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Inferno - Canto IV Inferno - Canto VI
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V.





osì discesi del cerchio primaio
  Giù nel secondo, che men loco cinghia,
  E tanto più dolor, che pugne a guaio.
Stavvi Minos, e orribilmente, e ringhia:[1]
  Esamina le colpe nell’entrata,
  Giudica e manda, secondo che avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
  Gli va dinanzi, tutta si confessa;
  E quel conoscitor delle peccata
Vede qual loco d’inferno è da essa:
  Cignesi colla coda tante volte,
  Quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
  Vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
  Dicono e odono, e poi son giù volte.

  1. V. 4 e S. Cosi bene col Cod di Cortona e coi Comm laneo


V. 1. Poiché l’autore hae narrato e detto la condizione delle anime che sono nel primo cerchio, overo grado del doloroso foro, qui in questo capitolo recita la condizione di quelle che sono nel secondo cercolo, overo grado, e primamente conta delli officiali che sono in quello secondo della pena ch’hanno; terzo la condizione, e specificane alcune persone per nome. Circa la prima parte del conto seguendo suo poema, dice che discese nel secondo cercolo, lo quale secondo cingea meno luogo, cioè che è minore, ma ha tanto più dolore che agguaglia ed eccede lo primo, e però dice e tanto più dolor. E soggiunge che Minos demonio sta lie per giudicatore e orribilmente fa suo offizio: e poi ch’hae esaminati li peccati dell’anima, disegna lo luogo con sua coda dove deve essere punita. E volendo mostrare che molte sono le anime che vanno a perdizione, dice che sempre dinanzi a lui ne stanno molte.

Or questo Minos moralmente parlando significa Giustizia ed è uno punitore di vizii. E tolleno li poeti questo nome, perchè anticamente fu uno re nell’isola di Greti, lo quale fu lo più giusto punitore e remuneratore che avesse mai il mondo, sicome è detto nel prologo di questa esposizione; e secondo che trattano li autori fabulosamente elli tegnono che lo detto Minos sia a tale offizio in lo inferno, quasi a dire: elii è buono cognoscitore.

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O tu, che vieni al doloroso ospizio,
  Gridò Minos a me, quando mi vide,
  Lasciando l’atto di cotanto uffizio,
Guarda com’entri, e di cui tu ti fide:
  Non t’inganni l’ampiezza dell’intrare. 20
  E il duca mio a lui: perchè pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
  Vuolsi così colà, dove si puote
  Ciò che si vuole, e più non dimandare.
Ora incomincian le dolenti note 25
  A farmisi sentire: or son venuto
  Là dove molto pianto mi percote.



V. 16. O tu, che vieni al doloroso ospizio. Queste sono tutte parole poetiche mostrando come grazia lo conduca in quello viaggio. 25. Qui tocca la pena e l’essere di quelle anime che si sono punite, e dice ode dolenti note, cioè pianto: e soggiunge che lì è grande oscuritade. Lo qual sonito ello esemplifica al combattere dell’onde del mare quando sono mosse da venti contrarii, e dice la bufera quasi l’usanza infernale, la quale mai non resta; dice che menava l’anime rivoltando e spingendo l’ una nell’altra e per tal modo le molestava e quando s’incontravano, cioè quando giungeano l’una l’altra a spingersi, gridavano e in le loro parole profferivano biastemmia averso la divina virtude. E dà esemplo a tale movimento, e dice, che sicome li stornelli al tempo freddo fanno grande sciame e schiera piena, cioè folta e larga, cioè grande quantità, così quel vento portava li spiriti, li quali pecconno nel mondo in lussuria, e che sottomiseno la ragione, cioè lo regere virtudioso, che è ragion nell’uomo, al talento, cioè alla concupiscenzia carnale. E soggiunge che questo vento li mena per tutte le dimensioni, cioè dinanzi e di drieto, di giuso, di suso, a destra mano e a sinistra, sicché per tutte parti ricevono l’una dall’altra percussione, che apresso hanno manca e mozza sua speranza, non solamente li si nega a dovere essere minore pena, ma se gli tronca nel posare: circa la quale pena è da notare cinque cose.

Prima che ’l movimento è contra grado, lo. quale si oppone alla delettazione della lussuria.

Secondo che ’l suo movimento è inonesto, violento e senza ordine, lo quale s’oppone alla volontà del lussuriare, la quale trascende la meta dell’onestà e della ragione.

Terzo che ’l suo movimento è con cecità di mente, la quale non si può prevedere alle percosse che insieme si danno: sicome dice Agostino: in opere luxuria tota ratio absorbetur; ed è di quelli bestiali; lo quale opposito ha a sottomettere la ragione al talento.

Lo quarto che la voglia del lussuriare è quasi disperazione di questo mondo e dell’altro, che per lussuriare li uomini si mettono a pericolo di morte; e per opposito hanno in questo suo movimento

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Io venni in loco d’ogni luce muto,
  Che mugghia, come fa mar per tempesta,
  Se da contrari venti è combattuto. 30
La bufera infernal, che mai non resta,
  Mena gli spirti con la sua rapina,
  Voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti alla ruina,
  Quivi le strida, il compianto e il lamento, 35
  Bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi, che a così fatto tormento
  Enno dannati i peccator carnali,*
  Che la ragion sommettono al talento.
E come li stornelli portan l’ali, * 40
  Nel freddo tempo, a schiera larga e piena, *
  Così quel fiato li spiriti mali *
Di qua, di là, di giù, di su li mena: *
  Nulla speranza li conforta mai, *
  Non che di posa, ma di minor pena. 45
E come i gru van cantando lor lai,
  Facendo in aer di sè lunga riga;
  Così vid’io venir, traendo guai,
Ombre portate dalla detta briga:
  Perch’io dissi: Maestro, chi son quelle 50
Genti, che l’aer nero sì gastiga?




troncata la speranza di potere morire, sì che non possono cambiare mondo.

 Lo quinto che lo lussuriare piace ai demoni, i quali per pena sono quelli che violano e forzano quelle anime poste in tale giudicio.
 V. 46. Poscia ch’ha detto della pena ch’hanno, ora esemplifica al suo mormoramento, e dice così: Come le grue quando fanno di sè lunga schiera in aiere vanno gridando lor lai, cioè loro suono, così quelle anime molestate dalla divina giustizia andavan gridando li loro guai, cioè li loro lamenti,
 50. Qui vuol Dante specificare alcuna di quelle ombre per nome

acciò che meglio s’intenda la condizione di quelle, e ponlo sotto modo d’interrogazione, alla quale domanda risponde Virgilio, e dice che la primiera anima di quelle di chi si faccia inchiesta è Semiramis. Questa Semiramis fu mogliera di Nino re di Babilonia, la quale ebbe uno figliuolo molto bello del detto Nino ed ebbe nome Ninia. Morto lo detto re la detta Semiramis succedette in lo reame, perchè il ditto Ninia era di picciolo valore e quasi d’abito femmineo. Questa Semiramis vegendo la bellezza del suo figliuolo,siando incalzata da lussuria, giacque carnalmente con esso. Or quella cognoscendo suo vizio e la riprensione del mondo che ne seguìa, fece statuto e ordine, overo costituì legge, che ciascun e

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La prima di color, di cui novelle
  Tu vuoi saper, mi disse quegli allotta,
  Fu imperatrice di molte favelle.
55A vizio di lussuria fu sì rotta,
  Che libito fe’ lecito in sua legge
  Per torre il biasmo, in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge,
  Che sugger dètte a Nino, e fu sua sposa:[1]
60 Tenne la terra, che il Soldan corregge.

  1. V. 59. P. Giordani disse melenso il verso col comune succedette ed avea ragione: perchè, a che nell’inferno quella famosa? Non era di questo luogo il solo far di libito licito; voleasi proprio qualche tratto caratteristico di grande lussuria e quindi la leggenda di Trogo accolta anche dal LANA, che si copulasse col figliuolo, delitto abominevole. Quindi il sugger dette che Witte asserì portato solo da frate Attavanti nel suo Quaresimale edito a Milano nel l479, ma che è nel Codice Gaetani, e in quello del Museo brittanico (suger dette) che fu di Glembervie e poi di Heber e che porta il n. 10317 e per giunta del l370, al Cod. 2 Laur. riferentesi a più antico è (al sugger dette) Fu già citato da altri, e sulla fede altrui anche da me per altra autorità il Cod. Landi del 1350, ma avendolo poi potuto esaminare affatto, il passo ha succidette: quell'i può essere errore del copista ricordando che mancavano i punti; il Cod. Kostka ora Wcovich-Lazari ha succiedette, che val succedette ; il bolognese S dell’Archiginnasio socedete colla chiosa cum proprio fìlio concubuit. Che certo non era licito. Resta il Cod. di Cortona che ha s’accedette, e se in vece di Nino equivoco avesse Ninia scioglierebbe il nodo.




ciascuna potesse licitamente lussuriare con chi li piacesse. Sichè fece suo libito licito in legge, solo per tòrsi lo biasimo[1]. Circa la quale costituzione di legge è da notare cinque cose.

Primo che la legge non dee essere instituita per privato utile, ma per comune utilitade , siccome dice Isidoro in primo Ethnologiarum : lex est nullo prìvato comodo sed prò comuni utilitate hominum scripta. Questa legge di Semiramis fu istituita per singolare diletto.


Secondo si ò che questa legge si è centra ragione, imperciocché l’institutore della legge deve avere la sua intenzione pura e pronta a costituire legge, per la quale li uomini si facciano buoni[2].: sicome dice Aristotile in lo secondo de Etica : Volumtas cuiuslibet legislatoris est ut fuciat homines bonos. Questa legge di Semiramis fu Istituita per lussuriare, il quale è vizio.

Terzo si è ch’ella è contraria alla legge naturale, che la naturale legge vuole che lo uomo ami lo padre e ’l figliuolo; s’ella fusse la legge di Semiramis preditta, lo uomo non sarebbe certo del padre nè del figliuolo: e per consequens non si potrebbe amare nè padre nè figliuolo.


  1. Quest’è leggenda antica molto data da Trogo, e allargata poi coll’ asserire che giacque indi con Lanas figliuolo che ella ebbe dall’incesto, e altri (Laur. XC,Il 4;, con Lino donzello, o bastardo suo proprio: novella che l’ Allavanti riprodusse nel suo Quaresimale col famam suam denigravit filium accipiendo in virum, et iterum filium filii a quo propterea accisu est
  2. Quivi assai valse il Cod Riccardiano. imperocché mancavano due linee.
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L’altra è Colei, che s’ancise amorosa,
  E ruppe fede al cener di Sicheo;
  Poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vidi, per cui tanto reo
  Tempo si volse, e vidi il grande Achille, 65



Quarto che la detta istituzione fu contra la legge umana; la legge umana dee dirizzare lo uomo in felicitade, che è scienzia ed ovramento di virtude. Quella di Semiramis dirizzava l’uomo a bestialitade ed a vizio.

Quinto che la detta istituzione era contra la legge divina, imperciocché ella è contra quel precetto che dice: non mæcaberis.

V. 61. Questa fu Dido reina di Cartagine e fu moglie di Sicheo. Or morto questo Sicheo, sicom’era usanza de’ pagani ella fe’ardere lo corpo suo, e mettere la cenere in uno vaso e sopra questo vaso giurò e fece sacramento di mantenerli castitade, e continuo lo tenea sotto lo capo del suo letto. Or in processo di tempo ella giacque con Enea e tennelo per forza più tempo. Costui li stava a invito: e secretamente fuggì da essa e fuori di sue contrade. Questa Dido veggendo che Enea era fuggito si mise una spada per lo petto e si uccise. Or, sicome appare nel testo, ella per lussuriare ruppe fede al cenere di Sicheo, sopra il quale ella giurò, com’è detto. 63. Questa Cleopatra fu figliuola del re d’Egitto ed era oltremodo lussuriosa; per lo quale vizio Tolommeo suo fratello re di Egitto la tenea in carcere. Ora in processo di tempo avuto Cesare vittoria di Pompeo volle andare in Egitto, trovò costei carcerata, trassela fuori, e giacque con essa; poi la diede per mogliera a uno suo parente Marco Antonio, lo quale poi fu morto per Ottaviano Augusto. Questa Cleopatra udito della morte del marito se mise nuda in fra due serpenti e da essi fu morta. 64. Questa Elena fu una bellissima donna, ed era mogliera di Menelao grande e possente in tra i Greci. Paris figliuolo di Priamo re di Troia essendo andato in Grecia, vide questa donna e innamorò di lei ed ella di lui. Trattò secretamente d’averla e si la furò al marito e menolla a Troia; per la quale cagione li Greci irati di tale oltraggio, feceno oste a Troia, e infine la distrussero, e però dice Dante: per cui tanto reo Tempo si volse, cioè per lo assedio di Troia, che fu molto. 65. Questo Achille fue figliuolo di Peleo e di Thete dea marina. Or essendo ello giovane al tempo dello assedio di Troia e morto il padre, questa Thete sua madre previde che ello dovea esser morto in lo assedio di Troia, pensò di volere schifarli tal morte in questo modo, che ella lo vestì in abito di femina, e mandollo all’isola di Licomede re, cioè a Schiro. E mandò pregando lo detto re che dovesse salvare e guardare questo suo figliuolo si come facea Deidamia sua figliuola, la quale lo detto re tenea in uno palagio con molte fanciulle e serventi. Lo detto re avendo ricevuto lo prego,

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Che con amore al fine combatteo.





e credendo che fusse femina sì lo mise a stare con Deidamia sua figliuola: ed c’ebbe a fare con essa carnalmente. Or in processo di tempo fu ditto per alcuni augurii, overo indivinatori, a Greci ch’elli non potrebbono conquistare Troia se inanzi elli non avessono con loro Achille, lo quale era fortissimo e valente uomo, e vedeano ch’elli era ascosto in una isola in abito di femina. Li Greci udito questo si misono a volerlo cercare, e fenno in questo modo: ch’elli commisono ad Ulisses ed a Diomedes, ch’erano due grandi gentili uomini, in forma di mercatanti andassono cercandolo per l’isole del mare e portassono merciarìa da uomini e da femine, e in ciascuno luogo ch’elli presumessono ch’elli potesse essere, lie mostrassono queste sue merciarìe, e quando vedessero che alcuna femina prendesse o toccasse cosa che appartenesse a cavaliere come spade, isproni, coltelli da ferire o lancia, e non cose che apartenessono a femina, fossero certi che quello era Achille: poscia trovato lui facessono comandamento a quella signorìa, dove lo trovassero, da parte del re e dello esercito di Greci, che a loro fosse dato. Questi Diomedes ed Ulisses, tolta tale commissione, preseno a fare la detta cerca, e più isole cerconno finché funno all’isola dov’elli era. Come funno dismontati de’suoi navili novella andò per l’isola: due mercatanti sono giunti in porto, li quali hanno di diverse maniere di gioie e merciarìe. Udito questo la figliuola del re mandò per essi. Questi andonno là e portonno tutte sue merciarìe e gioie. Or quelle damigelle, ch’erano lìe, toccavano e cercavano di quelle cose, chi trecciera, chi ghirlanda, chi cintura e chi specchio e pure cose feminili. Achille guardava spade e coltelli e metteasi scudi a collo, missidava [1] sproni e pure tramutava cose ch’apartenevano a cavalieri. Questi aveduti del fatto dissono insieme: questi è esso. Poi dissono a lui: tu sei Achille; ed elli noi seppe negare. Fatto costoro allegrezza grande, fenno comandamento al re[2] sì che l’ebbono e menònlo all’oste. Lo quale Achilles ad una scaramuccia uccise Ettor figliuolo di Priamo re di Troia e fratello di Paris e di Polissena. Uscendo un dì fuor di Troia Polissena e gran gente de’ Troiani a far onore al corpo d’Ettor, imperocché quel die era uno anno che era stato morto, ed essendo tregua di tre mesi tra li Troiani e li Greci, Achilles andò a veder quel pianto, e veggendo Polissena così bella innamorò di lei: alla fine mandolle certi messi. Paris, e la reina Ecuba madre d’Ettor, saputo tale innamoramento, mandolli a dire s’ello la volea per mogliera ch’ello glie la darebbe; e se ello la volea vedere venisse da cotal porta.

  1. Il M e il Laur. XC, 115 e 121 hanno toccava. Missidare, messedare vale mescolare, confondere mettendo sossopra. Il Rice, non ha ben chiaro.
  2. Licomede, comandandogli da parte dello imperadore de’ Greci, e di tutta l’oste, ch’ello gliel dovesse dare, ed elio gliel diede: e menòlo allo stante a questo oste. Fece Achille grande maraviglie d’armi e ancise etc (Laur. XC. 121). Non è a tener broncio degli errori storici; ma della lingua.
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Vidi Paris, Tristano; e più di mille
  Ombre mostrommi, e nominolle, a dito,
  Che amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito 70
  Nomar le donne antiche e i cavalieri,
  Pietà mi vinse, e fui quasi smarrito.
Io cominciai: Poeta, volontieri
  Parlerei a que’duo, che insieme vanno,
  E paion sì al vento esser leggieri. 75
Ed egli a me: Vedrai; quando saranno
  Più presso a noi; e tu allor li prega
  Per quell'amor che i mena; e quei verranno.
Sì tosto come il vento a noi li piega,
  Mossi la voce: O anime affannate, {{R|80}
  Venite a noi parlar, s’altri noi niega.
Quali colombe dal disio chiamate,
  Con l'ali aperte e ferme, al dolce nido
  Volan per l'aer dal voler portate:
Cotali uscir della schiera ov’è Dido, 85
  A noi venendo per l'aer maligno.
  Sì forte fu r affettuoso grido.
O animal grazioso e benigno,
  Che visitando vai per l'aer perso
  Noi che tignemmo il mondo di sanguigno: 90




Aehilles montò suso un palafreno, e tutto disarmato fuor che dalla spada, menò seco Antilogo figliuolo del re Nestore, e andò da quella porta per vederla. Paris fu al tempio d’Apolline, ove dovea venire Aehilles armato con venti compagni; e quando Achilles e Antilogo vennero, sì li ancise. Vero è che, come pone lo troiano, quelli feceno grandissima difesa, sichè per amor combattenno, e morti furono[1].

V. 67. Questo Paris fu lo predetto.

Ivi. Fu Tristano quelli di chi si legge che infine mori per amore.

70. Segue suo poema come è chiaro nel testo.

82. Lui dà esemplo che si come li colombi con grande affezione vanno al suo nido da’suoi dolci figliuoli, così quelle due ombre uscirono dalla schiera per la voce loro messa per Dante. E dice ch’è la schiera dov’è Dido. Qui vuole nomare Dido perchè non la nominò di sopra, ma disse pure: L’altra è colei che s’acise amorosa E ruppe fede al cener di Sicheo.

88. Segue suo poema si come appare nel testo.

89. Cioè: aiere negro e senza luce.

90. Cioè: di lagrime e di sangue.


  1. Dalle parole Uscendo un di fuora fino a quest’ultimo, mi servii del R. e del Laur. XC. 1-21. Nella stampa son dodici linee meno chiare, e meno espressive.
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Se fosse amico il Re dell’universo,
  Noi pregheremmo lui per la tua pace,
  Poiché hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire, e che parlar vi piace[1]
  Noi udiremo, e parleremo a vui, 95
  Mentrechè il vento, come fa, si tace.
Siede la terra, dova nata fui.
  Su la marina dove il Po discende
  Per aver pace co’seguaci sui.
Amor, che al cor gentil ratto s’apprende, 100
  Prese costui della bella persona
  Che mi fu tolta, e il mondo ancor m’offende.[2].
Amor, che a nullo amato amar perdona,
  Mi prese di costui piacer sì forte,
  Che, come vedi, ancor non mi abbandona. 105
Amor condusse noi ad una morte:


  1. V. 94 Cod. Corlonese, Landiano, BV, BS.
  2. V. 102. I Codici sono divisi quali han modo e quali mondo; e amendue sono plausibili: il modo che fu quello di trafiggeili una sull’ altro; il mondo perchè biasma di Lei degna di pietà per la brullezza e incivilezza del marito, e per l’inganna usato a darglielo. Io credo che dove prima fu letto modo era una lineetta d’abbreviatura sull’o primo, e quindi mondo sia la vera lezione avendo poi anche dalla mia il Commento laneo. De’ Codici bolognesi BS e BU han mondo; BV e BP modo; ma poiché ho additato al Commento si vegga che ha eziandìo una espressione che consona al verso del Cod. di Cortona. Che mi fu tolta al mondo, ancor m’offende; motto da studiare. Forse diceva: Che mi fu tolta, el mondo ancor mi offende




V. 97. Qui tocca Dante una istoria, la quale venne ad Arimino in questo modo. In prima fa menzione del luogo ove nacque una delle ditte anime, cioè Ravenna; e dice che la terra ov’ella nacque è sopra la marina in quello luogo, dove Po mette capo in mare, e dice: per aver pace coi segnaci sui, cioè del ditto fiume; s’ello non mettesse in mare elli non potrebbe ricevere li altri fiumi che mettono in lui. Poi ch’ha detto del luogo, dice della condizione del compagno, cioè ch’avea ’l cuore gentile. E soggiunge che a cuore gentile facilemente s’aprende amore: si che quel suo compagno avendo il cuore gentile s’inamorò della persona di lei, la quale persona li fu tolta al mondo, come che morì di gladio, e dice che ancora il mondo l’offende, cioè la nominanza e fama. Poi e’ ha toccato la condizione del compagno, dice della sua: e dice che amore non perdona ad amare alcuno che sia amato: sichè sapiendo ella che quel suo compagno l’amava, era costretta da amore che ella dovesse amare lui: e però dice: Mi prese etc. 106. Poi ch’ha toccata l’una e l’altra persona, qui dice di tutte e due insieme: e dice che furono morti per amore, e colui che li uccise si è atteso da Cain, lo quale uccise Abello suo fratello; siche è tanto a dire che quelli che li uccise era fratello d’uno

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INFERNO. — Canto V. Verso 107 a 123159

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Commedia (Lana)/Inferno{{padleft:Canto V|3|0]]

  Caina attende chi vita ci spense.[1]
  Queste parole da lor ci fur porte.
Da che io intesi quelle anime offense
  Chinai 'l viso, e tanto il tenni basso, 110
  Finché il poeta mi disse: Che pense?
Quando risposi, cominciai: O lasso.
  Quanti dolci pensier, quanto disio
  Menò costoro al doloroso passo!
Poi mi rivolsi a loro, e parla’io, 115
  E cominciai: Francesca, i tuoi martiri
  A lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo de’dolci sospiri,
  A che e come concedette amore,
  Che conosceste i dubbiosi desiri? 120
Ed ella a me: Nessun maggior dolore,
  Che ricordarsi del tempo felice
  Nella miseria; e ciò sa il tuo dottore.


  1. V. 107. Quantunque in Par. XII Vita stia per anima qui certo sta per vivere, o vita temporale. Al e. XII Inf. è Qual di retro move ciò ch’ei tocca. Così non soglion fare i pie de’morti, cioè de’morti noi corpo terrestro, e più innanzi Fu spento dal figliastro su nel mondo. Da quattro bolognesi ho quattro lezioni: BS di vita; HP o vita; BU da vita; BV in vita Ometto ogni particella poichè spegner vita è ucciderla, farla morire.


di loro. Or questa istoria si fu che Johanni ciotto[1] figliuolo di messer Malatesta d’Arimino avea una sua mogliera, nome Francesca, e figliuola di messer Guido da Polenta di Ravenna; la quale Francesca giacea con Paolo fratello di suo marito ch’era suo cognato: correttane più volte dal suo marito non se ne castigava; infine trovolli in sul peccato, prese una spada, e conficolli insieme in tal modo che abracciati ad uno morirono.

109. Segue suo poema si come appare nel testo. 115. Qui vuole Dante dire lo modo di tale incesto sotto forma di domandagione. Ed in prima si riduole di suo affanno per renderli beni voli a rispondere: secondo, domanda espresso del modo. 121. Qui risponde e dice ch’a ricordarsi del tempo avventuroso e gaudioso in lo tempo della tristezza e miseria, si genera grandissimo dolore; ma per adempiere suo affetto e desiderio si li dirà:

  1. Ciotto vale zoppo; onde poi per corruzione di pronuncia e di scrittura si fece Janciotto. Il testo del Comm attribuito a Pietro Allighieri ritiene per vera questa istoria »dicit se vidisse Francischinam de Polenta, filiam domini Guidonis de Ravenna et uxoris Joannis Ciotti de Malatestis quam dictus Joannes interfecit et Paulum suum fratrem quia invenit eos ec. e così quello creduto di Jacopo suo fratello che appella l' uccisore Giani sciancato: il Comm. del Boccaccio afferma che mai non udì dire se non ciò che Dante scrisse di quel fatto, e che per ciò reputa finzione sopra un fattoo possibile. L’Anonimo R. 1016 conta per vero il fallo aggiungendo che Paolo fuggendo s’attaccò per una maglia del corretto a una
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Ma se a conoscer la prima radice
  Del nostro amor tu hai cotanto affetto, 125
  Farò come colui che piange e dice.
Noi leggevamo un giorno per diletto
  Di Lancillotto, come amor lo strinse:
  Soli eravamo e senza alcun sospetto.
Per più fiate gli occhi ci sospinse 130
  Quella lettura, e scolorocci il viso:
  Ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
  Esser baciato da cotanto amante,
  Questi, che mai da me non fia diviso, 135
La bocca mi baciò tutto tremante:
  Galeotto fu il libro e chi lo scrisse;
  Quel giorno più non vi leggemmo avante.
Mentre che l’uno spirto questo disse,




e aduce testimonianza a suo esordio lo suo autore overo signore, cioè Virgilio, che ricordandosi del suo essere in lo mondo, poeta e in grande stato, e ora vedersi nel limbo senza grazia e speranza di bene non è senza dolore e gramezza.

V. 127. Dice che questi due cognati leggeano uno giorno a diletto di Lancillotto, e come fu stretto da amore della reina Ginevra; e soggiunge ch’erano soli in uno luogo e senza alcuno sospetto. Or dice che leggendo come Lancillotto ebbe la reina per trattato del principe Galeotto, lo quale fu poi lo scrittore di tale novella, più fiate l’uno guardava all’altro. Infine quando furono in quello passo dove Lancillotto gittò lo braccio al collo a Ginevra e baciolla, costoro fenno lo simile insieme: e qui feceno punto a sua lezione. Poi e lie e altrove si favelonno per altro modo. Circa la qual cosa è da notare che si dee schifare quelle lezioni, le quali disordinano li animi delle persone e perducenli a vizio: ancora si deve schifare li luoghi li quali possano generare sospizione overo segurtade di mala operazione[1], che forse se non fosseno stati soli non sarebbe avvenuto quello principio che li condusse poi a violenta morte.

139. Segue lo poema mostrando come l’altro spirito piangendo affermava suo detto: e soggiunge come di loro avea tanta pietade, considerando che erano lì per amore[2], ch’ello usci della memoria e cadde come fanno li corpi morti.

E qui finisce la intenzione del quinto capitolo.


cateratta (senz’aver prima detto che cateratta c’era), e il falso Boccaccio dice della cateratta e della falda del corretto, quindi conobbe un poco più di quello che Dante non disse: ma può essere ogni accessorio imaginato dopo che Dante ebbe dato fuori il soggetto. Così vera fu tenuta dal Commento fatto o copiato da ser Griffolo anteriore al Boccaccio e da altri parecchi.

  1. Segurtade di mala operazione aggiungo col R., e col L XC, 12l
  2. Il Codice Riccard. scrive chiaro: Dannati per amore di concupiscenza.
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INFERNO. — Canto V. Verso 140 a 142 161

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Commedia (Lana)/Inferno{{padleft:Canto V|3|0]]

  L’altro piangeva sì, che di pietade 140
  Io venni men così com’io morisse,
E caddi, come corpo morto cade.


Nota. L' Ottimo non ha di questo commento che sette linee che sono le prime del suo proemio. Qua e là pur si odora che conoscesse assai più che quelle. Ma ho già detto che è accoglitore e compilatore di molte chiose d’altrui. Il signor Fulin (I Codici di Dante Alighieri in Venezia) che vide il Cod. LVI della Marciana che è misto di Lana e di {Sc|Ottimo}} (che è pur gran parte di Lana) affermalo autorevole interprete dell’Alighieri. Sin qui del Codice è Laneo poi a tutto il VI del Purgatorio Ottimo, e Lana là al fine del Paradiso. Per altro è notevole che esso Cod. del sec. XV abbia di mano del secolo XVI che il Comm. al Paradiso è di Jacopo dalla Lana citato dai Fiorentini come l'antico commentatore fatto latino dal Rosate (Rosciate). Essendo ivi il testo e la data MCCCXXXIII com’è in carte dell’Ambrosiana Cod.94, contrariamente a chi ivi scrisse ritengo la data essere di chi copiava. Quando il signor Fulin regga i raffronti dati a fin d’ogni canto coll' Ottimo spero vedrà quanto poco vaglia come autorevole.

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