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Inferno - Canto V Inferno - Canto VII

[p. 167 modifica]occhi: ponelo con tre bocche le quali hanno a significare per allegorìa la qualità, la quantità e lo continuare de’golosi. Mettelo ch’elli abaia continuo e trema; e questo allegorizza che li golosi diventano lamentatori e gottosi e con doglie di fianchi e di stomachi, li quali male agevolmente trovano riposo. E soggiunge a questa materia alcuna profezia circa lo stato di Firenze, la quale si fae a questo capitolo: perchè la prima cagione elli pone che nascerà di questo vizio si come apparirae nel testo; poscia nel compimento del presente capitolo tocca alcuna cosa di nostra risurrezione al die del giudizio.

 




l tornar della mente, che si chiuse
  Dinanzi alla pietà de’ due cognati,*
  Che di tristizia tutto mi confuse,
Nuovi tormenti e nuovi tormentati
  Mi veggio intorno, come ch’io mi mova,
  E come ch’io mi volga, e ch’io mi guati.
Io sono al terzo cerchio della piova
  Eterna, maledetta, fredda e grieve:
  Regola e qualità mai non l’è nova.
Grandine grossa, e acqua tinta, e neve
  Per aer tenebroso si riversa:
  l’ute la terra che questo riceve.


V, 1. Dice che tornato nella sua memoria, della quale elli uscio per la pietà di Francesca e di Paolo cognati sopradetti, ello vide nuovi tormenti, cioè nuove pene, e nuovi tormentati, cioè nuove anime sottoposte a quelle pene: e vogliendo dimostrare sua moltitudine, dice: per ogni dimensione ch’elli si volgea, cioè dinanzi, e di drieto , a destra, ed a sinistra, in suso e in giuso, e per ogni altra parte ch’ei si volgea assai ne vedea. 7. Qui tocca dell’ordine dell’inferno in qual grado questo è, e dice che è in lo terzo, lo quale terzo cercolo è pestilenziato d’una maladetta pioggia, la quale è eterna, cioè che mai non averà fine. Dice che è fredda e grieve. Fredda, si è da notare contraria di natura; grieve, cioè fastidiosa e malanconica da portare. E soggiunge che regola nè qualità mai lì non è nuova, quasi a dire che mai non muta essere. 10. Queste hanno tutte a significare la delettazione de’ golosi, sicom’è detto: e per opposito la giustizia di Dio li punisce per li contrarii.

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Cerbero, fiera crudele e diversa,
  Con tre gole caninamente latra[1]
  Sovra la gente che quivi è sommersa 15
Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra,
  E il ventre largo, e unghiate le mani;
  Graffia gli spirti, gli scuoia, e disquatra.[2]
Urlar gli fa la pioggia come cani:
  Dell’un de’ lati fanno all’altro schermo; 20
  Volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
  Le bocche aperse, e mostrocci le sanne:
  Non avea membro che tenesse fermo.
E il duca mio distese le sue spanne; 25
  Prese la terra, e con piene le pugna
  La gittò dentro alle bramose canne.
Qual è quel cane che abbaiando agugna,
  E si racqueta poi che il pasto morde,
  Che solo a divorarlo iutende e pugna; 30
Cotai si fecer quelle facce lorde
  De lo demonio Cerbero che introna

  1. V. 14. 11 R. il BS e altri Codici hanno canina mente di che il P. Soiio fa gran confo. Se gli piace sia : ma ora e dimesso.
  2. V. 18. Tre Cod. estensi, i due interi dell’universilà di Bologna, e d’uno di essi (BV)




anche il Commento, BG, Cavr. hanno questo che tengo finissimo disquatra. Gli altri e gli squatra, ed isquatra, e simili Approvollo anche il Parenti.

V. 13. Pone questo Cerbero essere trasmutato in uno demonio il quale punisce li golosi[1]; e per allegorìa hae a significare in universali lo vizio della gola, sicomè detto, e le sue condizioni appaiono assai chiare nel testo. E soggiunge nel testo che graffìa li spiriti etc.; che sicome si dilettano per li cibi, così per lo graffiare s’atristano.

19. Qui tocca come l’anime si lamentano di tal pena, e dice: urlare, lo quale sonito proprio è o di cani affamati o di lupi. E soggiunge che spesso si voltano mo sovra l’uno fianco, mo sovra l’altro: e questo per allegoria si hae a significare per opposito la delettazione de’cibi mo caldi, mo freddi, cioè mo conformevoli al fegato che è dal lato destro, e talor conformevoli alla milza che è dal lato sinistro[2].

22. Segue Dante lo suo poema come appare nel testo. 31. [3] Mostra che quel demonio dopo lo agognare , cioè tran

  1. Lo quale è posto lì per la divina giustizia di Dio per officiale e per punitore de’golosi R .
  2. Questo tratto dopo fegato manca alla Vind. come al Cod Bg., ed è ancor più difettosamente al Laur. XC, 115.
  3. Piacemi notare che questa rubrica manca al Cod. Laurenz. XC, 115
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  L’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
Noi passavam su per l’ombre che adona
  La greve pioggia, e ponevam le piante 35
  Sopra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante;
  Ma una che a seder si levò, ratto
  Quando ci vide passar si davante,[1]
tu, che se’ per questo inferno tratto, 40
  Mi disse, riconoscimi, se sai:
  Tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto.
Ed io a lei: L’angoscia che tu hai
  Forse ti tira fuor della mia mente.
  Sì che non par ch’io ti vedessi mai, 45
Ma dimmi chi tu se’, che in sì dolente
  Luogo se’ messa, ed a sì fatta pena,
  Che s’altra è maggio, nulla è sì spiacente.
Ed egli a me: La tua città, ch’è piena
  D’invidia sì, che già trabocca il sacco, 50
  Seco mi tenne in la vita serena.

  1. V. 37 e seg. due scrivo secondo il Cortonese assai felice, non ostante che illustri sian con la comune.




trangugiare, di quel cibo che per Virgilio li fu gittate, facea tal rumore che intronava si quelle anime che vorrebbono essere state sorde.

V. 34. Qui tocca lo sito che aveano quelle anime: e dice che stavano tutte per terra a giacere, e questi conveniano passare loro per adesso, lo quel sito hae a significare che furono persone tutte sollecite al corporale e terreno, e non al celestiale e spirituale affetto. 38. Questi fu uno fiorentino, il quale ebbe nome Ciacco, lo quale fu molto corrotto in lo preditto vizio della gola, e fu al tempo di Dante e cognoscevalo in Firenze, e però dice quello Ciacco a Dante: tu mi dovresti ben cognoscere che tu fosti innanzi, a Firenze, nato e cresciuto ch’io fussi disfatto, cioè morto[1].

43. Qui si scusa Dante rispondendo che noi cognosce perchè l’angoscia e la pena l’ha si alterato ch’elli è fuora della sua mente.

46. Qui soggiunge a sua risposta ch’elli vorrebbe sapere da lui toccando alcuna cosa della qualità della pena di quel luogo.

49. Qui dice Ciacco a lui che fu di quella città che è piena e va di sopra d’invidia, cioè di Firenze , e che ebbe nome Ciacco , e che è posto lie per lo vizio in che fue corrotto, cioè di gola, e che tutte quelle che sono in quello circolo a simile pena e per simile vizio stanno.

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Voi, cittadini, mi chiamaste Ciacco:
  Per la dannosa colpa della gola,
  Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco;
Ed io anima trista non son sola, 55
  Che tutte queste a simil pena stanno
  Per simil colpa: e più non fo’ parola.
Io gli risposi: Ciacco il tuo affanno
  Mi pesa sì, che a lagrimar m’invita:
  Ma dimmi, se tu sai, a che verranno 60
Li cittadin della città partita?
  S’alcun n’è giusto: e dimmi la cagione, *
  Perchè l’ha tanta discordia assalita.
Ed egli a me: Dopo lunga tenzone
  Verranno al sangue, e la parte selvaggia 65
  Caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien, che questa caggia
  Infra tre soli, e che l’altra sormonti
  Con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti, * 70
  Tenendo l’altra sotto gravi pesi.
  Come che di ciò pianga, e che ne adonti.



V. 58. Qui persuade Dante a Ciacco acciò che elli li sia benevolo a risponderli, e prima si duole di sua pena; secondo domanda che elli dica e pronostichi dello stato di Firenze, e se alcuno v’è giusto, e la cagione perchè è assalita da tanta discordia.

64. Dice rispondendo Ciacco a Dante che dopo lunga tenzione, cioè dopo lunga discordia orta e nata di invidia, elli, cioè li fiorentini verranno al sangue cioè a cacciare, ferire e impiagare l’uno l’altro. E dice che la parte selvaggia cacciarle l’altra. Intende qui parte selvaggia la parte guelfa che è contra l’imperio, lo quale è regolatore della civiltade e della comunicazione umana, si che se la domestica è imperiale, quella che è contra essa per opposito è selvaggia. Or dice: la guelfa parte caccerà la ghibellina con molta offensione.

67. Dice che dopo questa cacciata per tre soli, cioè per tre circolazioni di soli, ch’enno tre anni, colla forza di Dio, quella che allora starà cheta, all’altra sormonterà e per lungo tempo li terrà la signoria. Avvegnadìo, soggiunge lo spirito, ch’io ne pianga ed abbiane onta; cioè, che Ciacco ne sarà doloroso perchè fu guelfo.


»(Ciacco) conobbe Dante, però che, anzi che Dante morisse era di XIIII anni questo Ciacco«. La correzione era facile ponendo venisse ov’è morisse e aggiungendo a Ciacco la voce morto. Intanto sappiamo che Ciacco mori del 1286.

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Giusti son due, ma non vi sono intesi:*75
  Superbia, invidia ed avarizia sono
  Le tre faville che hanno ì cori accesi.
Qui pese fine al lacriniabil suono.
  Ed io a lui: Ancor vo’che m’insegni,
  E che di più parlar mi facci dono.
Farinata e il Tegghiai, che fur sì degni,[2]
  Jacupo Rusticucci, Arrigo e il Mosca,80
  E gli altri che n ben far poseser gl’ ingegni,
Dimmi ove sono, e fa ch’io li conosca;
  Chè gran desio mi stringe di sapere,
  Se il ciel gli addolcia o lo inferno gli attosca.
Ed egli: E’ son tra l’anime più nere;85
  Diversa colpa giù li grava al fondo:[3]
  Se tanto scendi, li potrai vadere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
  Pregoti che alla mente altrui mi rechi:
  Più non ti dico e più noti ti rispondo.90
Gli diritti occhi torse allora in biechi:
  Guardommi un poco, e poi chinò la testa:
  Cadde con essa a par degli altri ciechi.


  1. Intanto ch’io dava alla Festa pel sesto centenario dalla nascita di Dante questo Commento il sig. Selmi stampava le Chiose anonime di che ho parlalo nella prefazione. A questo passo dichiarò non poter correggere quel che aveva: »Questi
  2. v.79.Scrivo Tegghiai e non Tegghiaio perchè questo mi allunga il verso
  3. v 86. Riprendo la lezione del Cod. Gaetani del Vat. 1399 dell’Antol. dell’Angelelico, dei Parmensi 18 e 1, 104. 104 del BS, del Cortonese e di due Patavini, del Bartolini, del Poggialino e del Cassinese che è più poetica, e più musicale e vera come il gravare al fondo val proprio tenerli in giù col peso; mentre aggravar nel fondo è affaticarli laggiù col peso. Il parmigiano 1375 e altri da me altrove citati ha quasi tutti diversa pena ma a me pare che se son giù sonci per la colpa ch più li caccia quant’essa è più grave e quindi come Lana dice a maggior pena. Il perugino e il Cortonese e il Cavr. fra molti han cam’io tengo.




V. 73. Poi che ha ditto dello stato di Firenze, dice non sono se non due mondani giusti, li quali noti vi sono intesi cioè; adovrati: e però Dante, non li noma, ciè Giustizia,e Ragione. E soggiunge che la cagione di questa lite sì è tre pestiferi vizi cioè Superbia, Invidia, Avarizia, li quali comunemente regnano nei fiorentini.

76 . Poi ch’ebbe inteso Dante tale risposta, pregollo ch’elli fesse conto se alcuni nobili di Firenze, li quali ebbono già buon stato in mano, sono lie in inferno, o se il cielo li adolcia, cioè o se sono salvi; li quali sono nominati nel tnsto.

85. Rispuose Ciacco ch’erano più in giuso e a maggior e ch’el pregava ch’el facesse di lui memoria quando fosse tornato suso al inondo. Poi seguendo lo poema disse che cadde appresso gli altri.

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E il duca disse a me: Più non si desta
  Di qua dal suon dell’angelica tromba; 95
  Quando verrà la nimica podesta,
Ciascun ritroverà la trista tomba,
  Ripiglierà sua carne e sua figura,
  Udirà quel che in eterno rimbomba.
Sì trapassammo per sozza mistura 100
  Dell’ombre e della pioggia, a passi lenti,
  Toccando un poco la vita futura:
Perch’io dissi: Maestro, esti tormenti
  Cresceranno ei dopo la gran sentenza,
  O fien minori, o saran sì cocenti? 105
Ed egli a me: Ritorna a tua scienza,
  Che vuol , quanto la cosa è più perfetta,
  Più senta il bene, e così la doglienza.
Tuttochè questa gente maledetta




V. 94. Segue suo poema dicendo che inanzi il dì del giudizio, non si leverà, quasi a dire che dopo questa poetria, non ne sarà alcuno che di Ciacco faccia menzione.

97. Dice che ciascuno rivederà la sua fossa e ripiglierà sua carne e figura, e cosi rifatti udiranno lo giudizio di Cristo.

100. Segue lo poema come appare nel testo, ch’andavano a passi lenti cioè piano, e ragionavano della vita futura, cioè di quello che sarà dopo lo die del giudizio; per lo quale ragionamento divenne che Dante domandò Virgilio se le pene de’ dannati cresceranno dopo lo predetto die o menimeranno, o saranno pure così fatte.

106. Risponde Virgilio, e dice: torna a tua scienzia, cioè a filosofia naturale, la quale vuole che come la cosa è più perfetta più senta il bene (e nota qui perfetta per compìta); e così per opposito quella che è più imperfetta (cioè men compita) non sente la doglienza: e questo dice lo filosofo in libro De anima: che come l’anima è in corpo più perfetto organato, più perfettamente cognosce; che s’ella riceve difetto in alcuno organo, come in visu, in auditum etc, ella è priva di quella cognizione che per quello organo s’acquista, e per consequens men perfetta. Sichè la risposta si è che perchè saranno più compiute, cioè ch’avranno lo corpo, dello quale innanzi il die del giudizio sono in privazione, più sentiranno la pena, e per consequens le pene saranno maggiori.

109. Qui espone quel vocabolo perfetta, cioè che non si dee intendere perfezione ma compita.

Qui pone fine al sesto canto, ed entra nel quarto circolo là dove per benintrata trovò Pluto dimonio.

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  In vera perfezion già mai non vada, 110
  Di là, più che di qua, essere aspetta.
Noi aggirammo a tondo quella strada.
  Parlando più assai ch’io non ridico:
  Venimmo al punto dove si digrada:
Quivi trovammo Pluto il gran nemico. 115



Nota. Già avvisai che il Commento soprannominato l’ Ottimo ha tolto al Lana tutto il Proemio. — Egli quel lungo tratto l’ha posto per chiosa al primo verso del canto; poi ha continuato con roba altrui, con proprio, e per proprio conto, per tutto questo canto e pei tre altri successivi, con diverso tono a tratto a tratto; onde non mi ha potuto giovare.


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