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Da non picciola maraviglia dovrà esser presa buona parte degli uomini di lettere al vedere come la lingua francese, la quale si parla da tanti secoli in un paese ridotto sotto a un principe solo, sia stata sempre incerta e mutabile; e solamente da picciolo tempo in qua ricevuto abbia un qualche regolamento; dove la lingua italiana, la quale si parla in un paese diviso in tanti stati come è il nostro, è venuta su quasi dalla prima sua infanzia bella e formata, ha ricevuto regole di buon’ora e da quel tempo sino a’ giorni nostri si è mantenuta sempre la istessa. Se non che considerando attentamente la storia di esse lingue, e facendone in certo modo la genealogia, viene a scemare moltissimo, se non a svanire del tutto, la maraviglia.
Allora egli sembra che una lingua si abbia a chiamare ferma e compiuta, quando in essa sorgono scrittori tali, che sì nella prosa come nel verso vengano a dare espressione per ogni cosa e per ogni concetto. E ciò appunto è avvenuto in Italia; dove dal bel principio sorse un Dante con quel peregrino suo poema, nel quale imprese a descrivere fondo, siccome egli dice, a tutto l’universo. Oltre all’esser egli stato secondo i suoi tempi in ogni genere di dottrina versatissimo, sicché avea fatto in mente grandissimo tesoro di cose, e oltre all’aver sortito per vestirle di belle immagini una fantasia oltre ogni credere vivace e gagliarda, ebbe una discrezione somma nell’accattare e scegliere da tutte parti d’Italia i più accomodati modi da esprimerle. Onde meritamente di nostra lingua è chiamato padre e re; come quegli che non avendo predilezione più per una provincia che per un’altra, ne ridusse le varie favelle come in un corpo solo, e le particolari ricchezze di quelle volle rendere a tutta Italia comuni. E nel medesimo secolo apparirono dipoi, per non parlar del Villani, del Passavanti e di parecchi altri pulitissimi scrittori, il Boccaccio e il Petrarca, i quali col trattare argomenti più gentili e piani, al corpo di questa nostra lingua vennero a dare il suo compimento; quasi come Raffaello, che venne a perfezionar la pittura dando morbidezza e grazia alla grandiosità e alla fortezza di Michelagnolo. E però mediante la eccellenza di quei primi scrittori, e singolarmente di quei tre, Dante, Boccaccio e Petrarca, che sono quasi i triumviri del bel parlare, e lo studio che fu posto in essi, la lingua italiana di volgare e mutabile divenne ben presto grammaticale e perpetua.
All’incontro la lingua francese, assai più antica della nostra, sino al regno di Francesco Primo andò vagando senza regole, senza precetti, senza autori di conto; né quasi ebbe altr’anima, dirò così, salvo che la necessità in cui sono tutti gli uomini di dover comunicare co’ segni delle parole i propri concetti tra loro. Francesco Primo, chiamato in Francia padre delle lettere, fece molti provvedimenti perché le maniere si formassero dei Francesi, e con esse la lingua. In sullo esempio de’ principi italiani, ch’erano a quei tempi specchio di pulitezza, prese a favorire gli scienziati, i poeti e gli artisti di ogni maniera, chiamò i prelati e le principali donne del regno ad abbellire la corte, avvisando che il consorzio di esse raddolcir dovesse la favella e le maniere di una nazione data tutta al mestiero dell’armi; e come principe savio non meno che amator delle lettere, statuì che i pubblici atti nella giurisprudenza, i quali sino a quel tempo s’erano distesi in latino, distendere si dovessero d’allora innanzi in francese. E così la lingua ricevendo aumento, salisse in maggior pregio, e fosse innanzi agli occhi del popolo di maggior dignità. Non andarono del tutto vani i disegni di quel culto e magnanimo re. Ingentilì di molto al tempo suo la nazione, ne fu coltivata la favella, e vi fiorirono tali scrittori, che per certa ingenuità e grazia di dire tengono tuttavia il campo, essendo anche al dì d’oggi nel genere loro riputati maestri.
E già la lingua era in via di giugnere alla perfezion sua, quando i molti Italiani che Caterina de’ Medici, nuora di Francesco Primo, ebbe di seguito in Francia, ne ritardarono alquanto i progressi. Caduta al tempo della reggenza di quella signora gran parte dell’autorità regia nelle loro mani, era pur naturale ch’essi desser l’orme alla corte, e avesse la voga tutto quello che ad essi apparteneva o da essi in qualche modo veniva. Se adunque non poterono introdurre la loro lingua in Francia, furono però da tanto, che della loro si venisse a tingere la francese.
Tal frase forestiera uscita di bocca a un ministro fu ripetuta dai cortigiani per gentilezza e divenne poco stante di moda. Lo stesso succedette di un’altra, e così via discorrendo. In somma la lingua francese si venne per tal modo a sformare. E fu in picciol tempo talmente pezzata e sparsa d’italicismi, che il famoso Arrigo Stefano non si poté tenere di non levarsi contro a quel morbo epidemico che, passate le Alpi, s’era diffuso nella patria sua; e credette debito di buon Francese l’opporsi egli solo con la penna a tutta la Toscana, e a un tanto e così universale disordine. Benché, come era pur naturale, egli venne d’indi a non molto a finir da se stesso insieme con l’autorità e signoria de’ forestieri, che aver non potea lunga vita.
Nel medesimo tempo apparì Ronsardo, riputato allora il principe de’ poeti, a cui furono in vita decretati quegli onori de’ quali godé Omero dopo morte. Costui cercò non solo di richiamar la lingua verso i princìpi suoi, depurandola da quello che vi s’era intruso di forestiero e che gli eruditi chiamavano barbarie; ma, considerando il basso stato in cui ella era, cercò ancora di accrescerla e d’innalzarla al grado de’ più dotti linguaggi e più cari alle Muse. V’introdusse le trasposizioni, le parole composte, delle maniere in tutto nuove; si studiò di far sì che negli ardiri, nella energia, nella copia e in ciascun altro pregio si potesse agguagliare alla stessa greca; e nella lingua francese così da esso raffazzonata si mise a comporre dei saggi sull’andare di Pindaro, di Callimaco, di Teocrito, di Omero. Dove Ronsardo avrebbe forse ottenuto assai più, se avesse tentato meno; e parve accadesse a lui come a coloro che, volendo in un subito cangiare un governo a cui un popolo sia da lungo tempo avvezzo, non altro sogliono fare che maggiormente confermarlo. Infatti mentre i dotti mettevano in cielo il poeta e le poetiche sue valentie, si nauseò il popolo al sentire tutto a un tratto non solo costruzioni inaudite sino allora, ma parole del tutto strane e pedantesche; quelle per atto di esempio ond’è composto quel suo noto verso:
- Ocymore, dysptome, oligocronien,
e parecchie altre, che andò incastrando, quasi peregrini gioielli, nel suo nativo linguaggio. E per verità coll’introdurvi que’ suoi tanti grecismi, se di tanto però fosse stata l’autorità sua, egli avrebbe reso la lingua francese un corpo niente meno eterogeneo e deforme, che si facessero i cortigiani di Caterina de’ Medici con que’ loro italicismi.1
Nei regni dipoi di Arrigo III e di Arrigo IV, che succedettero a Carlo IX, a tempo del quale fiorì principalmente Ronsardo, la Francia per le guerre civili che continuamente l’afflissero, ebbe piuttosto dei capi di fazioni nelle armi, che dei capiscuola nelle lettere; se si eccettua Malherbe, scrittore di moltissima esattezza e di poca fantasia. Diedesi costui a regolare principalmente la versificazione, sicché i versi non si accavallassero insieme, ciascuno di essi contenesse un intiero membretto del sentimento e tutti procedessero in certo modo paralleli tra loro, introducendo nello stile poetico quella simmetria che ne’ tempi appresso introdusse il Le Nautre nell’arte del piantare i giardini, che dovrebbero essi ancora, non meno che la poesia, secondare ed esprimere i più belli effetti della natura.2
Finalmente quiete le cose nel regno sotto Luigi XIII, il cardinale di Richelieu, che tanto avea operato per la gloria della monarchia francese, deliberò di fare altrettanto per la lingua; e fondò in Parigi un’Accademia a imitazione di quella che fondata si era in Fiorenza sotto il titolo di Accademia della Crusca, la quale di tutto ciò che si appartiene al bel parlare e al correttamente scrivere dovesse aver cura e governo.
Ma se la instituzione e il fine delle due Accademie furono gli stessi, diverse pur troppo furono le circostanze e i tempi in cui ebbero il principio. La nostra venne in tempo che per il corso di due secoli e più era stata da’ più rinomati scrittori stabilita e regolata la lingua. Oltre Dante, il Petrarca e il Boccaccio, che ne sono chiamati i tre lumi, e oltre a quelli che nel medesimo secolo seguirono le tracce loro, non mancò la età susseguente di autori di conto, come il Poliziano, che nelle sue Stanze si accostò con lo splendor della espressione a Virgilio, ed il Pulci, che per la evidenza dello stile gareggiò nel suo Morgante con Omero. Quanti degni scrittori non videro dipoi gli aurei tempi di Leone? Il Castiglione, che quanto al linguaggio volle nella prosa far quello che Dante avea fatto nella poesia, scrivendo in una quasi comune favella d’Italia, il Guicciardini autore gravissimo ed ampio, il Segretario fiorentino conciso, pieno di nervi e di cose, il Bernio tutto sapore e festività, che da tanti è stato imitato ed è tuttavia inimitabile. E per passare sotto silenzio di altri molti, il Bembo aveva a quel tempo, con la sua diligenza e con grandissimo studio posto sopra gli autori più classici, dato le regole della nostra lingua, e l’avea ridotta a sistema. L’Accademia dunque della Crusca non altro ebbe a fare, che da tutti gli autori che per così lungo tempo e trattando così diverse materie, formata aveano, accresciuta e nobilitata la lingua italiana, raccoglier voci e modi di dire, e nel suo Vocabolario mettere ogni cosa a registro. Talmente che i Medici vennero a creare un corpo di tesorieri, in tempo che di tesori non era punto voto l’erario.
Il Richelieu, per lo contrario, fondò l’Accademia francese in tempo che di buoni autori scarseggiava pur troppo la Francia. Ronsardo, che tanto avea fatto per la lingua e alla cui tomba sarebbono un giorno iti in pellegrinaggio, secondo che dicevasi, i devoti delle Muse per ottenerne il dono della poesia, era dimenticato nella medesima sua tomba coperta soltanto dai secchi fiori che vi aveano a piene mani gittato i suoi contemporanei. Gli scrittori che avessero allora un qualche grido erano Marot, il cui stile grazioso si rimaneva quasi un segno della protezione accordata da Francesco Primo alle lettere, Montagna, forse egualmente licenzioso nello scrivere che libero nel pensare, dominato in ogni cosa dalla calda sua immaginativa, Malherbe, regolatore della poesia, e Balzac, vivente a quei giorni, che avea preso a regolare la prosa francese; orator gonfio e pieno di vento, come Malherbe era poeta secco e vuoto di sugo. Quell’autore, da cui ha principio l’epoca letteraria della Francia, il gran Cornelio, non era ancor giunto al colmo della celebrità sua; incominciava solamente a quel tempo a far figura trasportando nel teatro francese le ingegnose invenzioni dello spagnuolo. Non era ancora venuto in scena Racine, che arricchì quel teatro delle spoglie dei Greci, scrittore elegante e purissimo, a cui erano così note ed agevoli le vie del cuore, non La Fontaine, che con tal naturale finezza seppe seppe nelle sue favole far parlare gli animali, non Pascal uomo eloquentissimo, i cui scritti da un secolo in qua non hanno invecchiato neppure di una parola, non Despréaux chiamato il poeta della ragione, che la bile di Giovenale seppe talvolta correggere col grazioso stile di Orazio, non Molière, le cui opere immortali sono condite di un sale assai meglio preparato che non è il plautino, che in ogni cosa che prese a trattare toccò il fondo e fu tra’ Francesi nelle cose d’ingegno del medesimo calibro, che nelle militari il Turenna; non tutti quegli altri scrittori che al tempo di Luigi XIV distesero ancor più con l’ingegno la gloria del nome francese, ch’egli non fece per avventura con l’armi.
Tale essendo allora lo stato delle lettere in Francia, non poté quell’Accademia, come fece la nostra della Crusca, cogliere il più bel fiore degli scrittori che non aveano fiorito per ancora; ma pensò di mondare, purificare e venir formando la lingua a benefizio degli scrittori che doveano venire dipoi. Adunque ella si mise a purgarla di moltissime voci e maniere di dire, o come troppo ardite, o come rancide, o come malgraziose o di tristo suono. Di moltissimi diminutivi e superlativi la spogliò, 3 di parecchi addiettivi che esprimevano la qualità delle cose, di alcuni relativi che non poco facevano alla chiarezza. La volle meno contorta, nella locuzione più piana ed agevole che non era dianzi, di un andamento sempre eguale, talmente che nel periodo la collocazione delle varie particelle della orazione fosse sempre la istessa, e la venne assoggettando alle regole più severe ed inesorabili della sintassi; e fu chi disse che l’Accademia dando a’ Francesi la grammatica, avea loro levato la poesia e la rettorica.
Moltissimi romori hanno fatto sempre levare le Accademie di lingua in quelle nazioni tra le quali furono erette. E ciò è pur facile che avvenga; essendo di loro natura il mettere un tal qual freno agli scrittori di una repubblica che per ogni conto si crede libera. Di qui è forse nato che tra gl’Inglesi non fu mai colorito il disegno che di fondarvi un’Accademia della Crusca fu proposto a’ tempi di Carlo II dallo Sprat e poi dal celebre Swift a’ tempi sella regina Anna. Credette quella nazione dovere anche in questo seguir l’esempio dei Romani e dei Greci, le cui lingue tanto fiorirono e montarono a tanta altezza, forse anche perché ad esse non furono tarpate le ali dagli statuti delle Accademie. Ad alcuni de’ nostri sembrò medesimamente che un qualche torto venisse fatto alla nostra favella col Vocabolario singolarmente della Crusca; quasi che con esso siasi voluto fermare il corso di una lingua vivente, e segnandone i limiti, siasi anche preteso assegnarne per sempre i confini. Ma tale non è da credere sia stata la intenzione degli Accademici. Non avvisarono essi forse mai che il contare le nostre ricchezze fosse uno sminuirle o impedire altrui il modo di accrescerle. Pensarono piuttosto che, quantunque l’uso governi a suo talento le lingue, faccia invecchiare tal voce e la metta fuori dal consorzio, a tale altra dia vita e fiore di gioventù, pur è ben fatto che ci sia una generale conserva della lingua; e pensarono che nelle dubbietà ed incertezze grammaticali l’autorità degli scrittori veramente classici dovesse esser quello che nella milizia è la insegna a cui ricorrono i soldati, se per qualche accidente sieno posti in disordine.
Quanto all’Accademia di Francia, furono per avventura più fondati i romori che contro ad essa si levarono. Ciò che regolò la lingua francese fu non tanto l’uso, a cui non si badò gran fatto, né tampoco l’autorità degli classici scrittori, a cui ricorrere non poteano, quanto il gusto di coloro che sedeano a quel tempo nel tribunale dell’Accademia. Insieme col Vaugelas, che ebbe la cura del Dizionario e della Grammatica, erano di grande autorità i Capellani, i Faret, i Desmarets, i Colletet, i Saint-Aman, i Baudoin, i Godeau; autori la più parte sepolti nella obblivione o noti soltanto perché condannati ad essere mai sempre ridicoli dal Satirico francese. Troppo avea dello strano che uomini tali esser dovessero i legislatori del bel parlare. Fu posto tra le altre a sindacato quel loro decreto intorno all’uniformità della costruzione, per cui il nominativo deve sempre aprir la marcia del periodo tenendo il suo addiettivo per mano; séguita il verbo col fido suo avverbio, e la marcia è sempre chiusa dall’accusativo, che per cosa del mondo non cederebbe il suo posto. Dicevano che il costringer la lingua a camminar sempre di un modo, come fanno le camerate de’ seminaristi i più picciolini innanzi e dietro i più grandicelli di mano in mano col prefetto in coda, che il privarla di ogni trasposizione è un renderla fredda e stucchevole, è un privarla del miglior mezzo di allontanare le espressioni le più semplici dal comune parlare, è un tagliarle la via di sostenersi sicché non dia nel basso. Infatti quel verso di Orazio, ponendo un esempio,
- Quo teneam vultus mutantem Protea nodo?
non sarebbe egli cosa triviale, e non darebbe in terra, se il poeta fosse stato da una più rigorosa grammatica costretto di dire
- Quo nodo teneam mutantem Protea vultus?
E lo stesso sarebbe di quell’altro nostro
- In campo nero uno armellino ha bianco,
che saria bassissimo, se al grazioso autore fosse convenuto dire
- In campo nero ha un armellino bianco.
Tanto può la giacitura delle parole, levata la quale si viene il più delle volte a levare al discorso armonia, grazia, sospensione e dignità. Così dicevasi contro alle nuove regole dell’Accademia.4 Dicevasi ancora che troppo con esse si veniva a cavillare, che troppo scrupolose erano le correzioni, troppo ingiuste le censure contro a’ que’ modi di dire che tanto o quanto avessero dell’irregolare;5 buona parte delle figure grammaticali non altro essendo in sostanza che altrettanti errori di lingua, ma errori commessi da coloro che le indole conoscono e il particolare idioma delle passioni, e sanno che la grande arte dello scrivere è il bene imitar la natura. Aggiugnevano che quanto Ronsardo avea cercato di rendere la lingua nerboruta, animosa e varia, altrettanto l’Accademia l’avea resa effettivamente timida, uniforme e floscia; che volendo preparare i materiali alla eloquenza francese, s’erano levate alla locuzione più maniere di grazie e tante maniere di dire alla comun massa della lingua, che le volpi di Sansone, secondo la espression del La Mothe, non menarono tanta strage nelle biade de’ Filistei, quanto aveano fatto nella messe della lingua le regolazioni degli Accademici.6 E senza parlare della pasquinata, o vogliam dire della aristofanica commedia che scrisse contro di loro S. Évremont 7, egli non è dubbio che di gentilmente staffilargli non intendesse Molière, quando l’aprimento dell’Accademia delle sue donne saccenti si ha da solennizzare con quelle ridicole proscrizioni di nomi e di verbi che l’una donna lascia in balìa dell’altra, e de’ quali intendono purgare così la prosa come la poesia.8
Ma non solo ne’ primi tempi, quando ogni novità trova dei contrari, si udirono dei clamori contro alla riforma; ma si seguitò ancora ad udirgli nei tempi appresso, e s’odono ancora tuttavia. Oltre a Molière, il quale benché comico di professione, non era solito riprendere se non quello che andava veramente ripreso, Racine confessa che la grazia del sermon prisco, non era da esser uguagliata dal parlar de’ moderni.9 Madama Dacier d’un sentimento e di un cuore col dotto suo marito, ebbe a richiamarsi delle strettezze a che fu ridotta la propria lingua, dicendo espressamente che se non manca de’ più grossi colori, è poi mancante delle tinte più dilicate; che sarà per avventura bastante a render felicemente due, quattro, e sei versi d’Omero, come ha fatto maneggiata da un Despréaux o da un Racine, ma che non regge a lungo andare e si accoscia impar congressus Achillei <ref>"Jamais langue n’a eté si sage, ni si retenue, ou plutôt si gênée et si esclave, que la nôtre". dacier, dans la note au vers Quid autem Caecilio etc., de l’Art Poétique d’Horace.
"Que doit-on attendre d’une traduction dans une langue comme la nôtre, toujours sage, ou plutôt toujours timide, et dans la quelle il n’y a presque point d’heureuse hardiesse, parce que toujours prisonnière dans ses usages elle n’a pas la moindre liberté". Dans la Préface à l’Iliade, p. 37, édit. de Amsterdam, 1731.
"Mais cette composition meléè [qui tient de l'austère et du fleuri] source de ces grâces, est inconnue à notre langue: elle n’admet point toutes ces différences; elle ne sait que faire d’un mot bas, dur, désagréable; elle n’a rien dans ses trésors, qu’elle puisse employer pour cacher qui est défectueux; elle n’a ni ces particules nombreuses, dont elle puisse soutenir ces termes, ni cette différent harmonie qui nait du différent arrangement des mots, et par conséquent elle est incapable de rendre la plupart des beautez qui éclatent dans cette poësie." Ibid., p. 42.
"Notre poësie n’est pas capable de rendre tuotes les beautez d’Homère et d’atteindre à son élévation; elle pourra le suivre en quelques endroits choisis: elle attrapera heureusement deux vers, quatre vers, six vers, comme M. Despréaux l’a fait dans son Longin, et M. Racine dans quelques-unes de ses tragédies: mais à la longue le tissu sera si foible, qu’il n’y aura rien de plus languissant". Ibid., p. 42.</ref>. Le medesime cose a un dipresso, per tacere di parecchi altri, ebbe a ripetere Monsieur Boyer, quando fece la prova di recare in prosa francese i nerboruti versi dell’Addisono, ne’ quali egli ha rappresentato la nobil fine di Catone.10 Del basso stato in cui fu volta la loro lingua si lagnano l’elegante Sanadono, 11 quel giudizioso compilatore degli antichi, Carlo Rollino, 12 e quel tanto celebre filosofo tra’ moderni, Pietro Bayle 13. L’abate Du Bos, secretario dell’Accademia della Crusca parigina e uno dei più sani ingegni che vanti la Francia, si burla a ragione del buono uomo di Pasquier, il quale si dava ad intendere che non essere nulla meno dello idioma latino capace il francese di bei tratti poetici; ed egli mostra in contrario come per la presente meccanica sua constituzione esso non è né musicale né pittoresco, che tanto è a dire ritroso, se non ribelle alla poesia 14. E in questi ultimi tempi quell’ingegno sovrano del Voltaire, che lascia altrui in dubbio se meglio scriva in prosa o in versi, e che in ogni genere di stile fa tanto onore alla lingua francese, la qualifica di una lingua mancante di precisione, di ricchezza e di forza15.
In effetto così ha da parere anche a coloro che non maneggiano quella lingua, e non ne possono per prova conoscere il forte e il debole, tanto è aperta a vedersi la cosa. Chiunque ha qualche pratica degli scrittori francesi si sarà molto facilmente accorto come negli scritti che sono anteriori alla riforma dell’Accademia, la lingua francese non era gran fatto, per quello che risguarda la costruzione, i modi dello esprimersi e quasi direi l’andamento ed il genio, dissimile dalla nostra. E di ciò ci sono altre ragioni diverse dal passaggiero dominio che sotto alla reggenza di Caterina de’ Medici ebbero i nostri uomini in Francia. Siccome gli antichi Italiani studiato aveano i Provenzali, maestri a quel tempo di ogni gentilezza, e così di maniere provenzali fu arricchita la nostra lingua, allo istesso modo i Francesi del tempo di Francesco Primo e de’ tempi dipoi studiarono i nostri autori, da essi appresero più maniere di cose, quelli voltarono nella loro lingua. Ed essa venne a poco a poco bevendo i colori della nostra, e ne prese talmente le sembianze, che i libri di quel tempo si potriano voltare, senza offensione de’ nostri orecchi, quasi parola per parola in italiano. La lingua francese di allora era tale, che quantunque Montagna si dolga che non la trovava abbastanza maneggievole, né atta a rispondere a una forte immaginativa16, avea certamente più varietà, più vivezza e più schiena che non ha presentemente.
Sembra ch’ella fosse a quei tempi più convenevole al genio e all’indole della nazione che in essa parlava. Né già niuno potrà maravigliarsi abbastanza come una lingua così regolata, così ristretta, così timida, quale ella è ridotta presentemente, sia nelle bocche di una nazione così viva, pronta e animosa, quale è la francese. Sarà questo per avventura uno de’ più illustri esempi della forza che ha la legislazione di vincer la natura. Malgrado la indole della nazione, malgrado le doglianze de’ più celebri scrittori, tenne fermo l’Accademia quasi una letteraria cittadella posta sopra l’ingegno e la fantasia della nazione e piantata nel Louvre. Fondata dal re in tempo che dal cardinale di Richelieu erasi fatto man bassa sulle libertà dei Francesi, tenne anch’essa della condizione del governo, e trovò quelli più docili al giogo. Tutte quelle espressioni che aveano del robusto e dell’animoso, parvero troppo ardite in un paese già vinto dalla monarchia e ammollito dalle arti cortigianesche e dalla servitù. Montagna fu segnatamente proscritto dall’Accademia, come autore troppo libertino nella lingua e sedizioso; quegli senza di cui ella non avrebbe fatto che acqua da occhi, a detto di non so chi17. Divennero sempre più rigorose le regole della grammatica secondo che più assoluto si fece il governo. E l’Accademia, con esse alla mano, forma anche a’ dì nostri il processo a’ più chiari scrittori del secolo di Luigi XIV, rimettendo su la scuola di quegli antichi maestri i quali tassavano Cicerone non aver saputo il latino.
Un Inglese ebbe a dire, in proposito delle regole troppo severe della poetica francese, che le Muse della Senna simili ad augelli a’ quali sieno state tagliate l’ali, possono bensì andare svolazzando qua e là, ma non han forza di levarsi in alto e di prendere un nobil volo18. Con assai più di ragione parmi che si possa dire, in proposito delle regole troppo severe della loro grammatica e degli strettissimi confini che sono stati posti alla lingua, che gl’ingegni francesi sono simili a quegli eccellenti capitani che non possono fare la guerra a dovere e come portano le ragioni della scienza militare, perché troppo imbrogliati dalle restrizioni del Gabinetto. Troppo picciolo infatti è il campo che è loro rimaso; ed essi sono tuttora ridotti piuttosto che a fare un bel colpo, a cercar di sortire con onore di un qualche mal passo e di una qualche difficoltà19.
Tale amara doglianza uscì dalla penna del celebre Fenelono, il quale dietro alle nobili tracce dell’Odissea prese a dipingere le avventure del figliolo di Ulisse. Non solo si accorse quel grande ingegno dei difetti della propria lingua, come nel maneggiarla aveano fatto tanti altri; ma cercò ancora di adempiergli nel miglior modo che fosse possibile e trovar loro largamente compenso. Con una ragionatissima sua scrittura si fece egli innanzi all’Accademia di Francia. In essa espone la mala condizione, la povertà di una favella, che è parlata, dic’egli, da una nazione sortita appena dalla barbarie. Mostra come volendola migliorare s’era peggiorata, come i rimedi che sino allora erano stati messi in opera, non altro aveano fatto che accrescere il male; eccessiva di troppo essere stata la stitichezza di coloro che seduto aveano i primi in quel tribunale tanto agli scrittori nemico; esser ben giusto che della passata severità si rimettesse alquanto, conosciuto il disordine che ne era venuto; doversi al contrario usare di quella libertà di cui avea abusato Ronsardo; da ogni parte doversi accattare e trascegliere voci, espressioni, e maniere; farne, secondo il bisogno, provvisione e massa; talmente che si venisse a rimpastare e a riconiare, per dir così, la lingua francese; ed ella potesse, e per l’armonia, e per la ricchezza de’ vocaboli, e per la composizion delle parole, e per certa franchezza, varietà e venustà nei modi del dire aver corso con le antiche e con le più belle tra le moderne. Né sarebbe da temere, egli aggiunge, non a felice fine avesse da riuscir la cosa, quando la scelta delle nuove voci e delle espressioni che mancano, fosse fatta in modo che venissero non a sformare, ma a nutrire e ad abbellire la lingua. Se le più colte persone incominciassero ad usarle sobriamente, gli altri le ripeterebbono per vaghezza di novità; ed eccole alla moda: in quella guisa che un nuovo sentiero che si apra in un campo, diviene in picciol tempo la strada battuta esso, quando al vecchia strada si trovi più malagevole e più lunga20.
Se una tale sensatissima riforma potesse aver luogo o no in un linguaggio già fatto e a cui tanti libri hanno come posto il suggello, è assai malagevole cosa il decidere, quantunque l’autorità d’un uomo quale è il Fenelono, debba far credere che sì. Ma questo ben si può dire francamente, che ogni buon francese avria dovuto desiderare che avesse luogo. Un più bel campo si sarebbe aperto a’ loro scrittori, non più avrebbono dovuto stillarsi il cervello per la ristrettezza delle parole, e la loro lingua non avrebbe ceduto per la abbondanza e maneggevolezza alla italiana, non per la maestà alla spagnuola, né alla inglese per la energia. Più armoniosa e più varia, capace di atteggiarsi a seconda dei movimenti dell’animo, musicale e pittoresca, sarebbe meno sorda a rispondere all’ingegno de’ Francesi, e suonerebbe più grata all’orecchio de’ forestieri.
Note
- ↑ "Ronsard avoit trop entrepris tout-à-coup. Il avoit forcé notre langue par des inversions trop hardies et obscures. C’étoit un langage cru et informe. Il y ajoûtoit trop de mots composez, qui n’étoient point ancore introduits dans le commerce de la nation. Il parloit françois en grec, malgré les François mêmes: Il n’avoit pas tort, ce me semble, de tenter quelque nouvelle route pour enrichir notre langue, pour enhardir notre poësie et pour dénoüer notre versification naissante. Mais en fait de langue, on ne vient à bout de rien sans l’aveu des hommes, pour lesquels on parle. On ne doit jamais faire deux pas à la fois, et il faut s’arrêter dès qu’on se ne voit pas suivi de la moltitude. La singularité est dangereuse en tout. Elle ne peut être excuseé dans les choses qui ne dépendent que de l’usage". Fénelon, Lettre à l’Académie Françoise, art. V.
- ↑ "Malherbe a toujours passé pour le plus excellent de nos pöetes: mais plus par le tour et par l’expression, que par l’invention, et par les pensées". St.Évremont, t. V, Jugement sur quelques auteurs françois. "Malherbe est inimitable dans le nombre et dans la cadence de ses vers; mais comme Malherbe avait plus d’oreille que de génie, la plûpart des strophes de ses ouvrages ne sont recommendables que par la mécanique et par arrangement harmonieux des mots pour lequel il avoit un talent merveilleux. On n’exigeoit pas même alors que le pöesies ne fussent composées, pour ainsi dire, que de beautés contigües. Quelques endroits brillants suffisoient pour faire admirer toute une pièce. On excusoit la foiblesse des autres vers, qu’on regardoit soulement comme étant faits pour servir de liaison aux premiers, et l’on appelloit, ainsi que nous l’apprenons des Mémoires de l’abbé de Marolles, des vers de passages". Du Bos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, seconde partie, sect. XIII.
- ↑ "Un gentilissimo e pulitissimo scrittore esalta la moderna lingua francese, perché non ammette i diminutivi; biasima l’antica, perché gli costumava, non loda l’italiana, perché ne ha dovizia. Io per me sarei di contrario avviso, e crederei che i diminutivi fossero da noverarsi tra le ricchezze delle lingue, e particolarmente se con finezza di giudizio, e a luogo e tempo sieno posti in uso. La lingua italiana si serve non solamente de’ diminutivi; ma usa altresì i diminutivi de’ diminutivi, e fino in terza e quarta generazione". Redi, annotazione alla voce di Brillantuzzo nel Bacco in Toscana.
- ↑ "L’excès choquant de Ronsard nous a un peu jettez dans l’extrémité opposée. On a appauvri, desséché et gêné notre langue. Elle n’ose jamais procéder, que suivant la méthode la plus scupuleuse et la plus uniform de la grammaire. On voit toujours venir d’abord un nominatif substantif, qui mène son adjectif comme par la main. Son verbe ne manque pas de marcher derrière, suivi d’un adverbe, qui ne souffre rien entre deux, et le régime appelle aussi-tôt un accusatif, qui ne peut jamais se déplacer. C’est ce qui exclut toute suspension de l’esprit, toute attente, toute surprise, toute variété et souvent toute magnifique cadence". Fénelon, Lettre à l’Acad. Franç., art. V.
- ↑ "Notre langue manque d’un grand nombre de mots et de phrases. Il me semble même, qu’on l’a gênée et appauvrie depuis environ cent ans en voulant la purifier . . . On a retranché, si je ne me trompe, plus de mots qu’on n’en a introduit.". Fénelon, Lettre à l’Acad. Franç, art. III.
- ↑ "On dit indifféremment: Je le vous dirai et Je vous le dirai. Toutes les langues ont cette variété de locution pour ornament, et c’est une pure fantaisie de le vouloir oster à la nostre". Lettre LVIII. "Mais encore n’éstoit-il pas juste de laisser établir sans dire mot de certaines maximes qui vont à la destruction de notre langage. Vous avez veû le nombre prodigieux de dictions et de phrases, qu’il veut abolir. Jamais le renards de Sanson ne mirent tant de désolation dans la moisson de Philistines, que ce remarques sont capables d’en causer parmi tout ce que nous avons d’oeuvres d’éloquence. Et à laisser aller les choses de la sorte, nous tomberions bien tôt dans la disgrace dont Sénèque s’est plaint, où il commence une de ses Épitres de la sorte: ’Quanta verborum nobis paupertas immo egestas sit, numquam magis quam hodierno die intellexi’, Ep. 59. Quintilien a fait depuis la même complainte en ces termes: ’Iniqui iudices adversus nos sumus, ideoque paupertate sermonis laboramus’, L. 8, Inst., c. 3". Lettre LIX.
- ↑ Les Académiciens, t. I delle sue opere; il titolo era da prima Comédie des Académistes pour la réformation de la langue françoise. Vedi Vita di S. Évremont, scritta da M. Des Maiseaux, sotto l’anno 1643. In essa gl’interlocutori sono M. Le Chancelier Seguier, Godeau, Évêque de Grasse, Des Marets, Chapelain, Colletet etc.
- ↑ Pour la langue on verra dans peu nos règlemens,
et nous y prétendons faire des remuemens.
Par une antipathie ou juste, ou naturelle,
nous avons pris chacune une haine mortelle
pour un nombre de mots, soit ou verbes, ou noms,
que mutuellement nous nous abandonnons.
Contr’eux nous préparons de mortelles sentences,
et nous devons ouvrir nos doctes conférences
par les proscriptions de tous ces mots divers,
dont nous voulons purger et la prose et le vers.
Femmes sçavants, act III, scen. II. - ↑ "Le lecteur trouvera bon que je raporte ses paroles [de Plutarque] telles qu’Amiot les a traduites; car elles ont une grâce dans le vieux stile de ce traducteur, que je ne crois point pouvoir égaler dans notre langue moderne". Dans la Préface de Mithridate.
- ↑ "La langue angloise, rivale de la grecque et de la latine est également fertile et énergique. Elle est de plus, ennemie de toute contrainte (de même que la nation qui la parle), elle se permet tout ce qui peut contribuer à la beauté et à la noblesse de l’expression; au-lieu que la françoise énervée et appauvrie par le rafinement toujours timide et toujours esclave des règles et des usages, ne se donne presque jamais la moindre liberté, et n’admet point d’heureuses téméritez. Ainsi plus un original anglois est parfait dans le grand et dans le sublime, plus il est rempli d’images vives et de métaphores hardies, et plus il perd en françois, ou les figures un peu fortes et les saillies de l’imagination sont regardées comme des défauts, pour ne pas dire des extravagances.". Dans la Préface qui est au devant de sa traduction de Caton.
- ↑ "On trouve dans nos écrivains des siècles précédens quantité de termes et de manières de parler tantôt nobles, tantôt concises, souvent naïves et élégantes, qui nous ont échapé, et qui n’ont point été remplacées". Nella nota Obscurata diu etc. della Epist. II del Lib. II di Orazio.
- ↑ "Je ne le lis jamais [Amiot] sans regretter la perte d’une infinité de bon mots de ce vieux langage, presque aussi énergiques que ceux de Plutarque. Nous laissons notre langue s’appauvrir tous les jours, au lieu de songer, à l’example des Anglois nos voisins, à découvrir des moyens de l’enrichir. On dit que nos dames, par trop de délicatesse, sont cause en partie de cette disette, où notre langue court risque d’être réduite. Elles auroient grand tort, et devroient bein plutôt favoriser par leurs suffrages, qui en entraînent beaucoup d’autres, la sage hardiesse d’écrivains d’un certain rang et d’un certaine mérite: Comme ceux-ci de leur côté devroient aussi devenir plus hardis, et hazarder plus de nouveaux mots qu’ils ne font, mais toujours avec une retenue et une discrétion judicieuse". T. III de l’Histoire ancienne des historiens grecs, Plutarque. Vedi ancora t. XI de l’Histoire ancienne des philologues, Pline l’ancien, dans une note.
- ↑ "Il seroit à souhaiter que les auteurs les plus illustres de ce tems-là se fussent vigoureusement opposez à la proscription de plusieurs mots qui n’ont rien de rude et qui serviroient à varier l’expression, à éviter les consonances, les vers et les équivoques. La fausse délicatesse à quoi on lâcha trop la bride, a fort appauvri la langue. Les meilleurs écrivains s’en plaignent, je dis les auteurs, qui sont le moins incommodez de cette indigence, et qui trouvent dans le fond fertile de leur génie de quoi la réparer" etc. Dictionaire, art. Gournai, Rem. (H).
- ↑ Vedi Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, première partie, section XXXV.
- ↑ "Une langue à peine tirée de la barbarie, et qui polie par tant de grands auteurs, manque encore pourtant de précision, de force et d’abondance". Ep. à Madame la Duchesse du Maine au devant d’Oreste, éd. de Dresde 1752.
- ↑ "Je le trouve [le language françois] suffisamment abondant, mais non pas maniant et vigoureux suffisamment: il succombe souvent à une puissante conception" etc. Essays, Liv. III, chap. V.
- ↑ "Sans les Essays de Montaigne l’Académie ne fera que de l’eau claire".
- ↑ Vedi Préface sur les Tragédies-Opéras par Mylord Lansdown, [in] Idée de la poésie angloise, par M. l’abbé Yart, t. VII.
- ↑ "La sévérité de notre langue contre presque toutes les inversions des phrases augmente encore infiniment la difficulté de faire des vers françois. On s’est mis à pur perte dans une espèce de torture pour faire un ouvrage. Nous serions tentez de croire, qu’on a cherché le difficile, plutôt que le beau. Chez nous un poëte a tant besoin de penser à l’arrangement d’une syllabe, qu’aux plus grandis sentiments, qu’au plus vives peintures, qu’au traits les plus hardis. Au contraire les anciens facilitoient par des inversions fréquentes les belles cadences, la variété et les expressions passionnées. Les inversions se tournoient en grande figure, et tenoient l’esprit suspendu dans l’attente du merveilleux". Lettre à l’Acad. Franç, art. V.
- ↑ "Mais il faut se ressouvenir, que nous sortons à peine d’une barbarie aussi ancienne que notre nation.
. . . sed in longum tamen aevum
manserunt, hodieque manent vestigia ruris.
Serus enim Graecis admovit acumina chartis etc.
Horat., Ep. I, Lib. II.Il nous faudroit, outre les mots simples et nouveaux des composez et des phrases, où l’art de joindre les termes qu’on n’a pas coûtume de mettre ensemble, fit une nouveauté gracieuse.
Dixeris egregie, notum si callida verbum
reddiderit iunctura novum . . .
Horat., Art. poet.
. . . Prenons de tout côtez ce qu’il nous faut, pour rendre notre langue plus claire plus précise, plus courte et plus harmonieuse." etc. Fénelon, Lettre à l’Acad. Franç, art. III.