< Lettere di Winckelmann
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A r t i c o l o   IX.


Notizie su d’altre antichità, di rilievo d’Ercolano.


Monsignor Ottavio Bayardi nel suo catalogo dato nel celebre Prodromo, fra infiniti altri traviamenti entra nella spiegazione d’un basso rilievo espresso in un vaso d’argento1. „ Un vaso, dic’egli, a guisa di mortaro ........ Vi si vede a basso rilievo un’apoteosi..... Evvi Cesare velato ......... trasportato in aria da un’aquila. A mano destra evvi una Roma piangente, a mano manca un soldato barbaro, ec.„. Non può esser Giulio Cesare per cagione della barba, e la testa non ha veruna rassomiglianza con Cesare. Vi hanno più manifesti indizj per asserirla un’apoteosi d’Omero2. La figura battezzata per una Roma piangente è col parazonio, o sia spada corta al fianco, che tiene impugnato colla mano, e rappresenta quindi l’Iliade; siccome l’aria sua piena di mestizia, o di gran pensieri, va denotando questa parte tragica d’Omero in quella maniera, che l’Odissea era stimata dagli antichi del genere comico, secondo Aristotele nella Poetica3. Il preteso soldato barbaro è Ulisse col remo, o timone, che tiene alzato in contrasegno de’ suoi viaggi per mare; come il pileo, col quale è sempre effigiato Ulisse, forse è per significare un uomo della marina4. Nessuno mi ha dato soddisfazione fu questo pileo tra i tanti a voi noti commentatori della celebre Apoteosi d’Omero nel palazzo Colonna, elegante scultura di Archelao prienense figliuolo d’Apollonio; e quindi io lo spiego a mio modo. I marinari levantini anche oggigiorno portano un tal pileo senza falde. Il conte di Caylus vago d’ornare la sua Raccolta d’Antichità con questo vaso, secondo il disegno fatto da un giovane francese all’uso di quella nazione, che vantando il primo colpo d’occhio non ricerca davvantaggio, ci rappresenta l’uomo portato sull’aquila5, e dice6: Les ornemens, dont ce gruppe (la figura coll’aquila) est environnè, ne presentent aucune idée, qui ait rapport à la divinité; ils sont absolument de fantaisie. Eppure vedeva i cigni, che calcola per niente. Il disegnatore dunque non ha badato ad altro, che a quello, che gli stava innanzi al vaso, quando l’espositore non sapeva, che vi erano altre figure. Caylus s’accorda con Bayardi, toltane la barba, riputandola esso pure un’apoteosi di qualche imperatore. Saprà però meglio di quello, che Adriano fu il primo, che portò la barba, per ricoprire una cicatrice7, ed Ercolano fu sotterrato prima. Ora appunto mi capita il primo Tomo di Virgilio fatto intagliare tutto in rame dal signor Justice ad imitazione dell’Orazio di Londra: ivi è rappresentata ad uso di basso rilievo la morte di Cesare, il quale comparisce anche qui colla barba. E’ cosa, che fa venire la nausea, vedere Cesare gettato sul pavimento, e dare un calcio contro la pancia di Bruto, o di Cassio. Questa impresa, fatta per mani inguantate anche in stanza, è eseguita con quello stesso poco gusto, e intendimento, che quella d’Orazio. L’altra figura nello stesso rame è presa d’idea al museo di Portici (giacchè non è permesso a nessuno di cavar fuori neppure un toccalapis), ed è un Fauno, che suona la cetera, il quale è fatto propriamente al genio francese, cioè outrè, per paura di non farsi sentire, o capire. Vogliono un Fauno piucchè Fauno, ed un disegno così caricato lo chiamano grandioso. Questo basso rilievo d’argento è quadrato, non tondo; e il Fauno non sta così col capo chino, come è rappresentato: ma per farvene un’idea per un altro ideato, figuratevi quel suonatore d’Aspendo, di cui parla Cicerone nelle Verrine8, e in cui si vedeva, che non suonava, che per sè solo, così invaghito, e rapito dall’armonia sua, che non si curava d’essere applaudito da altri, volendo godere solo fra sè stesso9. Qui non sarebbe ora fuori di proposito il fare qualch’altra amorevole riflessione sopra il libro del conte di Caylus. Egli ha scritto con quel gran giudizio, che consiste nella savia cautela di non arrischiarsi troppo; e si vede, che molte volte cammina quasi sopra

..... ignes
Suppositos cineri doloso10.

Egli è il primo, a cui tocca la bella gloria d’essersi incamminato per entrare nella sostanza dello stile dell’arte de’ popoli antichi11. Ma il voler fare ciò a Parigi è un impegno assai più superiore dell’assunto. Nel Tomo II. Tavola XXXIX. ci dà un disegno d’una figura comunicatogli da quello scultore, che ha da fare il modello per la statua equestre del re di Danimarca in bronzo, la quale si fa a spese della Compagnia delle Indie. Quella figura, che è ora nel Campidoglio, stava nel tempo, in cui Sully ne prese il disegno, presso ai Gesuiti a Tivoli; e la differenza da questo disegno a uno più esatto nel Museo Capitolino12, non ha fatto ravvisare all’autore, che la sua figura era la stessa, che quella. Vero è, che l’autore del Museo Capitolino, monsignor Bottari, non lo poteva istruire col suo ragionamento, non avendo saputo che dirne. Caylus pretende, che la statua sia de’ tempi antichissimi della Grecia, quando la scultura era somigliante a quella d’Egitto, come era la statua di Arrachione fatta nell’olimpiade lv., e descritta da Pausania13. Quanto a quella non è deciso, che l’atto per così dire egizio della statua d’Arrachione non fosse piuttosto un atto, con cui avesse dato una prova particolare della sua forza; mentre era simile all’atto, con cui era effigiato Milone crotoniate14. Arrachione era contemporaneo de’ Pisistrati portati a promuovere le scienze, e le arti, e si potrebbe dimostrare con alcune medaglie, che il disegno de’ Greci s’era già spogliato dell’aria egizia15. Il disegno di Caylus è fatto con quel tocco di franchezza, o di buffonería, che i Francesi chiamano spirito, ed ha fatto traviare in parte l’autore. La statua è fatta a tempo d’Adriano all’uso egizio. Sullo stesso stile è fatto un così detto Idolo di marmo nel Campidoglio, e sotto questo nome viene riportato nel Museo Capitolino16; ed è il vero Antinoo egizio. Ne porterò la prova a suo luogo17. Tali paradossi capitolini faranno un giorno rivoltare gli antiquarj di Roma, che non sanno altro per lo più, che la loro vecchia tradizione. Il signor di Caylus ha sposato pure un errore comune, ed è quello di pigliare tutti i vasi di terra cotta dipinti per Etruschi18. Vi hanno tre vasi coll’iscrizione greca nel museo Mastrilli a Napoli. Scorrendo di nuovo il Tomo II. delle Antichità di Caylus19, vi trovo un vaso scritto così: e l’autore ha riputata la scrittura per etrusca. Nella spiegazione, alla pag. 80. dice: Je ne dois pas oublier une grande singularitè de ce vase, c’est de prèsenter devant chaque figure certains caracteres disposes dans l’ordre, qu’on voit dans la planche. Non avrà mancato di consultare i Fourmont, e i Brageres. Mi sovviene d’aver veduto una patera di terra cotta, e dipinta, pubblicata dal canonico Mazochi20 coll’iscrizione seguente: . Si legge καλὸς Ὁπόσδας cioè Hoposdas il bello. Si sa quanta stima fece il genio greco della bellezza d’ambi i sessi; e Pausania riporta, che si usava di notare il nome di qualche bel ragazzo sul muro nelle proprie stanze21. L’artefice boccalajo della patera ha dato uno sfogo di tenerezza nelle sue opere. Si metta in confronto con questo il carattere del vaso di Caylus, il quale, come suppongo, non sarà ben copiato. Non è etrusco, ma greco; e dovrà leggersi Ηόπολ(ο)ς καλός Hopolos il bello. Vi supplisco un O. Gli antichissimi Greci fecero l’O quasi triangolare, e il Λ inverso V, o . Il vaso dunque non è etrusco. Quello vaso solo ben inteso scompone tutta la tessitura del sistema di Caylus22. Ho veduto più di 500. vasi simili e a Roma, e a Napoli. Tutti sono raccolti nel Regno23, e la maggior parte è stata trovata a Nola. Frattanto scriverò a Parigi all’incisore del de Wille mio amico per farmi copiare esattamente la scrittura, ec.24.



  1. Vasi, e Patere, n. 540.
  2. Per la fisonomia, supponendolo Omero, non farà maraviglia, se non è come quella delle teste in marmo credute di lui; quattro delle quali si conservano nel museo Capitolino, e due delle più belle ne dà Bottari nel Tomo I. di esso, Tav. 54.. 55.; una è nella villa Albani, ed altre molte altrove. Ritratto vero di quello poeta neppur lo aveano gli antichi; se non che nell’ideale, che se ne formarono, pare che a un di presso tutti convenissero. Bottari al luogo citato si sforza di provare, che il più generalmente ricevuto nei marmi, e nelle medaglie avesse la barba piuttosto corta. Si ha nelle medaglie de’ Nicei, de’ Chii, e Smirnei, come nota lo stesso Bottari, e Fabricio Bibl. gr&ca, Tom. I. lib. 2. cap. 1. pag. 257., e in quelle di Amastria nella Paflagonia, una delle quali ne ho veduta nel prezioso museo Borgiano a Velletri. Furono alzate anche delle statue, e de’ tempj a questo principe de’ poeti, come fanno osservare gli stessi scrittori. Secondo Erodoto nella di lui vita, ristampata dal Reinoldo, ed altri, restò cieco in sua gioventù. Ma se fu cieco, seppe descrivere così bene tutte le cose, che racconta, e quali dipingercele meglio di uno, che le avesse vedute; del che abbiamo il giudizio di Cicerone, che conferma ciò, che si è detto nel Tomo I. pag. 57.: Traditum est etiam, Homerum cæcum fuisse. At ejus picturam, non poesin, videmus. Quæ regio, quæ ora, qui locus Græcæ, quæ species formæ, quæ pugna, quæ acies, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum, non ita expictus est, ut quæ non viderit, nos ut videremus, effecerit? Tuscol. quæst. lib. 5. cap. 39., al quale si unisce Longino De subl. sect. 10. pag. 85.
  3. Aristotele in quest’opera, cap. 4. oper. Tom. IV. pag. 5., dice che il Margite d’Omero era da stimarsi del genere comico; l’Iliade, e l’Odissea del tragico. Donato, o Evanzio che sia, nei prolegomeni a Terenzio è quello, che mette l’Odissea nel genere comico, e l’Iliade nel tragico. Il Vossio Inst. poet. lib. 2. cap. 2. §. 3. 4.., cap. 24. §. 21. lo confuta coll’autorità di Aristotele; ma egli non ha badato, che Aristotele stesso cap. 13. pag. 15. scrive, che l’Odissea può considerarsi parte come tragica, parte come comica. Nel genere comico la mette anche Longino loc. cit. sect. 9. in fine, pag. 73.
  4. Qui avanti nella Storia, Tom. iI. pag. 215. not. *, e nei Monum. ant. ined. Par. iI. cap. 33. pag. 209. Winkelmann dice, che anche questa figura è di donna, e che tiene un timone. Se fosse Ulisse, che tenesse il remo, potrebbe dirsi, che alludesse al vaticinio di Tiresia, di dover egli, tornato in Itaca, intraprendere un nuovo viaggio, girando con un remo sulla spalla fintanto che trovasse gente, la quale non conoscesse il mare, e non mangiasse sale, ec., come narra Omero nell’Odissea lib. 11. v. 120. segg. Del pileo ne parleremo nella spiegazione delle Tavole in rame al numero 2. del Tomo I. Del resto la spiegazione, che dà il nostro Autore a questo monumento, io la credo giustissima. Ma però è da darsene l’onore al lodato Martorelli, che così lo spiega loc. cit. parerg. pag. 266. seg.; e da lui l’avrà presa il nostro Autore, come tante altre notizie, senza nominarlo altro che per criticarlo.
  5. L’ha copiato Huber Tom. iiI. pag. 70.
  6. Tom. iI. Antiq. grecq. pl. XLI. p. 121.
  7. Sparziano nella di lui vita, cap. 26., Dione Cassio lib. 68. c. 16. Tom. iI. p. 1132.
  8. Act. 2. lib. 1. cap. 20.
  9. Cicerone non ne parla in questo senso; ma bensì, come ivi nota Asconio, che quel suonatore suonasse la cetra in un modo diverso dagli altri, cioè che tenesse il plettro colla mano sinistra, e colle dita della stessa mano toccasse le corde, suonando così tutto per di sotto, e con una sola mano; quando gli altri adopravano amendue le mani: la mano destra col plettro per di sopra, e l’altra sotto. Per tal sua maestria quel suonatore meritò una statua in Aspendo sua patria, che non avrebbe meritato per la vanità, che dice Winkelmann. Aspendum, scrive Cicerone, vetus oppidum, & nobili in Pamphylia ssitis esse, plenissimum signorum optimorum. Non dicam illinc hoc signum ablatum esse, & illud: hoc dico, nullum te Aspendi signum, Verres, reliquisse: omnia ex fanis, ex locis publicis, palam, spectantibus omnibus, plaustris evccta, asportataque esse. Atque etiam Aspendium illum citharistam, de quo sæpe audistis id, quod est græcis hominibus in proverbio, quem omnia intus canere dicebant, suslulit, & in intimis suis ædibus posuit; ut etiam illum ipsum artificio suo superasse videatur.
  10. Orazio Carm. lib. 2. od. 1. vers. 7. 8.
  11. Si veda l’elogio di Winkelmann nel Tom. I. pag. lxx. I tratti principali della di lui vita si possono leggere nel Journal encyclopedique stampato in Bouillon, année 1773. Tom. I. par. 2. pag. 315. segg. Nacque in Parigi li 31. ottobre 1691., e vi morì alli 5. di settembre 1765.
  12. Tom. iiI. Tav. 81.
  13. Vedi qui avanti Tom. I. pag. 11. §. 15., Tom. iI. pag. 103.
  14. Pausania lib 8. cap. 40. pag. 682., ove parla di Arrachione, dice, che ottenne tre vittorie; la terra nell’olimpiade liv., per la quale morì; e che gli fu eretta una statua: ma non dice se dopo morte per la tersa vittoria, o se prima per le altre. Dice bensì chiaramente, che la sua positura, e atteggiamento era un indizio della sua antichità. Parla anche della statua di Milone lib. 6. cap. 14. pag. 486. senza dire in che atteggiamento fosse. Neppur credo che possa darci lume Plinio lib. 34. c. 4. sect. 9., ove dice che ai vincitori nei giuochi olimpici solevano erigersi statue anche per una vittoria; ma che se ne riportavano tre, solevano loro ergerli le statue secondo la loro statura, e fisonomia: eorum, qui ter ibi superavissent, ex membris ipsorum similitudine expressa, quas iconicas vocant. Vedi anche Tom. iI. pag. 267. n. b.
  15. Sembra che possa confermare questo sentimento ciò, che narra Policarmo presso Ateneo lib. 15. cap. 6. pag. 675. in fine, di Erostato, che ritornando nell’olimp. xxiii. da Paffo in Cipro a Naucrati sua patria, portò seco una statuetta di Venere dell’altezza d’un palmo, fatta nello stile antico: cum aliquando ad Cypri Paphon navem applicuisset, Veneris imagunculam, magnitudine palmi, operis vetusti, emit, Naucratim ut portaret. Dunque in quella olimpiade era già mutato lo stile antichissimo. La statua d’Arrachione è posteriore di più di trenta olimpiadi, vale a dire più di cento vent’anni, ed era fatta nello stile antico. Chi sa se era il più antico? Oppure se dove fu fatta la statua, non si era corretto ancora? Secondo Plinio, come fu veduto nel Tom. iI. pag. 168. circa l’olimpiade liv. si erano di già resi celebri varj scultori in marmo, e aveano fatte non poche statue di deità, che per li loro attributi non potevano esser fatte all’egizia interizzite colle mani, e piedi stretti, e arrancati alla vita, come Apollo, Diara, Ercole, e Minerva, che fecero Dipeno, e Scillide. Lo stesso diremo dei pittori, che sin dal principio delle olimpiadi fecero opere tanto stimate, come scrive lo stesso Plinio lib 35. cap. 8. sect. 34.
  16. loc. cit. Tav. 75.
  17. Vedi qui avanti Tom. I. pag. 113. §. 10.
  18. Vedi loc. cit. pag. 213. segg.
  19. Antiq. etrusq. pl. 25.
  20. In reg. Herc. Mus. æn. Tab. et. Tab. ult.
  21. Vedi Tom. I. pag. 243., e l’indice dei rami al num. 27. del Tomo I.
  22. Il ch. sig. abate Gio. Battista Passeri ha pubblicato alcuni pochi vasi etruschi con greche iscrizioni nel Tomo iiI. Picturar. Etruscorum in Vatculis. Così dunque egli rende ragione del greco idioma unito al lavoro etrusco alla Tavola CCXXI. pag. 18.: Græca inscriptio minime obstat, quominus id, & similia vasa Etruscis adtribuantur; nam Campani, Tuscorum genus, græcis advenis adsueti eorum linguam vel admiserunt, vel in gratiam Græcorum eam inserere operibus, qua, concinnarent, coacti sunt; quod quidem serius invaluit, & potissimum cum Bacchanalia diu proscripta infelici postliminio revocata sunt. Il soggetto del vaso è: Adolescens Bacchicis initiatus. In altro vaso essendovi una voce greca scritta latinamente, così ragiona lo stesso autore alla Tav. CCXXXVII. pag. 29.: Negotium præcipuum hujus vasis facit inscriptio in imo adposita, græca quidem, sed litteris latinis expressa (ANDRIAS ), ex qua fcribendi forma vas istud illi stati adtribuimus, qua populi dominatoris mores universa jam obtinebant, vix relictis patriæ, linguæ, vestigiis, & formulis, præsertim in Sicilia. Più sotto illustrando un altro vaso con varie greche iscrizioni scorrette, ed oscure, dice Tav. CCLI. pag. 38.: Nam in monumentis etruscis nomina Deorum, & Heroum propria penitus omnia deturpata sunt populari tunc temporis dialecto. Lo stesso sistema adotto il sig. abate Giovanni Cristofano Amaduzzi nel suo ampliato Alfabeto Etrusco riprodotto tra i prolegomeni del detto Tomo iiI., ove al §. VII. pag. LXXXIX. così s’esprime: Adscita insuper ab Etruscis fuisse tum græca elemento, tum græca vocabula, patet ex nonnullis eorum monumentis, quæ græcis inscriptionibus donantur, quæque reperta sunt præsertim inter Campanos, qui olim Etruscis adnumerabantur, quique postea. græcis finitimi, qui eam Italiæ partem dein incoluerunt, quæ a Tarento ufque ad Cumas, vel ut Plinio (Hist. nat. lib. 3. c. 10. sect. 15.) placet, a Locris Italiæ fronte ad Tarentum usque protenditur, eorum litteras, & idioma facile arripuerant. Ecco, come opere etrusche possono avere greche iscrizioni. [Si legga ciò, che noi diremo qui appresso nella spiegazione delle Tavole in rame al numero 19. del Tomo I., e al numero iI. di questo Tomo.
  23. Alcuni vasi etruschi, che sono nella biblioteca Vaticana, potranno provenire dal regno di Napoli, ma la maggior parte sicuramente proviene dalla Toscana; giacchè un numero grande di questi, tutti trovati in Toscana, fu donato al card. Gualtieri seniore da monsig. Bargagli patrizio senese, vescovo di Chiusi, e zio materno del ch. monsig. Guarnacci; e poscia tutti questi passarono nella biblioteca Vaticana. [ Si veda qui avanti Tomo I. pag. 218. not. a.
  24. Questa nella Tavola in rame, che ne dà Caylus, è quale la riporta qui il nostro Autore. Che poi non sia esatta perfettamente, Winkelmann poteva meglio provarlo colla iscrizione del vaso dato da Mazochi, se l’avesse riportata quale si legge presso lo stesso; poichè è la medesima di quella del vaso di Caylus, essendovi scritte le stesse due parole, e ripetutevi più volte: di maniera che, se Opoas fosse il nome dell’artefice, esso potrebbe credersi il fabbricatore d’amendue i vasi. Un’altra riflessione si può fare per confermare il sentimento di Winkelmann, che il vaso dato da Caylus sia greco: facendo cioè un paragone della sua forma con quella di un altro vaso trovato, per quanto si dice, in Grecia, pubblicato in Napoli nel 1752. con una corta spiegazione latina dello stesso Mazochi. È nella forma similissimo a quello, ed ha intorno all’orlo per di fuori la iscrizione: ΚΙΛΟΣ ΚΩΝΕΙΟΥ ΠΕΡΙ ΣΟΚΡΑΤΗΝ, che si spiega: il succo della cicuta per Socrate; quasiche volesse dire: a Socrate è stata data a bere la cicuta: tu bevi pur lietamente con quello vaso, o bicchiere, che non vi è da temere di esser avvelenato: e ciò come per una di quelle tante acclamazioni, che solevano mettersi anche intorno ai bicchieri di vetro, delle quali può vedersi il Buonarroti Osserv. sopra alc. framm. ec. Tav. 15. pag. 100., Tav. 29. pag. 208. Essendo pertanto simili questi due vasi nella forma, colla quale sono simili tanti altri vasi dati da Caylus fra le antichità etrusche, può credersi che abbiano tutti servito ad uno stesso uso di bere, e che siano opera di una stessa nazione, benché forse di tempo diverso, argomentandolo dalla forma delle lettere di questo secondo vaso, che sono molto migliori, e di forma più moderna. La prima, parola dovrebbe essere scritta colla X, in vece del K: errore, che soleva commettersi nelle iscrizioni, come nota lo stesso Mazochi.

Note

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