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XLIII. L’alta speranza, che li mia martiri
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XLIII.


L’alta speranza, che li mia martiri
     Soleva mitigare alcuna volta,
     In noiosa fortuna ora rivolta,
     De’ dolci mia pensier fact’à sospiri.
     Et gli amorosi et caldi mia desiri,5
     Lacrime divenuti, la raccolta
     Rabbia per gli occhi fuor dal cor disciolta1
     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .
O s’io potesse creder di vedere
     Canuta et crespa et pallida colei,10
     Che con [suo] sdegno nuovo2 n’è cagione!
     Ch’anchor la vita mia di ritenere,
     Che fugge, a più poter m’ingegnerei,
     Per rider la cambiata condictione3.

  1. Il v. seguente manca nei testi a penna.
  2. «Strano.» Per lo sdegno si cfr. anche LII, 7-8; LIV, 11; LV, 9-10.
  3. Il concetto di queste terzine è ripreso e svolto più largamente nel son. che segue; esso ricorre anche, come fu veduto da altri (cfr. Crescini, op. cit., p. 176, n. 1; Torraca, Per la biogr. di G. B. cit., p. 72), nel Buccolicum carmen boccaccesco: ‘Te, Silvane pater, precor hoc fac cernere possim, Quos pectit croceos crines per tempora canos, Et rugis roseas plenas pallescere malas, Et tacitis nemorum iaceat neglecta sub umbris, Ut ludam tremulos gressus oculosque gementes’ (I, 126-130).


Note

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