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(Commento di Jacopo Della Lana) (XIV secolo)
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VII.
Poi che ha nel sesto capitolo trattato del vizio della gola, in questo settimo intende di trattare de’ prodighi e delli avari e delli iracondiosi in fine. Circa li quali primi vizii è da notare che li
beni temporali si possano tenere e dare virtuosamente, e possonsi
dare e tenere viziosamente. Se si dà quello che è bisogno temperatamente, e tiensi quello che non ha luogo a spendere secondo la
condizion e facoltà dello uomo, questo è vertudioso modo ed è apellato largo, overo liberale, sicome dice lo Filosofo in secondo e quarto Ethicorum: liheralitas moderat― cupidi totem aquirendi vel possidendi res exteriores: e intendesi res, overo bona exieriora tutte quelle cose che si puonno con pecunia misurare. Se si dàe o spende più che non è, overo s’aviene alla facultade dell’uomo, è apellato prodigo quasi proditus, cioè tradito[1], che si lascia tradire e ingannare alla sua volontà; perchè se bene si considera, questi beni esteriori sono ordinati e alla vita e all’onore: e perciò colui che li dispensa
disordinatamente per sua volontà, si può dire prodito, cioè tradito.
E però dice Aristotile in lo secondo e quarto dell’Etica: prodigalitas est vitium quod consistit in indebita corruptione vel consumptione
substantiæ: e la glosa dice: propriarum divitiarum etc; posse similemente li esteriori beni tenere viziosamente, e similemente affettarli con viziosa ed indebita maniera. E questo avviene alli illiberali, overo avari, li quali non solamente peccano in tòrre lo superfluo ad altri, ma eziandio sono defettuosi e manchevoli in dar quello che liberamente dovrebbono dispensare; è similemente, sicome dice Aristotile in l’Etica, in li predetti libri; questo è uno pestifero ed incurabile morbo[2], che naturalmente l’umana natura tende ad
imperfezione di sè. Sichè come vive più l’uomo, tanto diventa più pusillanimo e cattivo d’animo: per le quali cose si segue ch’elli
diventa avaro e va sempre peggiorando. E questo avviene perchè li spiriti s’afievoliscono per lo corpo che è in declinazione, l’animo che segue alle passioni del corpo, perchè cognosce più li pericoli mondani e aspetta meno essere aiutato, s’indebolisce e diventa cattivo, ed ha sempre paura che Dio e ’l mondo li vegna meno. Or
per questa tal paura inordinata, che l’anima segue e il corpo, si è
peccato: e dice san Bernardo: avaritia est quarumlibet rerum insatiabilis et inonhesta cupido; e l’Apostolo dice: avaritia est ydolorum
[p. 175 modifica]servitus, quia homo avarus exhibet creaturæ, quod debet creatori, scilicet fidem spem et dilectionem. Or perchè in questo vizio abunda
molto l’umana natura, acciò che li uomini se ne sottraggano e devìeno, ha voluto l’autore fare menzione di lor pena, è maestrevolmente per bene esemplificare loro atto ed a palesare con effetto, sì li pone nel quarto cerchio di quello pericoloso luogo, overo foro, che ha nomato, ed imagina che mezza la circulazione sia abitata e scorsa per li prodighi, l’altra metade sia agregata per li avari, E imagina sicome lo prodigo che dispensa e dà oltramisura la sua substanzia e divizia sta sempre in movimento e senza quiete, così quelle anime che sono lie sempre corrono, e in movimento velocissimo adoprano suo tempo, e non vanno se non in una delle due parti del circolo per opposito. Sicome l’animo dello avaro mai non è in riposo ma sempre pieno e superabundante di voglia insaziabile: così quelle anime che sono lìe mai non riposano, ma sempre corrono in l’altro semicirculo. E pone Dante che la divina giustizia vuole che in li due termini ove si parteno li tristi cori si delli avari, come de’ prodighi, elli si pettoreggino e diansi di grandi scontri dicendo l’uno all’altro per conservarsi maggior pena, l’avaro al prodigo: perchè burli? cioè perchè getti tu via? e ’l prodigo all’avaro: perchè tieni? cioè tu perchè ritieni quello che dovresti spendere? E soggiunge l’autore, come appare nel testo, che in questi avari ha molti prelati chierici, per la qual cosa è da notare che alla virtù divina dispiace cherico tesaurizzante sicome dice santo Agostino: maleedictus dispensator avarus cui dominus est largns, che s’elli ne tolleno ad altri nè tesoro a farli dispensatori di grazia: Dio non li folle pregio vendendo le spirituali per le temporali secondo la detta sentenzia sono maledetti.
Poi ch’ha ditto di questi due vizii, tocca alcuna cosa della fortuna, cioè della ventura. E dice che la fortuna è una intelligenza la quale hae a dispensare li beni mondani, cioè le cose commutative. E dà per esemplo che sicome Dio ha posto a ciascuno cielo una intelligenza, la quale regge, distribuisce e guida la sua influenza in queste cose naturali di sotto egualmente, cioè sempre secondo sua regola uniforme, ma variasi per lo obietto, vel materia ch’hae a ricevere; sicome lo cielo della Luna ch’hae a reggere l’acque e li umidi, quel di Saturno, secondo astrologia, le sette e li reami, quel di Marte le battaglie etc. come si mostra per Albumazar: De conjunctionibus: cosi vuol dire Dante che sia posta una simile intelligenza, la quale hae a muovere le ricchezze del mondo. E mette che molto ènno più obedienti questi beni commutativi a quella intelligenzia che non sono le materie inferiori a’ celesti movimenti, quando dice: vostro saper non ha contrasto a lei, quasi a dire che umano arbitrio non può contra lei: ciò si può contra li cieli per Tolommeo astrologo in lo Centiloquio: anima sapientis adiucat opus stellarum etc. Or di questa fortuna è stato grandi e diverse oppinioni tra li savi. Che alcuni e quasi tutti vogliono dire ch’ell’è nulla da sé, ma è, sicome dice Aristotile in lo secondo della Fisica, uno conseguente senza proposito; la quale consequenzia è cagionata da’cieli e nature inferiori sichè di sè non è nulla; e [p. 176 modifica]san Gregorio dice: absit a fidelium cordibus ut fatum vel fortunam aliquid esse dicant. Ora è da sapere che la intenzione di Dante èhche questa fortuna sia uno effetto, particolare, lo quale è ignoto alla scienza mondana, vel umana, perchè, come dice Aristotile in La Posteriore: de particularibus non est scientia; ma è cagionata da alcuna generale constellazione. E raducendolo in li suoi pnncipii ello è natura, ma per comparazioni a’ savii uomini è fortuna cioè ventura che e: præter propositum: ed aducene san Tommaso in la prima parte uno bello esemplo in la questione di fatto.
Uno signore manda due fanti per messaggi in uno luogo; non sappiendo l’ uno dell’altro questi si truovono in lo luogo preditto. Se si riferisce lo viaggio a’ fanti questo è casuale perch’è senza loro intento e proposito: se si riferisce al signore che gli ha mandati e che preordinòe loro viaggio, questo non è a fortuna[3]. E così similemente se si riferisce alla scienzia naturale, cioè umana, questi particolari sono a fortuna, sicome cavando terra per uno sepolcro trovare tesoro, che il trovar tesoro è præter intentionem e però è a fortuna. Se si referisce alla natività parlando strologicamente in la tale età lo nato troverà tesoro perchè il segno della seconda è nella seconda revoluzione. Allora sarà a constellazione e non a fortuna; ma apellasi quello, che non si può sapere per iscenzia naturale, per accidente; e però dice in la detta questione fra Tommaso: quoniam ea, quæ per accidens hic aguntur, sive in rebus naturalibus sive humanis, redunctur in aliquam causam proeordinantem quæ est providentia divina etc. Sicché si può dire che li beni commutativi, come le ricchezze mondane, sieno distribuite per fortuna, la qual fortuna è una scienzia di particolari ignorata e non saputa dalli intelletti umani, alla quale per tale ignoranza non si può contrastare per sapere o per possanza umana. Questo è ragionevile che libero arbitrio non è se non là ove la volontade e lo in intelletto può eleggere: ed elezion non si può fare se non in quelle, overo di quelle cose che si fanno se fortuna è com’è detto, ignota e non saputa; per consequens non si può fare elezioni sì che arbitrio non li può contrastare e questa fu intenzione di Dante, e però dice: necessità la fè essere etc. La qual fortuna è coordinata da quella possanza infinita che regge e governa, e creò lo mondo a suo piacere, si come sono l’altre intelligenze e vertudi.
Poi infine del capitolo parla della pena delli iracondiosi ponendo quelli in uno pantano e sotto acqua; e cosi entra nel terzo circolo dello inferno.
Circa lo quale vizio si è da considerare che sicome l’ira è uno furore d’animo ch’hae appetito di vendetta ed è sempre con tristizia misto, così l’autore punisce overo tormenta li iracondii in uno pantano fetente e stimolati da fastidiosa cosa[4], come puzza e da non potere uscire da quella acqua, la quale non solo li tiene soffocati in essa, ma non li lassa esprimere in parole lo suo volere. [p. 177 modifica]E poi, come appare nel testo, non puonno parlare, ma fanno pullulare l’acqua che non si può intendere suo dittato. Ancora tra essi si smembrano , graffiano ed offendonsi, quasi a dire quello die fu da ira vinto nel mondo averso Dio e lo prossimo, qui è offeso sì da Dio che gli ha posti in quel luogo, come eziandìo dal prossimo, di cui ello gli è compagno, che lo mordeno e squarciano; e però dice: troncandosi co’ denti etc. Apella Dante questa regione Stigia, che è tanto a dire come tristizia: e questo sicome l’iracundo ha letizia della vendetta, così nel suo tormento è in tristizia. El fiume, overo acqua, apella ruscello, quando è disotto nel quinto circolo, quasi sanguinolento, che non solo punisce ed offende l’animo, che è spirituale, in tenerlo stretto e serrato sotto lo pantano e puzza, ma eziandìo lo punisce in corpo quando insieme si smembrano. Or è da sapere che, sicome lo Filosofo tratta in lo secondo dell’Etica iracundia: e a considerare li esteriori mali per li quali l’uomo è provocato ad ira. Or se l’uomo in tale considerazione si adebita e ragionevilmente, è ditto mansueto che li dispiace li vizii; s’elli si dà più in desiderare vendetta che non è la ragione, si è ditto iracondioso; s’elli si dà meno in disiderare vendetta che non è la ragione, si è detto irascibile. E però da appetere e desiderare quella vendetta delle male fatte cose che è consonevile e confermante alla ragione: e chi ciò fa sarà detto mansueto. A Dio dispiace molto lo iracundioso, perocché l’ira nasce da arroganzia, la quale arroganzia è a reputarsi di più degno e maggiore che l’uomo non è. E però della arroganza nasce ira in due modi. L’uno è ira simpliciter, overo dispetto quando l’arrogante vede che uno a chi elli non avrà mai offeso, lo reputerà nulla e di nessuno valore: e chiamasi questo reputare parvipenditas, la quale promove molto li uomini nobili ad ira. E questa è una delle cautele che insegna Aristotile in la Rettorica a coloro che han piato di mostrare ch’elli abbia la contraria parte per niente, per la quale parvipenditade lo suo adversario s’adira: e per consequens l’ira li impedisce sì l’animo ch’ello non può usare onestamente sua ragione, e così cade in disgrazia e in dispregio del giudice.
Lo secondo modo che nasce della arroganzia è ira contumeliosa, la quale è contra quelli che hanno alcuna volta offeso; e quella ira contumeliosa hae appetito di vendetta senza alcuno amore di caritade; e perochè questa arroganzia dispartuomo da caritade; è in dispiacere di Dio.
Li rimedii che si puonno avere all’ira si è prima silenzio, sì come è scritto in li proverbii : cmm dcfecerit ligna, estivquitur ignis; e però mette Dante che continuo favellano nel pantano.
Lo secondo remedio è pensare alla passione di Cristo, sicome dice san Gregorio: si passio Domini ad memoriam revocetur, nihil a Deo duram est quod non æquo animo tolleretur.
Terzo è considerare le pene dello inferno, le quali mai non hanno fine; e li si va per la sentenzia di Cristo, sicome dice nell’Evangelio: omnis qui irascitur fratri suo, reus erit.
Or è da sapere circa a questa passione che è mansuetudo quel che sormonta per accidia; che accidia è a fare più o meno che non [p. 178 modifica]è ragionevile: e perciò dice Dante che lamentandosi quelli diceano: portando dentro accidioso fummo, quasi a dire: noi accidiosamente ci contristammo dentro noi medesimi quando eravamo nella dolce aiere, la quale s’allegra, cioè si rischiara per li raggi del sole.
Poi finisce lo suo capitolo ponendo per termine quando funno apresso d’una torre.
Poi ch’è detto la intenzione del presente capitolo, attenderemo ad esponere lo testo.
ape Satan, pape Satan aleppe,
Cominciò Pluto colla voce chioccia.
E quel Savio gentil, che tutto seppe,
Disse per confortarmi: Non ti noccia
La tua paura, che, poder ch’egli abbia,
Non ci terrà lo scender questa roccia.[5]
Poi si rivolse a quella enfiata labbia,[6]
E disse: Taci, maledetto lupo:
Consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è senza cagion l’andare al cupo:
Vuolsi nell’alto là dove Michele
Fe’ la vendetta del superbo strupo.
- ↑ Nel R. manca sino alla citazione di Aiistotile, e così anche nel L. XC 121
- ↑ Morbo sta nel R. e nel L. XC , 124 con miglior ragione che male degli altri Codici: avvegnachè il morbo genera il male, pesso irremediabile.
- ↑ Come il Cod R. ha difetti, così avverto mancargli tutto questo periodo.
- ↑ La Vind. e i Cod. rispondenti hanno estranea; il fastidiosa è del Rice. L’estraneo non ha conseguenza di fetente; bene il fetente è fastidioso
- ↑ V, 5. Wide ci dà poter; avemmo podesta, dunque poder; e sono con tanti anche il R e la Vind. Rimetto poi ci terrà colla Vind. e col R accettata anche dal Fraticelli, e ben giusto.
- ↑ V. 7. Witte ha quell’enfiata labbia. Qui labbia sta per faccia, la qual’è gonfia per collera; se non è che enfiata potrebbe credersi errore di scrizione, perciò col Laur. XC. 121 , col R e colla Vindelina restituisco ciò, che il Foscolo
diede, quella ec. Il Land, coi due interi dell’Università di Bologna, col BS, BP, aggiungono autorilà ad autorità per la scelta.
V. Il Pape è interjectio admirationis; quasi a dire che, quando
Pluto vide Dante vivo, chiamòe Satan demonio sotto voce di maravigliarsi e dicendo veh! veh!
2. Ė dire voce arrogata, overo fioca.
3. Dice che Virgilio per confortare Dante, disse: non ti noccia tua paura ch’elli non ha podere di nuocerti che tu non vadi a tuo viaggio.
11. Cioè in cielo, là dove santo Michele per vendetta della superbia del demonio, fece battaglia con lui, e cacciòllo giuso nell’inferno.
12. È a dire Fellone, quasi: Senza ragione superbo.
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Quali dal vento le gonfiate vele
Caggiono avvolte, poiché l’alber fiacca;
Tal calde a terra la fiera crudele. 15
Così scendemmo nella quarta lacca,
Prendendo più della dolente ripa,
Che il mal dell’universo tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio, tante chi stipa
Nuove travaglie e pene, quante i’viddi? 20
E perchè nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l'onda là sovra Cariddi,
Che si frange con quella in cui s’intoppa;
Così convien che qui la gente riddi.
Qui vid’io gente più che altrove troppa, 25
E d’una parte e d’altra, con grand’urli,
Voltando pesi per forza di poppa:
Percotevansi incontro, e poscia pur lì
Si rivolgea ciascun, voltando a retro.
Gridando: Perchè tieni, e perchè burli? 30
Così tornavan per lo cerchio tetro,
V. 13. Qui esemplifica allo irrazionabile contento di Pluto, e dico
che sicome le vele de’navilii caggiono avolte e disordinate poi che
si scavezza l'albero, così quello nemico, udito che in cielo si volea
tale viaggio, cadde a terra.
12. Siegue lo poema mostrando come scese nel quarto circolo e soggiunge che vide nuove travaglie, le quali sono perchè si scipa ad ovrare nostre colpo.
22. Cariddi è uno mare che è in settentrione, lo quale è molto percosso dal vento[1] e fallo molto ondeggiare. Or a le rive dove hae contrasto l'acqua dalla terra l'una onda si percuote coll'altra, e poi ciascuna torna là onde ella viene: sichè in quelli così fatti luoghi ha grande frangimento di venti e pettorate di onde di acqua; così dice Dante ch’era in questo quarto circolo genti che si pettoreggiavano e tornava ciascuno nella parte dond’era mosso. E soggiunge che voltavano pesi cioè petroni per forza, quasi a dire che con grande fatica faceano quel suo corso. E dice che urlavano cioè lamentavansi a modo di lupi dicendo l'una parte all’altra: perchè tieni, cioè perchè fosti avaro; l'altra parte dicea: perchè burli, cioè perchè gittasti lo tuo inordinatamente.
31. Appare nel testo come correano per quel suo circolo, pettoreggiandosi, in due luoghi oppositi; e quando s’incontravano nel detto modo si diceano quell’inno e quel metro, overo verso. Poscia si rivolgea ciascuno per l'altra parte e si scontravano ciascuno per l' altro mezzo circolo.
[p. 180 modifica] Da ogni mano all’opposito punto,
Gridando sempre in loro ontoso metro:
Poi si volgea ciascun, quando era giunto
Per lo suo mezzo cerchio all’altra giostra; 35
Ed io che avea lo cor quasi compunto,
Dissi: Maestro mio, or mi dimostra
Che gente è questa, e se tutti fur cherci
Questi chercuti alla sinistra nostra.
Ed egli a me: Tutti quanti far guerci 40
Sì della mente, in la vita primaia,
Che con misura nullo spendio fèrci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
Quando vengono a’due punti del cerchio, *
Ove colpa contraria li dispaia. 45
Questi fur cherci, che non han coperchio
Piloso al capo, e Papi e Cardinali,
In cui usa avarizia il suo soperchio.
Ed io: Maestro, tra questi cotali
Dovre’io ben riconoscere alcuni, 50
Che furo immondi di cotesti mali.
Ed egli a me: Vano pensiero aduni:
La sconoscente vita, che i fe’ sozzi.
Ad ogni conoscenza or li fa bruni;
In eterno verranno a li due cozzi;[2]55
- ↑ Hora che leggesi nel R è voce ancora viva in Lombardia Cispadana.
- ↑ V. 55 La prima scelta mi è avvalorata da BS, da BP e dai due Cod. interi dell’Univeisità di Bologna.
V. 37. Segue lo poema Dante mostrando che quelli che hanno a tal pena dalla sinistra parte erano chierighi e poi domandò s’elli furono clerici. 40. Risponde Virgilio che furono guerci, cioè indiritti della sua mente nella prima vita, cioè al mondo. Soggiungendo a sua risposta che la voce loro assai dichiara, ma dice: abbaia, quasi in dispreogio di loro parlare ch’ènno sicome cani, e che senza misura fenno loro spendii, cioè che ritennero dove si doveva spendere, e dienno là dove non bisognava, e dice che quelli che non hanno coperchio, cioè di capelli, che hanno cherica, funno papi e cardinali: soggiungendo che in quelli ch’hanno tale condizione s’annida molta avarizia.
49. Poetando procede in suo capitolo, come appare nel testo, e soggiunge che, quando risurgeranno al die del giudicio, li avari risurgeranno coi pugni chiusi a dimostrare ch’hanno tenuto lo soperchio; li prodighi risorgeranno con li crini, cioè con li capelli, mozzi, a mostrare ch’hanno speso, cioè gittato lo soperchio: dicendo, come appare nel testo, che mal dare e maltenere sono
[p. 181 modifica] Questi risurgeranno del sepulcro
Co’ pugni chiusi, e questi co’ crin mozzi.[1]
Mal dar e mal tener lo mondo pulcro
Ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
Qual ella sia, parole non ci appulcro. 60
Or puoi, figliuol veder la corta buffa
De’ ben, che son commessi alla fortuna,
Perchè l’umana gente si rabbuffa.
Che tutto l’oro, ch’è sotto la luna,
E che già fu, di queste anime stanche, 65
Mai non potrebbe farne posar una.[2]
Maestro, dissi lui, or mi di’ anche:
Questa fortuna, di che tu mi tocche.
Che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?
E quegli a me: creature sciocche; 70
Quanta ignoranza è quella che vi offende!
Or vo’ che qui la mia sentenza imbocche[3]
Cotai, lo cui saver tutto trascende.
Fece li cieli, e die lor chi conduce.
Sì che ogni parte ad ogni parte splende, 75
- ↑ V. 57. Col pugno chiuso ha la comune. Col Lana cui seguo sia il Cortonese.
- ↑ V. 66. Quantunque il Bu rinforzi la scelta dei quattro fiorentini, quel poterebbe inusitato me la fa ora scartare. Il Cod di Bagno ha potrebbe far posar pur una, ch’è già migliore; la presa ora è dal Codice Cortonese.
- ↑ V. 72. Leggo col Cortonese. Il Cod. Filippino e l’ed. di Jesi hanno tu mia sentenza imbocche.
quelli vizii ch’hanno condotti loro a tal battaglia. E questo dare
e tenere è solo de’ beni esteriori cioè ricchezze, com’è detto.
V. 61. Qui Virgilio dispregia li beni esteriori, dicendo che sua bontà ed aiutorio dura poco, e come beni sono sudditi alla fortuna, la quale li dispensa come a lei è ordinato da colui lo cui savere tutto trascende, cioè da Dio.
64. Qui dispregia suo aiutorio, dicendo che tutta la ricchezza mondana non potrebbe acquietare tal corso come hanno quelle anime ed hannolo acquistato per la ditta ricchezza nel mondo: e però dice: corta buffa, cioè che non si estende oltra questa vita.
67. Qui dimanda Dante Virgilio che è fortuna. 70. Qui risponde Virgilio ponendo lo credere e lo oppinare dei mondani essere sciocco, quasi bestiale e senza vero.
73. Qui dice Dante ch’è una intelligenza ch’hae a mover così le ricchezze, come le altre intelligenze le cose naturali [1].
[p. 182 modifica]Distribuendo ugualmente la luce:
Similemente agli splendor mondani
Ordinò general ministra e duce,
Che permuttasse a tempo li ben vani,
Di gente in gente e d’uno in altro sangue, 80
Oltre la difeusion de’senni umani:
Perchè una gente impera, e l’altra langue,
Seguendo lo giudicio di costei,
Ched è occulto, come in erba l’angue.
Vostro saper non ha contrasto a lei : 85
Ella provvede, giudica e persegue
Suo regno, come il loro gli altri Dei.
Le sue permutazion non hanno triegue:
Necessità la fa esser veloce;
Sì spesso vien chi vicenda consegue. 90
Quest’è colei, ch’è tanto posta in croce
Pur da color che le dovrian dar lode.
Dandole biasmo a torto e mala voce.
V. 84. Qui esemplifica che lo ordine, overo scienzia di fortuna è alli
intelletti umani cosi occulta come in erba l’angue. Questa occultazione è ad sensum, ad intelletto non è; e però che gli uomini sono disposti più alle sensitive ragioni che alle intellettuali, però gli è
fortuna molto ignota.
85. Qui tocca la condizione di fortuna che è ignota al savere de’mondani; e però non possono contrastare a lei. 88. Qui mostra come sempre è in movimento e però per conseguente le mondane ricchezze hanno poco e corto stato; e però dice un proverbio: terzo grado poco gode di ricchezza. 91. Qui mostra come li filosofi da qui adrieto hanno diversamente oppinato che l’uno la tira in una parte e l’altro in l’altra, lo terzo ad uno altro modo, lo quarto tutto diverso da quelli: sichè a trascinare una cosa in cotanti modi non è se non a dire di porla in croce là dove tutte le parti si sottraggeno dal mezzo.
93. Altri che dicono ch’ella non fa quello ch’ella dee, che a uno cattivo dà ricchezza che non la spenderà, e uno che la saprebbe spendere lasse inope e povero.
Ivi. Qui scusa la fortuna che s’ella desse le ricchezze a quelli che le spenderebbono vertudiosamente, ella non sarebbe fortuna ma sarebbe natura, perchè ’l sarebbe a benessere del mondo, perchè la natura provede in necesssariìs: e così s’ella facesse poveri li cattivi, similemente ella sarebbe natura perchè natura non sovrabonda, perocchè natura non è fortuna. Certo è che natura non è fortuna perchè di natura è scienzia ed adovrasi in libero arbitrio; di fortuna non è scienzia e secondo l’autore lo libero arbitrio non ha contrasto con lei. I
[p. 183 modifica]Ma ella s’è beata, e ciò non ode:
Con l’altre prime creature lieta 95
Volve sua spera, e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta.
Già ogni stella cade, che saliva
Quando mi mossi, e il troppo star si vieta.
Noi ricidemmo il cerchio all’altra riva 100
Sovra una fonte, che bolle e riversa
Per un fossato che da lei diriva.
L’acqua era buia assai più che persa:[2]
E noi, in compagnia dell’onde bige,
Entrammo giù per una via diversa. 105
Una palude fa, che ha nome Stige,
Questo tristo ruscel, quando è disceso
Al piè delle maligne piaggie grige.
Ed io , che di mirar mi stava inteso,[3]
- ↑ Qui R. ha un passo più ampio che non si trova in altri Cod.: «Qui risponde Virgilio a Dante, e dice: che Dio ha decretato una intelligenzia sopra le ricchezze, la quale intelligenzia guida e muove e conduce le dette ricchezze, e così come le altre intelligenzie hanno a muovere le cose naturali»
- ↑ V. 105. Colla Vind, e il Rice, (con cui stanno il Land. BS DP e i duo interi dell’università di Bologna) mi accordo e col Witte in assai meglio che in molto e perchè di più bel verso, e perchè più vera dizione. Il Laur. XL, 7 ha tinta assai.
- ↑ V. 100. Restituisco per amor della gramatica di mirar al luogo in cui i quattro col Becchi posto avevano a rimirar, e BV del mirare; e ritengo figurata la ellissi dell’atto: il Land. BS e BV il Laur. XL, 7. il Cassin. e altri concorrono a darmi ragione
V. 94. Qui mostra l’autore che per oppinione che s’abbia, la verità non si move.
97. Poi ch’ha trattato della pena delli avari e prodighi, descenden in lo terzo grado, overo circolo, là dove punisce e stimola li iracondiosi, e per voler mostrare sollicitudine dice che ogni stella che montava quando si partinno, sì se occasava, cioè andava a ponente, altro non è a dire se non che fine che Dante ebbe veduto queste cose della prima partita eran trapassate sei ore ch’è lo quarto del circolo.
100. Dice ch’andò dall’una riva del circolo all’altra, perch’era partita da una acqua, la quale usciva da una fontana molto strania e bogliente, ch’andava verso giuso, cioè verso lo centro; la qual acqua passava sopra un pantano che è appellato Stigia cioè tristizia; e quando è apresso una città che trova nel quinto circolo, ha nome quell’acqua ruscello che cambia nome come fanno molti fiumi, che fino a uno luogo hanno un nome, poi da lì innanzi n’hanno un altro. Ruscello è quasi a dire sanguinolento.
104. Mostra che suo viaggio era pur verso lo centro. Ivi. Cioè , onde oscure e nere.
109. Qui tocca delli iracundiosi che sono per la giustizia di Dio posti in quel pantano overo fango , li quali non pure s’offendeano con mani, ma eziandio colle teste accozzandosi insieme, e con li denti si mordeano a membro a membro.
[p. 184 modifica] Vidi genti fangose in quel pantano, 110
Ignude tutte e con sembiante offeso.
Questi si percotean, non pur con mano,
Ma con la testa e col petto e co’ piedi,
Troncandosi coi denti a brano a brano.
Lo buon Maestro disse: Figlio, or vedi 115
L’anime di color cui vinse l’ira:
Ed anche vo’ che tu per certo credi ,
Che sotto l’acqua ha gente che sospira,
E l’anno pullular quest’acqua al summo,
Come l'occhio ti dice u’che s’aggira. 120
Fitti nel limo dicon: Tristi fummo
Nell’aer dolce che dal sol s’allegra,
Portando dentro accidioso fummo:
Or ci attristiam nella belletta negra.
Quest’inno si gorgoglian nella strozza, 125
Che dir nol posson con parola integra.
Così girammo della lorda pozza
Grand’arco tra la ripa secca e il mezzo,
Con gli occhi volti a chi del fango ingozza:
Venimmo appiè d’una torre al dassezzo.
V. 115. Qui li fa noto Virgilio che questi così fatti funno quelli che al mondo funno vinti da ira; soggiungendo a sua notizia che anche sono genti[1].sotto l'acqua nera, le quali per le loro percussioni, romori , e biastemmie faceano pullulare l’acqua, cioè gorgogliare, si che si potea imaginar lor movimento.
121. Dice quello ch’elli diceano, cioè: noi siemo fitti nel limo cioè nel pantano perochè fummo tristi nel mondo, in lo quale luce lo dolce sole che con li suoi raggi rallegra l'aiere: usammo accidioso fummo, cioè smisurato e oltraggioso volere; e questo è ira, sichè mo ci attristiamo. E gorgogliavano questi a tal modo che la dolente acqua non li lassava profferire la parola intera.
127. Compie suo capitolo mostrando che grande quantitade di gente erano quelli che aveano li gozzi, cioè le gorghe piene di tal puzza e fango. E infine terminò suo viaggio apresso una torre. Vero è che inanzi che fosseno ivi, come appar nel seguente capitolo, sì se ne avidono e fenno considerazione per alcuni segni che videno di quella.- ↑ Questa voce Genti, fu restituita col testo di Dante a bene intendere
Nota. L’Ottimo ha di Lana chiosa quanti è dal v. 1 al 10; e dal 28 al 50.