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Inferno - Canto VII Inferno - Canto IX
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VIII.


Poi che infine del VII capitolo ha trattato l’autore delli iracondiosi, in questo ottavo capitolo intende trattare delli arroganti e superbi; e punisce quelli in lo pantano di Stigia ma più verso lo mezzo che non sono puniti li iracondiosi, tutti infangati a modo di porci e pieni di puzza e di vituperio. E mette che per quella palude è una navicella, la quale porta l’anime alla città di Dite, che è città dello inferno; e per nocchiero è uno ch’elli apella Flegias, quasi a dire flagellatore, lo quale quando vide Dante e Virgilio, credette ch’elli fosseno anime dannate, e venne per portarli giuso; sichè quando fu alla riva, entrono questi in quel navilio e così andonno alla città. Vero è, come apparirà nel testo, ebbeno intoppato un fiorentino, lo qual fu nel mondo superbo [1]ed arrogante. Poi seguendo suo poema mostra che le mura di tal cittade pareano fósse; altro non vuol dire se non che la città è in circolo più basso e più vicino del centro. E per le grandi fiamme di fuochi che vi sono dentro, per metafora vi pone torri come hanno le chiese de’saracini, ch’hanno nome meschite. Poi tocca della quantità delli spiriti inimici, li quali stanno suso le porti aspettando le anime malnate; e soggiunge che si amiravano d’ello perchè non era ancora morto. Infine pone come non volleno far grazia a Virgilio che senza tenzone potesse entrare nella città, per la qual cosa covertamente se ne turbò Virgilio. Circa le quali cose è da notare che questa torre che pone Dante in lo principio di questo capitolo con quelle due fiamme di sopra, hae per allegoria a significare lo vizio della arroganzia, del qual nascenno quelle due maniere d’ira che sono sopradette. Quel pantano che sì li appena, hae a significare che si come volseno sogiogare altri indebita ed irragionevolmente, così sono subiugati e puniti da dispettosa e fetida cosa, com’è loto over fango. Quel Flegias che è si veloce e corrente galeotto, hae per allegorìa a significare lo desiderio dell’arrogante, lo quale è così pronto ad adirarsi ed appetere vendetta. La città, la quale è murata, hae a denotare che quelli, che entro vi sono posti, sono costretti in tal modo che mai non v’è rimedio a poterne uscire fuori: sichè sono imprigionati dentro da quelle mura. [p. 186 modifica]Circa la quale differenzia di luogo murato e non murato è da notare che la giustizia di Dio punisce li peccati che li uomini fanno[2] per incontinenzia, cioè che si lassano vincere alle passioni corporee[3] come lussuria, gola etc. quelli li commettono per malizia, come sono gli eretici, epicurei etc.; o quelli li fanno per bestialitade, come desperati e sodomiti etc., quelli che li commettono per incontinenzia, siando nel mondo sì se ne castigano, e però la giustizia di Dio li punisce e stimola in luogo più largo e non costretto da mura; quelli che commettono per malizia son posti dentro dalle mura quasi a dire ch’ell’è peccato incurabile: quelli che commettono per bestialitade sono tanto in odio a Dio, che la sua giustizia li martira in lo mezzo del mondo dentro alla detta città. È chiamata quella città Dite, che è interpretata cittade di colpa e di peccato[4]. Li rimedii che sono alla arroganzia e alla superbia si sono quatto: primo pensare alla vita mondana, ch’è finitiva e la quale è terminata per la morte che è tanto sicura e senza riparo[5].

Secondo, pensare a Lucifero a’suoi seguaci che furono espulsi dal Paradiso per arroganzia e superbia. Terzo, pensare a quelli che edificonno la torre di Babel che caddeno in confusione credendosi montare in li cieli.

Quarto, pensare alla espulsione di Adamo ed Eva, cioè dal Paradiso per la sua arroganzia etc.[6].

Poich’è detta la intenzione del presente capitolo, è da esponere lo testo.

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Io dico seguitando, ch’assai prima
  Che noi fussimo al piè dell’alta torre
  Gli occhi nostri n’andâr suso alla cima;
Per due fiammette che i’ vedemmo porre,[7]
  E un’altra da lungi render cenno, 5
  Tanto ch’a pena il potea l’occhio torre.
Ed io mi volsi al mar di tutto il senno: *
  Dissi: Questo che dice? e che risponde
  Quell’altro foco? e chi son quei che il fenno?
Ed egli a me: Su per le sucide onde 10
  Già puoi scorgere quello che s’aspetta,
  Se il fummo del pantan nol ti nasconde.
Corda non pinse mai da sè saetta,
  Che si corresse via per l’aere snella,
  Com’io vidi una nave piccioletta 15
Venir per l’acqua verso noi in quella,
  Sotto il governo d’un sol galeoto,
  Che gridava: Or se’ giunta, anima fella?
Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a voto,
  Disse lo mio signore, a questa volta: 20

  1. Ecco alcune differenze di Codici; Leggiadro Vind. ― Legiatro, L. XC ll5 Bizzarro, il Ricc. lo ho corretto col L. XC, 121 che mi parve più giusto.
  2. Racconcio col Codice Di-Bagno ciò che non potei prima con codice niuno.
  3. Passioni corporali R.
  4. Questo passo scorretto nel L. XC, 115 e nella Vind. fu corretto colla scorta del Codice R., col Laur. XC, 121, e col Laur, XL, 36.
  5. Corretto col R. e i Codici Laurenziani.
  6. Il Codice Riccardiano, che sebbene scorretto mi aiutò infinite volte, ha queste voci «e come elli funno cacciali del paradiso terrestre».
  7. V. 7. Ripongo Mi volsi in vece di Rivolto; perchè il verbo mi indica il modo, e il participio lo stato; e qui il volgimento è in atto. Ho dalla mia i BS , BP il Laur. XL, 7, e i due Cod. interi dell’Università Bolognese.

1.Sicome è chiaro nel testo che ’avideno della torre e delle due fiamme. 5. Cioè una nella città , la quale hae a denotare che li peccati dentro della città si affanno per alcun modo a quelli di fuori, cioè che sono dependenti da arroganzia e superbia. 7. Cioè a Virgilio domandando ch’erano quelle fiamme e chi erano quelli che le faceano. 10. Quasi a dire: quelli segni son fatti per a Flegias. 13. Qui mostra la velocità del corso di Flegias, dando per esempio che corda d’arco non scoccò mai così saetta. E soggiunge che lo nocchiero usava a loro lo dittato ch’agli altri usava dicendo: mo se giunto: quasi a dire tu non puoi scampare. 19. Qui mostra la effettiva e pronta provisione di Virgilio, ch’ebbe così apparecchiata la risposta dicendo al detto nocchiero: tu non avrai altro che la fatica di trapassarne per questo loto, cioè per questo pantano.

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  Più non ci avrai, se non passando il loto.
Quale colui che grande inganno ascolta
  Che gli sia fatto, e poi se ne ramarca,
  Fecesi Plegiàs tal nell’ira accolta.[1]
Lo duca mio discese nella barca, 25
  E poi mi fece entrare appresso lui,
  E sol, quand’io fui dentro, parve carca.
Tosto che il duca ed io nel legno fui,
  Secando se ne va l’antica prora
  Dell’acqua più che non suol con altrui. 30
Mentre noi correvam la morta gora,
  Dinanzi mi si fece un pien di fango,
  E disse: Chi se’ tu che vieni anzi ora?
Ed io a lui: S’io vegno, non rimango;
  Ma tu chi se’, che sì sei fatto brutto? 35
  Rispose: Vedi che son un che piango.
Ed io a lui: Con piangere e con lutto,
  Spirito maledetto, ti rimani:
  Ch’io ti conosco, ancor sie lordo tutto.
Allora stese al legno ambe le mani: 40
  Perchè il Maestro accorto lo sospinse.
  Dicendo: Via costà con gli altri cani.
Lo collo poi con le braccia mi cinse,
  Bacciommi il volto, e disse: Alma sdegnosa,
  Benedetta colei che in te s’incinse. 45
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
  Bontà non è che sua memoria fregi:
  Cosi è l’ombra sua qui furiosa.
Quanti si tengon or lassù gran regi,


  1. V. 24. Witte prese ed hanno si la Vind. e sì il R Fecesi Flegiàs nell’ira accolta, e così hanno il Landiano, BS BP; ma io col BV aggiungo tal che aggiusta il verso senza quel brutto accento, e fa corrispondenza col quale, e mi aiuta anche il Laur. XL, 7.




V. 22. Qui descrive la inordinata volontà e non quieta delli offiziali dello inferno, li quali quando non possono nocere, sì si reputano essere ingannati e forzati.

25. Segue lo poema soggiungendo ell’ era nuovo carico; quasi a dire: io sono solo ell’ ho composto tal poema. E però tal naviglio diversamente in quella volta andava ch’ ello non soleva.

31. Qui aduce per esemplo la vita superba ed arrogante d’uno Filippo Argenti fiorentino, lo quale non ebbe mai alcuno atto di vertude nella sua prima vita, ma sempre fu superbo ed arrogante. E poetizzando mostra che ’l lasciò tutto fangoso. E soggiunge, introducendo suo detto la persona di Virgilio, che molti saranno a tale strazio messi che sono nella prima vita grandi e possenti.

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  Che qui staranno come porci in brago, 50
  Di sé lasciando orribili dispregi !
Ed io: Maestro, molto sarei vago
  Di vederlo azzuffare in questa broda,[1]
  Prima che noi uscissimo del lago.
Ed egli a me: Avanti che la proda 55
  Ti si lasci veder, tu sarai sazio:
  Di tal disio converrà che tu goda.
Dopo ciò poco vidi quello strazio
  Far di costui alle fangose genti,
  Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. 60
Tutti gridavano: A Filippo Argenti.
  E ’l Fiorentino spirito bizzarro *
  In sé medesmo si volgea co’ denti:
Quivi il lasciammo, che più non ne narro:
  Ma negli orecchi mi percosse un duolo, 65
  Perch’io avanti intento l’occhio sbarro:
Lo buon Maestro disse: Omai, figliuolo,
  S’appressa la città che ha nome Dite,
  Co’ gravi cittadin, col grande stuolo.
Ed io: Maestro, già le sue meschite 70
  Là entro certo nella valle cerno
  Vermiglie, come se di foco uscite
Fossero. Ed ei mi disse: Il foco eterno,
  Ch’entro l’affoca, le dimostra rosse,
  Come tu vedi in questo basso inferno. 75


  1. V. 53. Azzuffare in vece di Attuffare è correzione giusta del P.Sorio vista in alcuni Cod. ma non scelta dal Witte.


V. 52. Qui vuol mostrare Dante ch’a sua disposizione d’animo dispiace tale abito di vizio, togliendo per autorità quel che dice Aristotile in lo libro dell’Etica: De amicis peccantibus quamdiu sanabiles sunt, est amicitia adibenda et auxiliandum ut reciperent salutem amissam. E certo lì era che ’l sopradetto era dannato, e però usò contra esso blasfemia, come appare nel testo.

64. Qui segue Dante suo poema mostrando come s’apressono alla città della colpa e del peccato.

66. Sbarro, cioè apro.

67. Qui li dice Virgilio del nome della città e della condizion de’ cittadini ed abitanti di quella.

70. Meschite sono le chiese dei Saracini, sicome è detto, li quali per li loro peccati sono perduti, sichè a simile le torri della città di Dite, sicome lavorieri di perduti, puonno aver nome meschite.E soggiunge che sono vermiglie, quasi a dire che la loro materia è ignea, come appare nel testo.

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Noi pur giugnemmo dentro all’alte fòsse,
  Che vallan quella terra sconsolata:
  Le mura mi parean che ferro fosse.
Non senza prima far grande aggirata,
  Venimmo in parte, dove il nocchier, forte, 80
  Uscite, ci gridò, qui è l’entrata.
Io vidi più di mille in sulle porte
  Dal ciel piovuti, che stizzosamente
  Dicean: Chi è costui, che senza morte
Va per lo regno della morta gente? 85
  E il savio mio Maestro fece segno
  Di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno,
  E disser: Vien tu solo, e quei sen vada.




V. 76. Segue suo poema mostrando come giunseno nelle fòsse, le quali circondavano la città, e dice che le mura li pareano fòsse, sicome è detto; altro non vuol dire se non ch’erano in più bassa regione.

82. Qui vuol mostrare ch’è di grande circuito lo compreso di quella cittade, alla quale si segue che molti saranno li abitanti d’essa. Dice seguitando che vennero in luogo dov’era lo porto di quel navilio il quale li portava[1]: e soggiunge poetizzando che ’l nocchiero non amorevilemente li parlò, ma gridando li disse: uscite fuori; questo è lo passo.

82. Qui mostra la sollecitudine ch’hanno li nemici di Dio in danno della umana spezie : e soggiunge che molti si maravigliavano, e insieme parlavano maravigliandosi, come Dante era vivo, manifestando nel testo la pietade della loro condizione sì insieme, come eziandio alle anime umane quando dice: stizzosamente.

86. Segue suo poema mostrando la somma provisione di Virgilio, il quale per la sua benignitade e benivolenzia, volle essere amezzadore[2] tra Dante e ’l disdegno de’ demoni.

88. Qui mostra che la contenenza provisa acquieta e amorta la folle voglia: ma nel testo non vuol mostrar più temperanza di ciò ch’abbiano li demonii che solo a lui dènno parola ch’andasse, e contra Dante disseno che tornasse s’elli sapesse, però ch’era stato sì ardito. E soggiungeano a suo ditto ch’ello, cioè Virgilio, rimarrebbe lìe, e questo per merito ch’elli l’avea fatta compagnia e scòrtolo per tal cammino.

Circa la quale malivolenza e guerra ch’è tra lo demonio e lo mondo, è da considerare tre casi, in li quali lo demonio nuoce.

Lo primo è per forza: sicome quando ello fiere lo uomo in li corporali membri, come aviene molte volte per scontra di notte, o

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  Che sì ardito entrò per questo regno. 90
Sol si ritorni per la folle strada:
  Provi se sa; che tu qui rimarrai,
  Che scorto l’hai per sì buia contrada.




per folgore o per movimenti d’alcuni corpi, come pietre, arbori ecc., quali sono mossi talvolta da esso, e percuoteno nello uomo, e per consequens li fanno lesione.

Lo secondo è per impression d’imagine e spezie visive, le quali elle nella fantasia umana produrrae per lo quale elle ingannerae l’uomo, così dice san Gregorio: diabolus autem opprimendo rapit; aut insidiando circumvolat ; aut suadendo blanditur, aut minando terret, e questo fa in proposito che minacciava e Virgilio e Dante; aut desperando frangit e questo volea fare per romper e lo buono e affettuoso proposito di Dante; aut opprimendo decipit, e questo volea fare, ma non li fu concesso per la divina grazia, la quale li mandò lo messo come apparirà inanzi.

Lo terzo è che ’l demonio inganna in quattro modi l’uomo. Lo primo modo è confortando l’uomo che faccia un bene, ma confortalo ad intenzione che nascano molti mali, i quali siano perdizione dell’anima sua: siccome ch’elli conforta uno instabile uomo, che entri in una religione acciò ch’elli n’esca e diventi un’apostata[3]. E per questo primo modo voleano ingannare Dante dicendo: quel sen vada, che quasi questa licenzia che li dava aveva apparenzia di bene, e che non li volseno nuocere; e la loro falsa intenzione era che rimanesse smarrito e senza duce e compagnia a ciò che si perdesse.

Lo secondo modo è confortare di fare un male sotto spezia d’essere bene, siccome conservare alcuno da qualunque danno, spergiurarsi per esso. E per questo secondo modo volleno ingannar Virgilio credendo lui trovare fievole e inscio, quando disseno: vieni tu solo, quasi a dire: tu tratterai lo bene del tuo compagno, avegnachè mal sia lassarlo solo. E la loro intenzione era solo a discompagnarli a ciò che dante perdesse speranza.

Lo terzo modo è di sconfortare lo bene sotto cagione di bene acciò che male non se ne segua, come disconfortare una limosina acciò che non se ne segua vanagloria. E secondo questo terzo modo volleno ingannar Dante, quasi a dire: elli è savio, elli vede bene che non può andar più innanzi senza danno: ma acciò ch’elli non lo riceva, solo se ne torni. E la intenzione loro non era quello che sonavan le parole che per bene di lui se ne tornasse, ma solo da torlo ed oviarlo dal cominciato viaggio.

Lo quarto modo è ch’elli disconforta lo malo acciò che si caggia in peggio; siccome disconfortare di mangiare intemperato e di vegliare temperato a ciò che lo uomo se ne astegna tanto ch’elli cagia in indiscrezione e stultizia, come aviene per troppo digiuno e per

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Pensa, Lettore, s’io mi sconfortai[4]
  Nel suon delle parole maledette: 95
  Ch’io non credetti ritornarci mai.
O caro duca mio, che più di sette
  Volte m’hai sicurtà renduta, e tratto
  D’alto periglio che incontra mi stette,
Non mi lasciar, diss’io, così disfatto: 100
  E se l’andar più oltre c’è negato,
  Ritroviam l’orme nostre insieme ratto.
E quel signor, che lì m’ avea menato.
  Mi disse: Non temer, che il nostro passo
  Non ci può torre alcun: da tal n’è dato. 105
Ma qui m’attendi; e lo spirito lasso


  1. Il Cod. Riccard. ha dato al testo difettoso le voci: il quale li portava.
  2. Il Cod. L XC. 115, ha mezano. la qual voce è propria ma non singolare.
  3. Tutto questo periodo s’è acconcio col’aiuto del Codice Riccardiano.
  4. V. 94. Il Witte, e il Landino, hanno Pensa, lettor, se io mi sconfortai ma se elidiamo il se io il verso è zoppo: doveva scriver Lettore come hanno BP e BV, e si raddrizzava. Eglino fecer bisillabo io, modo pessimo di elidere sebbene di molti.




troppo vegliare. E per questo quarto modo similemente volseno essere tentati, quando dice: provi, se sa, quasi a dire: elli vorrà adovrare lo suo sapere si negli estremi, ch’elli cadrà in peggio, e per consequens sarà decepto ed ingannato.

V. 94. Qui seguendo suo poema se conquere e lamenta di sua aversitade, mostrando che le sopradette parole aveano toccato quello ch’elli quasi era desperato, nè non credea mai tornare suso, cioè a salvazione: poiché s’è compianto col lettore, si recita quello che sua lingua espose al suo conducitore, rammemorando che più volte era stato in pericolo, o che lo suo aiuto[1] l’aveva salvato, soggiungendo che non lo abandonasse, e se pur suo poder non fusse d’andar innanzi, che’l tornare adrieto gli era a grato.

103. Come appar nel testo dice Virgilio a Dante che la grazia che s’hae da Dio creatore, non li puote essere tolta da creatura.

106. Cioè riprendi speranza e vigore e ciba, cioè nutrica lo spirito affannato di quelli cibi ch’hanno mestieri alle tentazioni predette, promettendoli ch’elli non lo lasserà lie disconsolato: li quali cibi è da sapere che in primo sono centra lo primo caso lo segno della santa croce, lo qual santo segno hae a rammemorar la passion di Cristo, per la quale ellino, cioè li demonii, furono relegati nell’ inferno, e toltoli e tritatoli la sua superbia ed arroganzia, che volleno tenere serrade le porte infernali, le quali per Cristo furono aperte e rotte, quando discese al limbo, dicendo: tollite portas, principes, vestras, etc. E però, se per quello, che per l’effetto che si seguio di tal passione, ella, cioè la croce, è arme centra li demoni e tolleli la possanza del nuocere. Seguisce effetto di tal passione alla spezia umana quando bene la considera in prima che le tolle

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  Conforta e ciba di speranza buona
  Ch’io non ti lascerò nel mondo basso.
Così sen va, e quivi m’abbandona
  Lo dolce padre, ed io rimango in forse; 110
  Che sì e no nel capo mi tenzona.
Udir non pote’ quello ch’a lor porse:[2]


  1. La sua aida, cioè aita, leggono il Cod. Riccard. e il Laurenz. XC, 121.
  2. V. 112 Witte scrisse Si porse. Si domanderebbe: da chi? Non è d’uopo. Dice il testo: lo non potei udire ciò che Virgilio porse a loro; qui il Witte, pare, non bene




li sette vizii mortali; cioè per lo scritto che dicea: Rex Judeorum, essere a tal condizione, come che inchinò lo capo, questo dovrebbe ogni superbia raumiliare; ancora la estensione delle braccia, quasi invitando i peccatori che l’andasseno ad abraciare; e l’abraciare diviene da grande amicizia e da amore, le quali cose opponeno alla invidia. Avarizia fuga la detta passione considerando come ne fu largo che volle spendere lo suo corpo per recomperare e absolvere dalla pena eternale. E più ancora che ne lassò lo predetto corpo e sangue in lo misterie del sacramento della messa, lo qual noi possiamo vedere e comunicare a nostra posta. Denno eziandio tòrre l’ accidia quando pensiamo che non fu pigro in largirne tal donosquando disse: spiritus mitem promptus est etc. Similmente allora rispondea alli perseguitatori umilemente quando disse: si male locutus sum testimonium perhibe de malo etc. Ancora la gola considerando la pozione che li fu data, cioè fele ed aceto. E per consequens la lussuria, quando consideriamo la piaga ch’elli ebbe nel costato: con ciò sia cosa che quella passion della piaga del costato fu nel sangue, e lussuria è ed adiviene per soverchia abondanza di sangue.

Sichè a proposito, e la passione e ’l segno di quella, come li effetti sono odiati dalli demoni, e però il luogo dove sia quel segno, lo demonio non può nuocere. Contra lo secondo caso si è per cibo orazione, e temperatamente usar cibi e sonni; che la orazione induce lo uomo a contemplare con Dio e con li suoi santi, la quale contemplazione libera l’uomo da imaginazioni pericolose ed ingannevoli; ancora temperanza in lo vitto che a chi usa distemperatamente sì in poco come in troppo sonni e cibi, ascendono fumositadi al celebro, per le quali si formano spezie diverse nella fantasìa, e deviano lo intelletto dalla veritade e dritta via.

Contra lo terzo caso si è per cibo la scienzia ragionevile e dritta, la quale abuia ed esclude ogni inganno in cognizione che possa esser fatto all’uomo, che per scienza sì naturale come revelata si cognosce ogni effetto e fine di ciascun atto. E però chi l’ha, può essere difficilmente ingannato.

V. 109. Qui segue suo poema mostrando quando dice sì e no che non era molto fermo: e soggiunge ch’era attento della vista poiché non potea per la distanzia udire loro accoglienza. E dice che chiuser le porte quasi mostrando discordia.

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  Ma ei non stette là con essi guari,
  Che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari 115
  Nel petto al mio signor, che fuor rimase,
  E rivolsesi a me con passi rari.
Gli ocelli alla terra, e le ciglia avea rase
  D’ogni baldezza, e dicea ne’sospiri:[1]
Chi m’ha negate le dolenti case? 120
  Ed a me disse : Tu, perch’io m’adiri,
  Non sbigottir, ch’io vincerò la pruova,
Qual ch’alla difension dentro s’aggiri.
  Questa lor tracotanza non è nuova,
  Che già l’usaro a men segreta porta, 125
La qual senza serrarne ancor si trova.
  Sovr’essa vedestù la scritta morta:
  E già di qua da lei discende l’erta,
  Passando per li cerchi senza scorta,
Tal che per lui ne fia la terra aperta. 130


intese o cadde in inganno di gramatica. Bene corretto BU, il parmigiano 18 e il Landiano; il parmense I, 104 e i BP, BV hanno per cattiva scrizione potti per potei. II parmigiano del 1375 ha potei.

  1. V. 119 Scrivo baldezza e non baldanza registrando col Land.




V. 117. Qui tocca lo modo della ritornata di Virgilio verso lui, la quale era non molto balda, e dice che tenea gli occhi alla terra quasi pensando e provedendo. E soggiunge ch’erano rase le sue ciglia di baldezza, e ne’sospiri venia conquerendosi di tale contraddizione.

121. Qui mostra l’essere ricordato e in memoria di Virgilio, lo qual non era alterato da ira per l’offesa a lui fatta, ma confortando il porse sicurtade, dicendo che pur vincerebbeno lor prova.

124. Qui aduce per esemplo che cosi cagieranno di questa prova come altra fiata fenno, quando la volseno centra Cristo, lo quale li ruppe le porti che di sopra ha viste come nel terzo capitolo si contiene dov’era scritto: lassate ogni speranza voi che intrate. E però dice Virgilio a Dante: sovr’essa vedest’tu la scritta morta[1]; soggiunge che già è dentro da questa porta rotta un messagio dal cielo, lo qual farà sie che per lui sarà aperta la porta, lo quale non viene con scorta, ma sanza compagnia. Sanza, quasi a dire: elli vene con tale allegazione che non li può essere contraditta.

E qui si termina l’ ottavo capitolo.

  1. Questo passo creduto fattura di più e male scritto avevo posto in nota; visto il Cod Di-Bagno, e ho rimesso al testo. Il tratto dell’iscrizione manca al Laur. XC, 121; a questo, al XC, 115, al Cod Di-Bagno e alla Vindelina mancano le parole da e però fino a scritta morta che trascrivo dal Ricc. 1005.
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