ma, chi non si risentirebbe nel pensare agli andari nobili della conversazione di voi, che spargete la giocondità del piacere negli animi di coloro, che vi praticano con la domestichezza, che a Perugia scolare, a Fiorenza cittadino ed a Roma prelato vi ho praticato io: che rido ancora dello spasso, che ebbe Papa Clemente la sera, che lo spinsi a leggere ciò, che già componeste sopra gli Omeghi del Trissino. Per la qual cosa la santitade sua volse insieme con monsignor Bembo personalmente conoscervi. Certo che io ritorno spesso con la fantasia ai casi delle nostre giovanili piacevolezze; nè crediate che mi sia scordato la fuga di quella vecchia, che isgomberò il paese impaurita dalla villania, che di bel dì chiaro, e di su la finestra, voi gli diceste in camicia ed io ignudo. Ho anco in mente il conflitto, ch’io feci in casa di Camilla Pisana allora, che mi lasciaste ad intertenerla: e mentre me ne rammento, veggo il Bagnacavallo, il quale mi guarda e tace; e guardandomi e tacendo odo dirmi dal suo stupire della tavola arroversciata; egli ci sta bene ogni male. Intanto sento la felice memoria di Iustiniano Nelli cadere là per allegrezza di tale rovina, come caddi io per la doglia tosto, che intesi il suo essere morto a Piombino; danno grande a Italia tutta, non che a Siena sola. Imperocchè egli oltre il possedere la eccellenza e dei costumi, e della dottrina, e della bontade; fu non pure uno dei primi sostegni della propria republica, ma dei più perfetti fisici, che mai curasse infermitade umana. Si che onoriamolo con l’esequie delle laude, da che noi, che gli fummo fratelli in dilezione, non lo possiamo riverire con altro.

Di Venezia, il XXXVI d’ottobre, M.D.XXXXI.

Poscritto. Il chiarissimo Varchi non meno nostro, che suo; per essere venuto a vedermi a punto nel serrare di questa, ha voluto che per mezzo di lei, vi saluti da parte di quello animo, che di continuo tiene a presso della signoria vostra. »

Degno amico dell’Aretino si mostra il nostro Angelo per vari lochi delle sue prose e delle sue rime, massime in quel capitolo del guaiaco, o legno santo, e nell’altro delle campane. Se non che egli nel verso valeva meno, e le sue poesie non hanno il garbo, la leggiadria, la venustà delle prose. A darne un saggio valga questa imitazione d’una delle più graziose odi d’Orazio:

Chi è Pirra, quel leggiadro giovincello,
    Per mille odor soave,
    Che tutto l’uscio tuo t’empie di rose?
Per chi leghi or le chiome, o vaga e bella?
    Quante volte la fede
    Piangerà rotta, e mutati i favori,
    (Non solito a mirarlo) e quante volte
    Vedrà per aspri venti il mar turbato
    Quel ch’or tutta ti gode!
    Semplice quel che spera solo averti
    A’ suoi piacer mai sempre!
    Poco conosce i muliebri ardori.
    O miseri coloro
    Che non provar di donna fede mai!
    Il pericol ch’io corsi
    Nel tempestoso mar, nella procella

    Del lor crudele amore,
    Mostrar lo può la tavoletta posta,
    E le vesti ancor molli
    Sospese al tempio dell’orrendo Dio
    Di questo mar crudele.

Si vede da quest’esempio, che non è però il fiore de’ suoi versi, com’egli si lasciasse andare e non facesse gran caso della poesia. Egli forse rivolgeva a lei il detto di Voltaire sulla prosa all’amico che l’interrompeva: Entrez, entrez, je ne fais que de la vile prose.

Il Bianchi dice esser fama che il Firenzuola, il quale, morto Clemente VII avea lasciato Roma per la Toscana, dove se la passava or a Prato or in Firenze, tornasse in quella metropoli verso il 1544 e vi morisse non molto dopo e fosse sepolto in santa Prassede.

Il Giordani, che non credeva ai miracoli, chiamò miracoli di versione italiana l’Eneide del Caro e il Tacito del Davanzati; e per terzo metteva il Terenzio del Cesari; ma questo va col Papa miracolo, che egli aveva salutato all’amnistia e alle riforme di Pio IX. Il vero terzo miracolo è l’Asino d’oro del Firenzuola, il quale avendo a mano quell’africano romanizzato di Apuleio, e quel suo dire accartocciato come gl’intagli del Bernino, e con prunaie ben più intralciate che gli stillamenti di Tacito lo recò ad una soavità, ad una morbidezza, talor forse troppo svenevole; ma con tale trasformazione che Ovidio non che Apuleio sognò mai l’eguale: furono veramente le rose dell’italico dire che dell’irto latino fecero il grazioso e soave toscano, dell’istrice un armellino. E s’egli mise Agnolo in luogo di Lucio, n’ebbe ben ragione, e nessuno vorrà dargliene biasimo, o tassarlo di presunzione.

Delle edizioni di questo volgarizzamento lo Zeno crede la prima la bella e rara, fatta in gentilissimo garamoncino corsivo in Venezia appresso Gabriel Giolito 1550 in 12°. La dedicazione di Lorenzo Scala a Lorenzo Pucci, in data di Firenze 25 di maggio 1549 ha fatto credere per vera e reale un’edizione dei Giunti dello stesso anno, che probabilmente non esiste. L’edizione del Giolito è intera, ma le due giuntine del 1598 e 1603 sono castrate. L’annotatore parmense della Biblioteca del Fontanini, sulla fede dell’Argelati, sostiene che la prima edizione fu fatta dal Giolito in Venezia il 1548 in 8.° con figure. Non sarà forse quella che lo Zeno cita dello stesso Giolito 1567 in 8.°, (alcuni esemplari hanno 1566, ma è tutta una edizione) che da quella del 1550 s’avvantaggia di postille, di tavole e di figure.

Noi abbiamo seguito nella nostra ristampa la pregiata edizione di Firenze (Le Monnier 1848) curata dal valente comentatore della Divina Commedia, Brunone Bianchi, tralasciando le sue note, che non ci parvero di gran momento ai fini della nostra raccolta. Aggiungemmo la novella dello Sternuto, imitata e abbellita dal Boccaccio in Pietro da Vinciolo, che il Firenzuola aveva saltata, e che noi poniamo in fine al volume seguendo la versione di Matteo Boiardo, parendoci che così s’avesse eziandio un saggio del modo ch’egli tenne nel tradurre Apuleio. ― I fiorentini sommersero la sua fama; il Berni fa che non si legga il suo Orlando; il Firenzuola, che non si legga il suo Asino. E pure questa versione ha pregi di fedeltà e vaghezza, e forse un giorno, se i fautori di questa Biblioteca ci faranno punto d’animo, la daremo con altre cose del Boiardo, ed egli, come già pel trovamento di quei gran nomi romanzeschi, farà sonar di gioia tutte le campane di Paradiso.

Dalla edizione della versione del Boiardo (in Venezia al segno dell’Imperadore 1544 o più distintamente per Bartolomeo detto l’Imperadore e Francesco viniziano, sulla piazza di S. Marco, presso la chiesa di S. Basso) abbiam tratto le belle illustrazioni che adornano questa nostra ristampa, e la vita d’Apuleio (nato a Madaura nel 114 e morto nel 190) non già per la copia o esattezza delle notizie, che si posson vedere nel Bayle, nella Biografia Michaud e altrove, ma per curiosità.

Questa versione è l’opera più originale del Firenzuola, perchè egli ci ha messo la maggiore e più squisita parte del suo ingegno e del suo stile. Mentre i restauratori ordinari guastano gli originali, i ritoccatori a modo di Shakespeare gli rinnovano, e ne viene un’originalità più ricca e possente. Tra noi una versione esatta di Apuleio, mirabile nel suo stesso affatturamento latino, non sarebbe riuscita come questo ricopiamento libero in una lingua che non vive più tutta, se non forse qua e là pei diversi vernacoli della Toscana, ma che pare degna dell’immortalità in ciascuna sua parte. I Discorsi degli Animali non sono così vaghi, nè in sostanza più originali dell'Asino; conciossiachè l’invenzione sia della prima civiltà indica, e in Europa è stata coltivata a poema dal Roman du Renard, tanto variamente elaborato, agli Animali parlanti del Casti. Le commedie, sono altresì belle e fiorite; e forse più felici che le novelle. Ma del Firenzuola si può dire che ogni dove è Paradiso, e noi saliremo di sfera in sfera, finchè sia tutto visto e gustato.

Carlo Téoli.

  1. Braccio ha B. Bianchi seguendo lo stesso Firenzuola; Braccesi è nei ricordi di Ser Carlo avo del nostro Agnolo, (che così ridusse i nomi di Michelagnolo Gerolamo, onde fu chiamato al battesimo) citati nella vita premessa alle sue opere nell’edizione di Firenze (Venezia, Golombani) del 1763-6 ed abbreviata da quella di D. M. Manni.

Note

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