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Questo testo fa parte della raccolta Scelte opere di Ugo Foscolo


DISCORSO

della

RAGIONE POETICA

di

CALLIMACO





I. Esporrò l’economia di questo componimento risalendo alla natura della poesia, e specialmente della lirica. Questo poema, che per lo suo metro corre sotto il nome di Elegia, racchiude quasi tutti i fonti del mirabile e del passionato. È mirabile una chioma mortale rapita da Zefiro alato per comando di una novella deità, da pochi anni fatta partecipe del culto di Venere. Mirabile che sia locata fra le costellazioni, che sovra essa passeggino gli Dei, che all’apparire del sole ritornisi anch’ella in compagnia di Tetide, e fra i conviti e le danze delle fanciulle oceanine. Ma questo mirabile riescirebbe nullo ove non fosse appoggiato alla religione di que’ popoli, e poco efficace se la religione non lusingasse le loro passioni, e non ridestasse nell’immaginazione simolacri non solamente divini, ma simili a quelle cose che sono care e necessarie ai mortali. Onde questa sorte di maraviglia chiude in sè stessa anche una certa passione diversa da quella di cui parleremo da poi.

II. Leggeri conoscitori dell’uomo sono quei retori che, disapprovando la favola e le fantasie soprannaturali, vorrebbero istillare ne’ popoli la filosofia de’ costumi per mezzo di una poesia ragionatrice, la quale si può usurpare bensì nella satira, ove l’acre malignità, cara all’umano orecchio, quando specialmente è condita dal ridicolo può talor dilettare1. Ma non diletterebbe un poema che proceda argomentando, e che non idoleggi le cose, ma le svolga e le narri. La favola degli antichi trae l’origine dalle cose fisiche e civili, che idoleggiate con allegorie formavano la teologia di quelle nazioni2; e nella teologia de’ popoli stanno sempre riposti i principii della politica e della morale:... la quale sentenza dà lume a quel passo del filosofo: Essere i poeti ispirati da’ numi, e i loro versi venire da Dio3. — Onde se la poetica è tutta quanta enigmatica, ciò avviene perchè non sia conosciuta sapientemente dal volgo.

III. Non è colpa delle favole nè degli antichi se la loro religione è per noi piena di capricci e d’incoerenze, bensì dell’estensione di quella religione quasi universale, delle vicende de’ secoli e della nostra ignoranza. Che l’umana mente abbia bisogno di cose soprannaturali, e quindi i popoli di religione, è massima celebrata dall’esperienza e dagli annali di tutte le generazioni. Anzi è di tanta preponderanza questa umana necessità, che sebbene le religioni nascano dalla tempra dei popoli, e si stabiliscono per le età e le circostanze degli stati, i popoli ed i tempi prendono in progresso aspetto e qualità dalle religioni. Ora la poesia deve per istituto cantare memorabili storie, incliti fatti ed eroi, accendere gli animi al valore degli uomini alla civiltà, gl’ingegni al vero ed al bello. Ha perciò d’uopo di percuotere le menti col meraviglioso ed il cuore con le passioni. Torrà le passioni dalla società; ma d’onde il meraviglioso se non dal cielo? Dal cielo, poichè la natura e l’educazione hanno fatto elemento dell’uomo le idee soprannaturali. Quel meraviglioso che non è tratto dalle inclinazioni e dalle nozioni umane, o riesce ridicolo come le poesie e i romanzi del seicento; o incredibile e balordo come le frenesie degl’incliti ciurmadori de’ miei tempi, non dissimili a quegli statuari e pittori che rappresentassero mostri e chimere rimote dalle idee di tutte le genti; onde nè pittori sono, nè scultori, nè poeti quei che abbandonano la imitazione, madre delle arti belle.

IV. Fortunati dunque que’ popoli a’ quali toccava in sorte una religione che a tutte le umane necessità, a tutti gli eventi naturali assegnava un Iddio4. Così il sapere, il coraggio, l’amore, l’aere, la terra, le cose insomma tutte quante, erano in tutela di un nume lor proprio che avea propria storia e proprie forme. Così i benefattori degli uomini venivano coll’andare degli anni ascritti al coro de’ celesti. Cosi i poeti traeano da tutti i più astratti pensieri, allegorie e pitture sensibili, più de’ sillogismi e de numeri preste a persuadere: quello più doma e vince le menti che più percuote i sensi. Magnificavano le passioni umanizzando gli Dei, e divinizzando i mortali. La fantasia inclina ad abbellire i numi; e siccome fra gli antichi i numi erano in tutte le passioni e in tutti gli effetti naturali, così l’uomo e la natura erano luminosamente rappresentati. E quando le nostre azioni si attribuiscono agli Dei, noi ci compiacciamo perchè ci sembra che contraggano del divino. Chi de’ Greci e de’ Troiani di Omero non aspirava a’ baci di Venere poiché li avevano conseguiti Adone ed Anchise? Che se taluno opponesse, queste cose non esser vere, non gli domanderò io che mai sappia egli di vero, anzi dirò che ben mi si oppone, giacché la nostra poesia è voto suono e lusso letterario. Ma se ella fosse teologica e legislatrice come l’antica, assai meglio torrebbero i pastori de’ popoli di descrivere al volgo la sera, dicendo col poeta Stesicoro: Che il sole, figliuolo d’Ipperione, discendeva nell’aureo cocchio, acciocché traversando l’oceano pervenisse a’ sacri profondi vadi della notte oscura, onde abbracciare la madre, la virginale consorte ed i cari figliuoli5. La qual dipintura più agevolmente le virtù domestiche persuadeva a’ mortali, ch’ei le vedeano sì care al ministro maggiore della natura che in sì poca ora traversava splendidamente l’oceano. Non so se le scienze abbiano cooperato a far meno malvagia o più lieta l’umana razza, ch’io nè dotto sono, nè temerario da giudicarne. Questo vedo; che essendo destinate a pochi, ove questi volessero rompere a noi popolo il velo dell’illusione da cui traspare un mondo di belle e care immaginazioni, ci farebbero essi più sovente ricordare la noia e le ansietà della vita, dove niuno va lieto senza il dolore dell’altro. Nè mi smoverò da questa sentenza se prima non mi abbiano compiaciuto di due discrete domande. Le arti veramente utili sono figlie del caso o delle scienze? E questi chiamati comodi ed utilità perfezionati dalle scienze han questo nome per intrinseca qualità, o per la nostra opinione?

V. Tornando dunque alla poesia, la quale non è per gli scienziati, che tutto veggono o credono di vedere discevrato dalle umane fantasie, bensì per la moltitudine, parmi provato ch’ella non possa stare senza religione. Nondimeno quel poeta che volesse usare di una religione involuta da misteri incomprensibili, che rifugge dall’amore e da tutte le universali passioni dell’uomo, che tutti i piaceri concede alla morte, ma scevri di sensi, nulla fuorché meditazioni e pentimenti alla vita, che poco alla patria ed alla gloria, poco al sapere, è prodiga a sottili speculazioni, ed avarissima al cuore, che per l’ignoranza o il cangiamento di una idea, per la lite di una parola produce scismi, ed attira le folgori celesti, quel poeta procaccerebbe infinito sudore a se stesso, e scarsa fama al suo secolo6. Che ove cotal religione fosse poetica, chi potea meglio maneggiarla di quell’ingegno sovrano il quale, dopo avere dipinta tutta la commedia de’ mortali, dove la religione prende qualità dalle azioni ed opinioni volgari, non sì tosto arriva allo spirituale ch’ei si inviluppa in tenebre ed in sofismi, i quali se mancassero del nerbo dello stile, e della ricchezza della lingua, e se non fossero interrotti dalle storie de’ tempi, sconforterebbero per sè stessi gli uomini più studiosi. Nel che fu più avveduto Torquato Tasso prendendo a cantare le imprese di una religione allora armata, e riferita ad una età eroica quando le idee delle cose sono per i governi e per le nazioni assai men metafisiche. Pur gli fu forza ricorrere ad incantesimi e macchine d’altre religioni, e sotto nomi diversi rappresentare le fantasie greche e romane. Non v’ha greca tragedia senza il cielo: delle moderne certamente le streghe in Shakespeare, i prestigi nella Semiramide e nel Maometto di Voltaire l’Atalia di Racine, la fatalità nella Mirra Alfieriana, e molto più l’ira divina nel Saulle grandissima fra le tragedie, ci percuotono più di quelle che hanno per soggetto memorandi casi e passioni scevre di religione.

Vi. Ma quale delle religioni reca uso stabile e continuato nella poesia? La greca; perchè ha che fare con tutte le passioni e le azioni, con tutti gli enti e gli aspetti del inondo abitato dall’uomo. Testimonio il perpetuo consentimento di tulle le moderne letterature le quali dal diradamento della barbarie hanno richiamati gli Dei di Virgilio e di Omero. Lucrezio che appositamente persuadeva la materialità dell’anima, e la impassibilità degli Iddìi, invoca sua musa la natura7, ma idoleggiandola con le sembianze, le tradizioni e le passioni di Venere; e mentre pur vuole dissipare lo spavento del Tartaro8, illustra la sua filosofia spiegandole allusioni teologiche. La religione ebrea, che può conferire alla poesia, minacciosa e terribile fugge ogni altro argomento; e perchè non fu celebrata da molti e grandi popoli con diverse storie e vari costumi, e perchè il terrore senza la pietà, derivante dalle soavi passioni ignote a quella religione, si converte agevolmente in ribrezzo. S’io potessi domandare alle genti che verranno qual utile, e quanto diletto trarrebbero dal poema della Germania, e se la Messiade può somministrare argomenti di tragedia e di pittura come l’Iliade, forse saprei che la curiosità li quel poema, grande per questi tempi, e grandissimo per l’età morte, sarà rapita con le rivoluzioni le quali porteranno nuove religioni e nuove favelle alla terra. Cosi il Petrarca, che dell’avanzo della cavalleria errante, e delle fantasie platoniche riferite sino dagli antichi cristiani alla religione, sì gentilmente adornava il suo amore, non ebbe imitatori se non puerili tostochè quelle usanze e quelle idee soprannaturali non fondate sul cuore umano, sono state relegate ne’ romanzi dei Caloandri. Che se nella sua terra natia e con la stessa sua lingua non felici seguaci

     Ebbe quel dolce di Calliope labbro

il quale narrò con tanto pianto soave la passione universale del cuore, solo perchè è riferita a scaduti costumi e ad idee celesti poco sensibili, come può l’uomo nato fra popoli da gran tempo usciti dello stato eroico, e sotto il beato cielo d’Italia imitare la magnifica barbarie d’Ossian e tentare di trasportarne nelle sue solitudini? Ben io, volando con l’immaginazione a quei tempi, guido fra le sue montagne quel cieco poeta, e siedo devoto su la sua tomba; ma io grido ad un tempo agl’Italiani: Lasciate quest’albero nel suo terreno, poiché trapiantato tralignerà; simile a que’ fieri animali, che dalla libertà delle selve tratti fra gli uomini, appena serbano vestigi della loro indole generosa. Ardiremo noi far soggetto di poema quella religione e quelle storie se il solo dubbio che l’autore viva nell’età nostra, scema gran parte della maraviglia? La poesia non aspira ad accendere soltanto gl'ingegni che hanno l’esca in sè stessi, ma a cangiare in fervidi anche i più riposati, al che non giunge se non toccando gli stati della società nei quali gli uomini vivono, e tutte le passioni come sono modificate da’ costnmi.

VII. Ma (pur troppo!) la nostra poesia non può avere nè lo scopo nè i mezzi de’ Greci e delle nazioni magnanime; perocchè non potendole conferire le moderne religioni, nè il sistema algebraico de’ presenti governi, poco può ella conferire alla politica. Massimi fatti estraordinari destano la poesia storica, face illuminatrice dell'antichilà. La navigazione degli argonauti e la confederazione di tutta la Grecia sotto Troia hanno dato luce a’ lor secoli per avere eccitati i poeti a cantar quella impresa. Che se non a nazioni vere, ma a regali famiglie, ed a grandi volghi tende il canto del poeta, allora pare giusto l’esilio che decretava Platone. Il decadimento della poesia storica si incomincia a travedere sino da’tempi di Virgilio. Ma se i secoli gotici non ci avessero invidiate le poesie di Alceo, forse l’amor della patria e delle virili virtù suonerebbe più dalla lira di quel capitano odiator de’ tiranni9, di quel che suoni dalle imitazioni di un cortigiano, che lusinga il suo signore confessandogli di essere fuggito dalla battaglia, estremo esperimento degli ultimi romani contro la fazione di Cesare10, e fa aiutatore un Iddio del suo tradimento. È da badare che di tulle quasi le reliquie di Alceo, restate presso Eraclide Pontico ed Ateneo, si trova non dirò l’imitazione, ma la traduzione letterale11 in Orazio. Che si ha dunque a pensare sì d’Alceo come degli altri lirici, de’ quali, quantunque incontriamo rari vestigi, vivono i nomi tuttora e vivranno immortali come le muse? Quasi una intera ode si appropriò Catullo della sventurata Saffo12, imitata ad un tempo da Lucrezio13; ed ho argomenti, non opportuni a questo discorso, per sospettare greco l’Inno a Cibele14. Poco ha Virgilio di veramente pastorale nelle Egloghe che non sia di Teocrito, ed oltre i versi trapiantati da Omero e dagli altri15, il celebre libro quarto dell’Eneide sarebbe più letto in Apollonio16, se questi lo avesse cantato con la divinità dello stile virgiliano, come lo architettò due secoli prima con circostanze più passionate e più vere. Se non che e la imitazione e le adulazioni sono più colpa dello stato di Roma, che di que’ poeti, a’ quali vennero le lettere con le scienze, con la mollezza del vivere civile, e con le discipline rettoriche: e il loro ingegno fu da prima atterrito dalla tirannide, indi innaffiato dannosamente da’ beneficii. E ben Virgilio, Pollione egli altri grandi furono, se non propugnatori della patria, certamente ammansatori di quell’imperadore, non, come altri si crede, con la dolcezza delle sacre muse, ma perchè non avendolo i delitti liberalo dalla coscienza dell’infamia, comperava le lettere quasi testimoni al tribunale de’ posteri, e quest’ambizione lo distraeva in appresso dalle pedate di Silla, ch’ei cominciò a calcare dopo la vittoria, sino a patteggiare la morte di Cicerone17, ad insultare al capo mozzato di Bruto18, ed a meritarsi sul tribunale il nome di carnefice. Ma i poeti primitivi, teologi e storici delle loro nazioni, vissero, siccome Omero e i profeti d’Israele, in età ferocemente magnanime; e Shakespeare, che insegna anche oggi al volgo inglese gli annali patrii, viveva fra le discordie civili indotto d'ogni scienza, e l’Alighieri cantò i tumulti d’Italia sul tramontare della barbarie, valoroso guerriero, valoroso cittadino, ed esule venerando. Argomento della originalità delle loro nazioni, dalla quale erano stati educali quegli ingegni supremi, si è, che essendo tutti eguali nelle forze e nella tempra, sono però così diversi ed incomparabili, che non si può trovare orma di somiglianza fra di loro, nè d’imitazione dagli altri. Onde tanto questa originalità prevalse in Dante, che intendendo egli di togliersi per esemplare l’Eneide, appena si trova ombra della scuola virgiliana nella maniera di vestire i concetti. Per questi esami confermasi la sentenza, che i poeti traggono qualità da’ tempi; e viene quindi abrogato il loro esilio decretato da Platone. Perocchè se erano corruttori i poeti, doveano essere prima corruttori i governi; o il governo platonico era per istituzioni e per natura degli uomini meno imperfetto, ed i poeti avrebbero preso qualità dalla generosità e dalla giustizia e dall’idee tutte di quella repubblica. Se non che quella idea metafisica è più, a mio parere, una obliqua satira della specie umana. Poichè, dipingendo costumi e governi, liberi d’ogni passione, e dalla sola ragione diretti, e però impossibili non solo, ma nè alti pure ad esperimento, viene a provare che le leggi tutte devono prendere norma da’ vizi, e dalla naturale malvagità de’ mortali. E Platone stesso, perchè scriveva ad uomini greci, e non agli angioli della sua repubblica, non è forse e per l’altezza de’ concetti, e per la pittura de’ personoggi, e per la passione delle sue narrazioni, e per quell’intrinseco incantesimo del suo stile più poeta d’ogni altro scrittore, e più che non si conviene forse a filosofo? non chiama egli divini i poeti e gli stessi interpreti loro ispirati dall’alto19? Era dunque non esilio, ma ostracismo quello de’ poeti dalla sua repubblica.

VIII. Tornando alla religione, ciascuno dei poeti-teologi e storici da noi citati è pur poeta ebreo, inglese, italiano, ma Omero solo è poeta de’ secoli e delle genti. Si ha ciò forse ad ascrivere alla antichità a cui amano i mortali di congiungersi con l’immaginazione per possederla ed aggiungerla alla loro vita presente? ma gli ebrei furono contemporanei di Omero, anzi, per le loro storie, più antichi. Forse al lume che gli scrittori hanno dato a que’ tempi? sono più illustrate le storie inglesi e le nostre. Dunque è pur forza scrivere questo e quello alla universalità di quella religione omerica, che distesa a tutte quasi le nazioni da cui le moderne discendono, la reputiamo eredità degli avi; e molto più alla allegoria che quegli Iddii hanno a tutte quante le passioni ed a tutte le cose naturali. Per questa religione Omero, quel maestro di Alessandro, fu detto padre delle arti belle, e l’Iliade fonte di tragedie; ed ebbe egli quindi gloriosi discepoli in Grecia, seguiti poi da que’ latini che noi onoriamo come maestri della poesia. Uno de’ discepoli di Omero e Callimaco, sì onorato dai letterati dell’aurea latinità20, e degno spesso della imitazione di Virgilio21. Del poemetto a cui s’hanno a riferire questi principii appena abbiamo pochi avanzi rosi dagli anni: ma la traduzione di Catullo ci serba un alto monumento di quel poeta. Considerandolo si troverà pieno di quel mirabile richiesto alla poesia, perchè è fondato su la religione degli Egizi, e sull’autorità di un astronomo illustre. Questo mirabile non è, come gl’incantamenti de’ romanzieri, voto di effetto, ma fa più salde le fondamenta dello stato, convalidando l’opinione popolare che una delle madri de’ regnanti sia diva compagna di Venere. Dalla metamorfosi della Chioma trae campo per istituire un novello culto celebrato dalle vergini vereconde e dalle spose pudiche. Troppo ho scritto e più forse ch’io non voleva onde mostrare il mirabile di Callimaco, ma mi ha tratto fuor di cammino il desiderio di dire quello

Che ho portato nel cor gran tempo ascoso22,

da poi che vedo le greche e le latine lettere soverchiate in Italia dagli idiomi d’oltramonti, e mal governate da’ pedanti, cicale pasciute non d’attica rugiada, che indegnamente le insegnano.

IX. La passione, elemento della poesia al pari della meraviglia, si trasfonde in noi or dilicatamente, or generosamente da questi versi. Alletti dilicati sono quelli che derivano dall’amore, dalla carità filiale e fraterna, dalla commiserazione, dal timore, da tutte in somma le molli passioni comuni a tutte le umane condizioni. Questo poemetto n’è pieno: e più che mai quando Berenice, abbandonata, sacrifica spesse volle agli Dei, ed obliando il suo magnanimo cuore, si strugge per la sollecitudine della battaglia, e vive trafitta dal desiderio dello sposo e del fratello. E que’ lamenti sono artificiosamente e con un certo soave furore interrotti dalla narrazione de’ sacrifici, e le narrazioni interrotte dal pianto della giovinetta, finchè poi scoppiano le passioni generose da quel verso.

     — Is hau in tempore longo
Captam Asiam Aegypti finibus addiderat:


perocché la conquista della Siria e l’augurio di maggiori vittorie nell’Asia doveano lusingare l’ambizione di Tolomeo, il valore degli eserciti, i cortigiani ed il popolo. E torna il suono di questa corda nell’episodio del monte Athos, scavato per invadere la Grecia da Serse re de’ Persiani, domi poi da Alessandro, il quale gloriavasi di avere vendicati i Greci. La quale gloria ridonda a’ re di Egitto, successori di Tolomeo Lago, commilitone del Macedone, e greco egli pure. Ma queste generose passioni sono in tutti i tempi sentite da pochi. Da questo principio emerge la ragione per cui non comprendiamo la grandezza di Pindaro, che cantava in encomio de’ particolari cittadini i fasti d’intere tribù e di paesi. Quegli antichi, per lodare i privati, encomiavano le patrie; noi abbiamo necessità di disseppellire le virtù di qualche privato per poter onorare di alcun giusto elogio le nostre città.



  1. Nisi quod pede certo
    Differt sermoni sermo merus.

    Horat. lib. I, sat. 4, vers. 77.

    Verba togae sequeris junctura callidus acri
    Ore teris modico: pallentes radere mores
    Doctus et ingenuo culpam defigere ludo.

    Persius, sat. V, vers. 14.
  2. Per questo anche i dottori cristiani stimano probabili testimoni i poeti. Lactant., Div. inst. lib. I, cap. 11, — Lib. II, cap. 11. — Augustin, De consens. Evangel. lib. I, cap. 24.
  3. Plato in Ione. — Id. in Alcibiade poster.
  4. Ragioni di questa religione del Politeismo trovansi nell’Emilio di Rousseau verso la fine del lib. iv.
  5. Frammenti de’lirici greci, stampati le più volte dopo Pindaro.
  6. L’autore vorrebbe qui provare che il cristianesimo non è una religione poetica; ma a confutare l’opinione di lui basterà, senza far menzione del Paradiso perduto di Milton, della Messiade di Klopstock, e della Divina Commedia dell’Alighieri, accennare gl’Inni sacri del Manzoni, in cui con una lirica nuova, e con profetica fantasia si cantano i più augusti misteri della cristiana religione; cioè il Natale, la Passione, la Resurrezione, la Pentecoste, il Nome di Maria, e i quali sarebbero per se soli atti n chiarir falsa la sentenza dell’autore, che un poeta cristiano procaccerebbe infinito sudore a se stesso e scarsa fama al suo secolo.
  7. Aeneadum genetrix ... sino al vers. 41.
  8. Lib. iii, vers. 990 e seg.
  9. Quintil., lib. x. Orazio, lib. ii, od. x, vers. 26 e seg. Lib. {sc|iv}}, od. viii, vers. 8, ed altrove.
  10. Lib. ii, od. vii, vers. 14. Lib. iii, od. iv, vers. 27. E ne’ Sermoni.
  11. Paragona fra gli altri lo prime due strofe, od. x, lib. I, e l’ode xv, vers. 5 e seg., con i i frammenti d’Alceo stampati fra’ lirici greci.
  12. Catullo, carmen li, Longino, sezione x.
  13. Lib. III, vers. 153 e seg.
  14. Catullo, carmen LXII.
  15. Vedili tutti presso Macrobio.
  16. Lib. III, vers. 284, e continua nel lib. IV.
  17. Plutarco in Cicer. Id. in Anton.
  18. Svetonio, lib. ii, cap. 13.
  19. Plato in Ione, passim. Nel quale dialogo Socrate dice: tum quod oporteat in plurimis atque bonis poetis, in Homero praecipue poetarum omnium optimo atque divinissimo assidue vergari, neque carmina illius solum veruni etiam semper praediscere.
  20. Catullo, carm. lxiv, vers. 16. Orazio, lib. ii, ep. ii, vers. 31. Properz. lib. ii, eleg. xxiv, vers. 31. Id. ibid., eleg, vii, vers. 43. Ovid., Amorum. lib. i, eleg. xv, vers. 13, Remed. amor., vers. 759. Tristium, lib. ii, vers. 363. In Ibin. vers. 53, la quale poesia imprecativa Ovidio imitò da Callimaco.
  21. Paragona il principio dell’Inno ad Apollo col vers. 90 e seg. Eneid., lib. iii, e col vers. 253 e seg. lib. vi. Inno in Diana, vers. 56 e seg. con l’Eneide, lib. viii, vers. 419. Altre imitazioni vi saranno ch’io non so; e molte più forse ve n’era da’ tanti libri perduti di Callimaco.
  22. Petrarca

Note

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