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PROLOGO


Si autem de veritate scandalum sumitur, utilius permittitur nasci scandalum, quam veritas relinquatur.

S. Gregor. Magn. Homiliae.

Lib. I. Hom. VII, § 5.





M
CCOTI, lettor maligno, la ristampa di un libro che ti farà rizzare la chioma in capo, se l’hai; intendo la chioma, non il capo.

Il libro è cresciuto di mole e d’insolenza, e sento di qui le accuse che tu mi scagli di corrompitore della gioventù e di introduttore di nuovi iddii. Appunto l’accusa del virtuoso Anito contro Socrate. Ma io non sono Socrate e tu non sei virtuoso.

Intanto, lettor maligno, sentiamo i peccatacci di questa scuola che tu chiami nuova, benchè abbia la barba lunga come il Cantico dei Cantici.

Prima di tutto, dici, non crede a Dio.

È proprio vero? Può darsi, non te lo nego, che al Dio personale, che al Dio comestibile sotto le specie del pane azimo e del vino puro ci creda così e così; ma di qui all’ateismo c’è tanto di strada. Lo so anch’io che tra gl’inni elzeviriani ce ne son pochi de’ sacri; ma pare a te che un disgraziato perchè ha il viziaccio di scriver versi sia obbligato a credere nella immortalità dell’anima? Ma Lucrezio non ne scrisse dei bellini senza crederci? E Guido Cavalcanti che cercò se Dio non fosse? E centomila altri?

E poi, vedi, tra questi elzeviriani che ti fanno l’effetto del rosso ai tacchini, ce ne sono degli scettici, dei panteisti, degli hegeliani, dei materialisti, e chi più n’ha ne metta. Tu intanto ti cavi il cappello al Kant, allo Schelling, all’Hegel, al Moleschott e chi più n’ha ne metta. Credi che i loro studi, comunque la pensi tu, siano un progresso del pensiero umano, ed hai ragione: ma lo credi perchè scrissero in prosa. Se dubitavano della esistenza di Dio in tante ottave, poveri a loro! Tu, buon Geremia, saresti ancora seduto sulle rovine dell’arte a piangere come la fonte del Tettuccio. Dubitare di Dio in prosa, passi. La scienza, l’umanità ed altre belle cose, ne hanno bisogno pel loro avvenire. Ma dubitarne in un sonetto! Sacrilegio, non è vero? Sei logico.

Ma se invece di esser logico tu fossi cattolico, credi pure alla Immacolata che il regno de’ cieli te lo sei meritato e presta un paio di occhiali a Luigi Alberti. Critico, una volta educato, ha però il brutto vizio di non leggere il titolo dei sonetti. Ne ha portato in giro uno de’ miei, quello che finisce:


Bevendo in fresco e bestemmiando Cristo,


come meritevole di un giudizio severo. Non dico di volere un bene sviscerato alla seconda persona della Santissima Trinità, ma il titolo faceva pur vedere che il sonetto era il canto di un ebbro e la chiesa ammette pure l’advocatus diaboli! Sallustio fu un birbante, ma non è giusto giudicarlo dalla orazione che mette in bocca a Catilina. Dopo questo, signor Alberti, non scriva più versi emetici al Rospo, e pazienza se non vuol stringermi la mano che è pulita, quantunque a lei paia non lo siano le pagine che scrisse. Lasciva nobis pagina sed vita proba est. Tollera questa massima, amico mio Gnoli, che non è poi così delittuosa come tu credi e che certo è verissima. Tu poi, lettor maligno, che ci vorresti vedere coi pugni in faccia, brontola pure, ma questo gusto non te lo cavi.

Dunque la scuola nuova non è cattolica. Ma chi è il cattolico che infili un sonetto leggibile? Non citarmi il Manzoni. Infecondo da quarant’anni, è morto senatore e scomunicato.

No, non vogliamo essere nè cattolici, nè luterani, nè ebrei. Lasciaci sognare o il vago teismo de’ francesi, o il materialismo scientifico dei tedeschi, o il nichilismo buddista de’ russi. Lasciaci pensare a modo nostro, credere a quel che ci pare, anche non credere, o fammi comprare un po’ di fede da chi la vende, ma che non sia sofisticata, ed allora rinuncerò al mondo ed alla carne. Ma finchè trottando per la via di Damasco non cascherò da cavallo, lasciami andare. Se la scuola nuova non è cattolica, ha millanta ragioni per non esserlo. Fagliene invece aver millanta per esserlo e mi farò frate, magari gesuita, e confesserò le educande che me ne vorranno insegnar delle belline, le povere innocenti, quantunque per libro di premio non ricevano i nostri.

Altra scusa. La scuola nuova non parla mai della patria.

Ah, lettor maligno, come brilli, come capisci bene che questo è un punto delicato e mi aspetti al varco col fucile alla gola!

Sentimi. Dato che noi facciamo professione di dir le cose come sono, non parlare della patria può anche essere carità. Altre volte facemmo il dover nostro e certo non fummo austriacanti prima del cinquantanove per diventare guelfi dappoi e rimpiangere la santa lirica del trentuno e del quarantotto. Ora il meglio da farsi è tacere. Il Carducci un giorno scagliò un verso che rimarrà storico in faccia a chi spinse i Cairoli al calvario di villa Glori e li abbandonò alla ferocia dei crocifissori. L’indignazione gli fece saettare giambi infocati contro la commissione araldica, il battesimo delle navi, i piccioletti ladruncoli bastardi. Di’ un poco, credevi tu che il nostro bel paese producesse tante mele fradice quante ne furono scagliate addosso al povero Enotrio? Ma dovremo dunque ricantare Italia mia, dovremo mettere in rima il Primato del quale Massimo d'Azeglio si vergognava? Dovremo cantare le glorie di Lissa, le libertà di villa Ruffi, la opulenza de’ bilanci, la moralità dei ministri, la sapienza de’ Parlamenti, i trionfi che riportammo dal congresso di Berlino? Facemmo professione di verità e mancammo alla promessa tacendo: ma tacere è patriottismo. E non rimproverarci, noi piccini, se non abbiamo le audacie dell’Alighieri che trattò a quel modo gli uomini del suo tempo e la sua patria stessa. Non rimproverarci se, per carità del natio loco, abbiam chiuso Giovenale con sette suggelli. Grato m’è il sonno. Il resto lo sai.

E poi, chi ti dice che come Cassio non aspettiamo anche noi gli Idi di marzo bevendo il cecubo? Chi ti dice che nel mirto sacro a Venere non sia nascosta la spada d’Armodio?

Ricordati, lettore morigerato, che la etèra Leena fu l’amante di Aristogitone e che gli ateniesi, proprio ne’ forti tempi della potenza loro, le eressero una statua. Non c’è bisogno d’essere Catone per amare la patria e si può cantarla senza essere Catone. Il Béranger diceva


     Aux drames du jour
Laissons la morale;
Sans vivre à la cour
J’aime le scandale.
. . . . . . . . . . . . . . .
     Paix, dit à ce mot
Caton, qui fait rage;
Mais il prèche en sot.
Moi je ris en sage.
               Bon
La farira dondaine
               Gai
La farira dondè.


Senti, Catone, che bella voce aveva il vecchio patriotta?

Parliamo male delle donne; parliamo di loro come se fossero tutte... non so come dirla idealmente, ma si capisce bene.

Questa accusa poi, questo è il più bello, viene spesso dalle donne, e spessissimo dagli uomini che dovrebbero esser donne. Logica benedetta! Le accusatrici, qualunque sia il loro sesso, sono poi quelle che strillano perchè nella civil società alle donne non si fa la parte che meriterebbero; che lamentano, ed a ragione, la inferiorità voluta del sesso femminile; che protestano colle più efficaci forme della rettorica contro la tendenza mussulmana dell’epoca, la quale fa della femina un istrumento di piacere pel maschio e null’altro. E il livello abbassato e l’istruzione e l’educazione e Cornelia madre dei Gracchi e tutti gli altri luoghi topici logori fino alla trama, sono iscritti per lungo e per largo ne’ libri polemici, gridati nelle orazioni accademiche, strillati nei convegni, urlati nei caffè. Ma che santa Maria Maddalena vi aiuti le mie donne, quando voi riconoscete che i maschi tiranni tengono abbassato il famoso livello apposta perchè non vi mettiate le brache; quando dallo Stuart Mill a Salvatore Morelli tutti riconoscono che c’è molto da fare per voi altre; e che adesso non siete il tipo della migliore delle donne nel migliore dei mondi possibili, perchè diavolo poi volete che diciamo il contrario e che mettiamo in rima le vostre perfezioni?

Dobbiamo affermare come nei libretti d’opera che la donna è un angelo? Possiamo anche farlo e la rettorica ci scuserà. Ma volete poi che diciamo che la donna non ha debolezze, non ha capricci, non ha istinti e muscoli brutali come quelli del maschio e forse peggio per cagione di quel solito livello abbassato? Grideremo calunniosa l’affermazione che molte donne profondano pel capriccio di un vestito quanto basta ad un operaio per vivere un anno e che quelle che non si cavano questo capriccio è perchè non se lo possono cavare? Diremo dunque che la signora A. è la più casta donna del mondo quando i giornali citano persino il numero della porta misteriosa dietro la quale multorum absorbuit ictus? Diremo che la signora B. è il modello delle spose quando vive con un amico divisa dal marito? O che la signora C.... ma non basterebbero le lettere dell’alfabeto, e voi tutte che queste cose le conoscete, sapete ancora che se una volta erano l’eccezione, ora fanno dei gran passi verso la regola. Dica un buon giudice, il signor Bodio che dirige l’ufficio centrale di statistica, se sono i matrimoni che crescono o le case... soggette a certi speciali regolamenti. E voi reclamate per questo la rigenerazione della donna e per questo anche quello della donna è diventato, come si dice adesso, un problema. E perchè vi lamentate dunque quando diciamo quel che sapete?

Siate sincere, donnine mie, e rispondete per noi a quei signori che ci accusano di cercare le modelle nostre nei fornici della Suburra, che non c’è bisogno di scendere fin laggiù per questo. Si capisce che non vi piaccia vedervi così fatte, ma noi non sappiamo far le funzioni della pezzuola che con tanta intelligenza svolazza sul centro degli angioletti dipinti nelle chiese: noi non sappiamo velare colle massime di Sant’Ignazio le ulceri aperte, come fanno con tanta vocazione certi collitorti, i quali, quando peccano, voltano verso al muro l’immagine della Madonna. Additiamo francamente, sfacciatamente se volete, il male che vediamo e che avete sott’occhio anche voi. Ci troverà rimedio il medico, ma alla poesia non spettò mai filtrar decotti di legno santo. Ci badi chi ci deve badare, e quelli che piangono a calde lagrime sulla decadenza della donna, si lascino dire che non sono galantuomini quando rimproverano a noi di mostrarla decaduta.

Qui saltano sul palo i critici e gridano che tutte le donne non sono così. Grazie tanto! A chi lo dite? Amo Griselda anch’io, ma parmi che anche la Belcolore possa stare nell’arte. Urlano i critici: voi ci parlate solo della Belcolore! Non so se sia vero, ma se lo fosse, scomunichiamo noi Griselda per questo? Cantatela voi e noi canteremo l’altra e tutti pari. Non vogliamo escludere Beatrice, vogliamo che sia accettata anche Fiammetta. Questa è che voi non volete.

E qui dovrei parlare di un certo signor Galassini, egregio cattolico ed insegnante nel collegio S. Carlo a Modena, il quale (il Galassini, non S. Carlo) ha trovato che la natura al suo primo offrirsi allo sguardo dell’uomo è pura e vergine; vergine alle prime ore del mattino e più tardi, ed ha trovato una filza di altre belle cose ed alcuni argomenti che non sono però da prendere a gabbo, ma ai quali tutti era già fatta la risposta nel primo getto di questo Prologo e che in fondo non si appoggiano che sopra un facile rovesciamento di tesi. Ma lascio stare anche perchè non uso trattare con chi mi dà del voi che non si dà oggi nemmeno alle Guardie di Pubblica Sicurezza; con chi dopo avermi dato, letterariamente s’intende, dell’asino e del porco per quaranta pagine infilate, dichiara poi di amarmi e di stringermi la mano.

Grazie tante, ma le mani io me le lavo.


Accusa quarta. L’arte nuova è carnale, oscena, brutale. Nientemeno!

C’è davvero una reazione forte contro le svenevolezze degli amori poetici passati che tendevano a fare dell’arte un mare di latte e miele. La donna era esclusa dalla poesia e solo ci si ammetteva un ideale di lei aereo, sentimentale, salice piangente. Questo cant, questa ipocrisia erano innalzati agli onori di canoni d’arte. Il Vittorelli trionfava, e Nice, Silvia, l’amica lontana erano le perpetue modelle. I più audaci arrivarono sino all’Elvira del Lamartine. La donna vera colle sue debolezze, la figlia d’Eva come la fece madre natura, era esclusa dal tempio dell’arte come gli scomunicati una volta; e quando ha tentato di entrarci, i leviti hanno gridato allo scandalo; e la vacuità pomposa del Guerzoni, le professeur malgrè lui, la manzonaggine accapponata di cento ipercritici che sbagliarono mestiere, la stitichezza dogmatica di mille dilettanti illetterati, si sono inacidite come le pulzellone al cospetto delle nozze altrui. Hanno lordato gli Dei e inverniciato frate Cristoforo: hanno trullato che il gran Pane è morto proprio nel giorno della sua risurrezione, brontolando che la sposa era brutta perchè natura negò loro la capacità di esser mariti sul serio. Povero ideale sceso agli uffici del mantello di Noé, tolga il senno italiano che Sem e Iafet a forza di trascinarti piamente su tutte le vive libertà del secolo, facciano di te un cencio, spregiato anche dai rigattieri e dai preti!

Il rimedio, lo ammetto, è radicale; ma diceva il Botta, per raddrizzare un arboscello storto non basta costringerlo alla linea verticale, bisogna piegarlo dalla parte opposta; ed a chi ha lo stomaco pieno di schifo per abuso di dolciumi, un po’ di pepe di Caienna glielo accomoda ed un sorso di gin vince più nausee che non faccia il laudano.

Oh, non ci rinfacciate l’Aretino! Non siamo noi che scriveremo la Vita di Maria Vergine e la Parafrasi dei sette salmi penitenziali. Giulio III e Carlo V non penseranno mai a farci cardinali. Ad altri le sacre elocubrazioni e le simpatie della chiesa. È facile inquinare gli album con versi squisitamente macaronici come questi:


Ed è perciò, caro signor Stecchetti,
Che per quanto in bei versi il sudiciume
Vo’ che si spazzi e dal balcon si getti.


Ma la onesta scopa non bada che ne spazza anche di quelli che per la loro innocenza meritarono l’inserzione nei giornali pedagogici tra le favolette ed i problemi d’aritmetica. Non bada, la pia scopa, che spazza quattro quinti delle letterature europee antiche e moderne. Quasi tutta la poesia greca dovrebbe cedere allo spazzatore, tutta la latina, compreso Virgilio ed il famoso pastore Alessi, quasi tutto il nostro trecento, tutto il Risorgimento. Cari miei, ci vuol altro che una scopa benedetta, ci vuol altro che tirare in ballo il Giusti che scrisse anche lui la Mamma educatrice e l'Ave Maria, o il Parini che fece tanti versi per nozze.... Leggeteli.

Ma lo scopatore santissimo qui m’interrompe. Nella sua virginea modestia egli crede che tutto questo libro sia stato scritto contro di lui. Nella sua cattolica morale crede lecito sparger copie di un sonetto scritto contro di me, ma non crede che io possa stampare la chiusa. Nella sua manzoniana rassegnazione scrive lettere dolciastre dove si mostra in aspetto di S. Sebastiano martire, ma non dice se le freccie che ha in corpo siano di ferro buono.

Che cosa rispondere a chi non risponde?

Amen.

Ma quel che gli scotta più di tutto è il sentir dire che il suo sonetto è macaronico. Eppure quel sonetto non è la sua cosa migliore. La migliore è l’Ode alla regina fatta a concorrenza del Carducci, l’Ode dove il poeta sparge il crine di una donna nientemeno che di fronde, siano pure apollinee e dove si trovano versi di così squisita fattura ed armonia come quello che comincia ― Voi pur pugnaste per la patria ecc. ― Fattura però che non riesce nuova a chi ricorda ― Pietro Paolo pittor pinse pittura Per poco prezzo ecc. ― Via, via, scopatore santissimo, Enotrio almeno i versi li sa fare. Vittorio Imbriani e lei stanno di casa molto più sotto, molto più basso. Lo creda.... oh, lo creda!

Un altro idealista militante grida:

Lungi questa del secolo
Smania del ver proterva
Che a la terrestre Venere
L’arte e la vita asserva:

Benone! e tre strofe dopo:

O viva, viva il turbine
Che l’anime frementi
Rapisce insiem nell’estasi
D’ingenui abbracciamenti!


Come negli occhi tremuli,
O amore, folgoreggi;
Ne’ baci ardenti ed umidi
O amor, come spumeggi!

E avanti di questo passo. Ma intendiamoci bene, per amor di Dio! Volete degli amori ideali che spumeggino ne’ baci umidi! Ebbene, ci stiamo anche noi! Volete, ebbri d’amore,

.....vivere
Tra le carezze e i canti?


E noi lo stesso. Ma allora perchè ci chiamate poi sacerdoti di un putrido verismo? E voi che cosa siete dunque?

Come fa, per esempio, il signor Vitale (Jacopo del Fanfulla) a fulminare i poveri veristi nella prefazione della sua Primavera e poi a scrivere un volume di versi, molti dei quali perfettamente veristi con le sue brave donne così così, i letti osceni, i mariti cornuti e tutti gli accessori ormai andati a male del teatro dove recito anch’io? Mi sembra che non stia bene inalberare una bandiera bianca per coprire un carico di pepe come quello e farlo passare franco alla dogana. Ma che cosa è questo? È paura di saltare il fosso? Saltatelo, benedetti voi, che avete le gambe buone; non restate di là cogli spedati.

L’arte nuova è corruttrice. Baie! L’arte non ha mai corrotto nessuno; e, in caso, è sempre l’ambiente sociale che corrompe l’arte. Non è il Meissonier che ha messo alla moda i quadri piccoli; sono i committenti che grandi non li vogliono. È forse decaduta la pittura perchè non si fanno più affreschi con cinquecento figure come Michelangelo li faceva? Ma nessuno li cerca. Non si scrivono più opere melodiche come le scrivevano il Cimarosa ed il Rossini? Ma il pubblico fischia le cabalette. Non ci sono più architetti? Ma oggi si contentano di un maestro muratore. Non si scrivono poemi? Ma non li leggerebbe nessuno. Non si fanno tragedie? Ma le fischiano. Ah no, non è colpa dell’arte se il pubblico divora certe edizioni e certe altre non zoppicano fino alla terza che coll’aiuto de’ professori compari i quali le fanno comprare agli scolaretti come libri di testo. No, non è colpa dell’arte se il pubblico legge più volontieri una brutta traduzione dell’Assommoir che i sempiterni Promessi sposi. Non è colpa dell’arte se si applaudono i proverbi seminudi, se si comprano i quadretti di genere e le statuette senza foglia di fico.

Anzi chi vuol andare contro la corrente è immediatamente e ferocemente punito. Così al mio Cavallotti toccò lo sfregio immeritato di sentirsi lodare dal (con licenza) Barone Mistrali per l’ode che precede la traduzione di Tirteo e per la lettera al Prati.

Un’altra lode della stessa fabbrica di concimi è toccata a Leopoldo Marenco che scrive al Bersezio dolendosi che i critici non parlino a modo suo e che il pubblico legga gli scrittori che non piacciono a lui. L’autore di tanti celebri idilli comici chiama mostricciattoli questi poveri autori e li copre con un monte di contumelie biliose per finire dicendo che « i critici di maggior sapere e di maggiore acume, quando non tristi per natura o per cieca passione, sono i meglio riguardati a giudicare le opere altrui. La loro stessa severità non è scevra di rispetto; franchezza, non brutalità; gentilezza di forma, non villanie ». Se fosse vero, padre Zappata! E non vi domanderemo quali siano i sani e forbiti scrittori che nessuno legge e che i librai non tengono in bottega. I libri del De Amicis non peccano di verismo e le donne che ci sono dentro sono scrupolosamente vestite; eppure quei libri si comprano e leggono. Perchè non accade lo stesso degli altri sani e forbiti scrittori? C’è dubbio che la corruzione umana sia giunta fino a non amar più l’arte noiosa? Ci pensino i sani e forbiti scrittori che si dolgono di non trovar più un cane che li legga. Potrebbe darsi che, una volta almeno, avessi ragione io.

In Italia pochi anni fa non si leggevano che libri francesi, ed il nostro paese era lo sbocco pel quale i romanzieri di terza e di quarta classe scolavano i loro libri ebeti. I lettori vivevano d’importazione e papa Gregorio, buon’anima sua, era entusiasta dei romanzi di Paolo de Kock. Libri italiani non se ne vendevano e non se ne vedevano. Perchè? Come sta invece che un po’ di emancipazione dal gran mercato di Parigi, un po’ di risveglio letterario è venuto appunto quando gli scrittori non si sono più ostinati di andare contro la corrente a forza di tragedie, idilli, romanzi storici ed inni sacri? Come è dunque che la gran morta, l’arte italiana, dà segni di nuova vitalità e non solo combattiamo noi, ma i seminaristi sconquassati dai superiori mi scrivono asinità anonime o pseudonime e dalle case di salute per le malattie che sapete, o dalle prigioni, mi vengono sonetti in difesa della morale? Come è dunque che bisogna essere alienati per non gridare eppur si muove! e il pubblico, il pubblico stesso, così indifferente una volta, prende gusto persino a queste inutili polemiche d’arte e legge i giornali fatti apposta, anche quelli (copio dal vero) che sostengono la letteratura plasmatrice dei popoli, che combattono i mirmilloni da trivio e da bordello ed il cinismo spudorato ed altre galanterie, segno della educazione degli scrittori?1 È perchè gli artisti hanno cominciato a capire che il segreto del trionfo sta nel sapersi ispirare all’ambiente in cui si vive, alla verità di oggi non a quella di cinquant’anni addietro.

Hanno capito che in arte bisogna essere del proprio tempo o morire. Poco importa se l’ambiente non è l’ottimo; in quello bisogna vivere. Poco importa se la società non è sana; nel morbo stesso è il segreto della evoluzione, la genesi dell’avvenire. Ogni anello della catena deve essere al suo posto sotto pena di soluzione di continuità. Fate il pubblico raffinatamente bestiale ed avrete Anacreonte e Batillo; fatelo religioso e guerriero ed avrete i cicli cavallereschi; dategli entusiasmi ed odi patriottici ed avrete Rouget de l’Isle, Riego, Körner, Berchet; ma non tentate mai di rammodernare Omero, di correggere il Decameron, di processare Madame Bovary. Perdereste il tempo, poichè in verità vi dico che non è l’arte che fa la società, ma la società che fa l’arte a sua imagine e somiglianza.

E poi, dov’è questa gran corruttela? Via, si può giurare che Gustavo Droz colle sue allegre descrizioni di notti matrimoniali non ha corrotto e non corromperà nessuno. Ma intanto i buoni Filistei proibiscono alle ragazze di leggere le poesie dello Stecchetti e le conducono invece a vedere le nudità nei musei, dove, poverine, benedicono l’autunno che fa cascar le foglie. Siate logici come lo fu Ferdinando II e seppellite la Venere Callipygos e la Danae del Tiziano. Bruciate le vanità come il Savonarola e laudate con cembali bene sonanti chi mise le brache ai dannati di Michelangelo e la camicia di rame alla Giustizia del sepolcro di Paolo III. Anche qui il Nettuno di Giambologna fa pompa della sua virilità in piazza; perchè non gli mettete almeno le mutandine che la Questura prescrive ai bagnanti? Un cardinale logico lo fece, ma voi proibite alle ragazze la Fernanda del Sardou e le conducete a prendere il fresco all’ombra della virilità del Nettuno! No, Filistei carissimi, Michelangelo, Tiziano, Guglielmo della Porta, Giambologna, non corruppero nessuno e, fatte le dovute proporzioni, non corrompiamo nessuno nemmeno noi. La corruzione non nasce dalle nostre nudità, ma dalla vostra ignoranza.

Ci son delle ragazze a questo mondo: debbo riconoscere questa dolorosa verità. Ma perchè ci sono, si dovrà scrivere soltanto per loro e soltanto in modo che nel leggerci non si sentano l’acquolina in bocca? È pretender troppo. Disse bene Ferdinando Martini: maritatele una volta queste benedette ragazze, che possiamo finalmente dire le cose come sono! Il meglio poi è questo, che, se facciamo dei libri tanto innocenti da poter esser letti da queste eterne ragazze, ecco che i babbi non li comprano più; i babbi pudicissimi che nel Furioso cercano solo il canto XXVIII e chiusi in una biblioteca studiano minutamente le sole incisioni dei trattati di ostetricia. Salvo, si capisce, ad urlar poi che libri di quella fatta dovrebbero star chiusi a chiave e che il Furioso non può essere tollerato che nelle sconciature dell’Avesani.

Purtroppo le ragazze ci sono, ma per educarle alla castità immacolata ed alla meritoria ignoranza del mondo e delle sue pompe ci sono educandati apposta. Credo anzi che il professore Giovanni Rizzi (giacchè bisogna che gli diamo la soddisfazione di nominarlo, dice il Chiarini), uno de’ più strenui e continenti avversari della scuola nuova, diriga qualche cosa di simile. Mandatele da lui le ragazze, in nome di Dio, che le educherà e troverà loro un casto marito, ma lasciateci parlare coi babbi a modo nostro. E siate sinceri, Filistei, ditelo una volta che la virtù per voi è l’ignoranza del vizio. Ditelo una volta che per voi, quando la benedetta ignoranza se n’è andata, non c’è altro rimedio che l’isolamento, l’infibulazione e les maudits engins, fermoirs ecc. vituperati dal signor di Brantôme.

Audio quid veteres olim moneatis amici:
Pone seram, cohibe. Sed qui custodiet ipsos
Custodes? Cauta est, et ab illis incipit uxor2.

La verità vera è che siamo tornati alla battaglia dei romantici e dei classici, (c’è anche l’avvocato Stoppani di Beroldinger3) con questo di guadagnato che la polemica non è più un cas pendable e che nessuno dei combattenti, per ora almeno, cerca di fare intervenire in suo favore la Polizia4. Meno, s’intende, quegli ingegnosi avvocati di Genova che, non avendo cause da difendere, fanno istanza al Procuratore del Re perchè sequestri i libri ed i giornali veristi, pronti poi a difendere gli autori e i gerenti in tribunale. Si dice che a tanto eccesso di comica furberia abbia riso persino il crocifisso della Corte d’Assisie. Figuriamoci i veristi!

Eppure anche il buon Stoppani di Beroldinger e gli amici Demosteni del fòro genovese dovrebbero capire che c’è qualche cosa che si rinnova dappertutto, anche nella letteratura del nostro paese. Si sente pure che il mosto fermenta e vuol diventar vino, perchè quello degli anni passati è diventato aceto. La fermentazione è tumultuosa, è vero; si sviluppano gas malsani, ma l’intimo lavoro c’è, e il vino lo berremo. Se non sarà Falerno, pazienza; almeno sarà vino schietto.

Lo sanno tutti che nelle battaglie non si misurano le sciabolate: e’ colpi non si danno a patti, disse il Cellini. I romantici esageravano gli scheletri, i classici esageravano gli Dei; i nostri idealisti rifuggono adesso con orrore sacro dal mangiar carne il venerdì, i veristi affettano di mangiarne per dispetto il venerdì santo. Questi, per necessario istinto, badano solo alla apparenza delle cose senza sillogizzarci sopra e cercano appunto gli argomenti e le forme che valgano a far spiccare la loro reazione contro l’abuso del sentimentalismo. Quelli si attaccano agli antichi come a tavole di naufragio, a quegli antichi, a quel Manzoni, che alla lor volta furono gridati rivoluzionari e corruttori dell’arte. Dimenticano che anche il Metastasio a’ suoi tempi fu un ribelle e pronosticano la fine del mondo ad ogni tentativo: si chiudono nella loro ortodossia con un non possumus intransigente e sognano un Sillabo letterario cogli anatemi di rito.

Dove andiamo? grida spaventato Luigi Alberti.

Alle battaglie della libertà.

Arcadia nuova. Ma chi in Italia ha il coraggio di parlare d’Arcadia? Ma non è in Italia che le accademie hanno lasciato un tipo, un campione monetario al quale si ragguagliano ancora tutti i valori del mercato artistico? In letteratura la moneta tipo è ancora il ducato del secolo XVI o lo zecchino del XVIII. E nelle altre arti, chi non conosce i pittori che hanno per unità di valore Raffaello Sanzio, gli scultori che ragguagliano tutto al Buonarroti o al Canova, i musici che adorano il solo Rossini forse perchè ignorano la Messa di Papa Marcello e il Palestrina? E questo accade pure in Italia, nel paese già dichiarato ingovernabile e dove regna ancora sovrano delle lettere Sua Santità Papa Leone X!

Disse Hegel che tutto diventa, ma qui non lo sa nessuno. Le dottrine evoluzioniste, venute da poi, rimasero lettera morta pei nostri critici, i quali si ostinano a misurare il Carducci colle unità lineari del tempo del Manzoni, senza capire che perdono il tempo, proprio come quella brava gente (perdonami Galileo Galilei) che sciupava la carta confrontando l’Ariosto col Tasso. Possibile che non si capisca come le donne moderne non possono star dentro alle forme cavate sulla Venere Capitolina, che il modo di sentire di Garibaldi non può esser quello di S. Francesco d’Assisi, che il misurare con la misura stessa le opere vecchie e le nuove è come misurare l’anno col computo di Giulio Cesare dopo la riforma gregoriana? Le accademie stabiliscono la fede artistica come i concilii la religiosa, senza vedere che anche in arte la fede uccide la ragione. Ci rimproverano di non aver nessuna fede e poi ci dicono accademici: urliamo che ci vuole un po’ di libertà, ce la prendiamo, e ci dicono arcadi. Santa pazienza!

L’amico mio De Gubernatis, che s’immagina anche lui (chi sa perchè?) di essere cordialmente odiato da questa scuola nuova, ci avverte che siamo fuori del seminato. Infatti l’anno 1878, così fecondo di lieti e tristi avvenimenti, non produsse che pochissimi versi buoni sopra le cose accadute. Ma non erra egli credendo la poesia d’occasione scaduta in Italia? Eppure non c’è matrimonio, non c’è laurea, non c’è guarigione, non c’è messa nuova o quaresimale vecchio che non faccia cantare molti poeti e parecchi bene. Deve però ridursi a questo la poesia? Questa non sarebbe Arcadia della peggiore?

Gli epigoni della santa e benemerita Arcadia sono quelli che non vogliono adattarsi a credere che ci sia qualche cosa al mondo capace di cambiare. Costoro non possono supporre che oggi ci sia una tendenza ad un paganesimo riformato, ad un naturalismo, ad un panteismo materialista, al quale possono scagliar coppie di calci tutti i gesuiti del mondo, ma che cresce tutti i giorni, ingigantisce e rovescierà i templi e gli idoli dei nonni. Pare eresia agli accademici il sostenere che il cristianesimo muore e che ogni religione rivelata è bugiarda. Tornano piangendo ai lontani ricordi dell’infanzia quando la mamma li faceva inginocchiare sulla culla bianca e sussurravano colle mani in croce i misteri della salutazione angelica. Tornano ai sogni beatifici che rallegrarono la loro prima comunione e si chiudono nella memoria de’ sentimenti passati come se solo in quelli potesse trovarsi la poesia e la bellezza. E c’è nella religione e nell’arte un mare morto, un mare di laudanum dove le anime pie che non hanno forza di combattere le tempeste di altri mari cercano la pace rassegnata, la rinuncia quietista del Deus dedit, Deus abstulit. Annegano là i cattolici desiderosi dell’ozio del pensiero e gli islamiti che aspirano alla eternità del kief. E quando gli uomini e la società si destano e si muovono, queste religioni immobili e fataliste declinano insieme e rovinano, meteore pallide, pianeti spenti, colle arti da loro ispirate.

Ma per gli accademici nostri tutto questo non è vero. La religione cattolica guadagna anzi proseliti ogni giorno, s’inalzano chiese, appaiono Madonne e la signorina Luisa Lateau ha le stimmate. Certuni poi che hanno le carie del rispetto umano nell’ossa, cattolici che si vergognano di esserlo, che il giorno credono di essere tretragoni ai pregiudizi, e la notte quando tuona, si fanno il segno della croce sotto ai lenzuoli, cercano altrove che nella religione i sillogismi per confonderci e per convincere il prossimo che è opera scellerata il pensare fuori delle massime cristiane ed il ribellarsi alla teosofia del Rosmini. Non credono che nell’arte latina e cattolica, e se vi provate a dire che anche i ribelli hanno affetti, gioie e dolori li vedrete levarsi e gridare che il Parini, il Manzoni, il Giusti non pensarono, non sentirono, non soffersero così. Sentirete gridare che non ci può esser arte materialista, che non si può concepire il bello colle teorie dello Spencer, che il sublime non può esser capito dagli allievi dello Schiff. Così Orazio è darviniano e gli arcadi siamo noi!

E gli accademici si sfiatano e sudano. Per loro non muta nulla, per loro non ci può esser arte fuori delle tesi accademiche e ne conosco parecchi che, a letto, scrivono commoventissime canzoni sui dolori dell’esilio perchè l’accademia trovò che dopo il Berchet l’esule era un bell’argomento. Ma non vedete dunque come galoppano le idee che vituperate? Non vi accorgete che c’è qualche cosa che vi trascina pei capelli (ne avete?), che vi trascina nelle lotte di Satana? Non vedete le transazioni che fate tutti i giorni colla vostra fede, le toppe che tutti i giorni dovete ricucire alle vostre candide stole? Ecco l’autore della Morale cattolica morto fuori dell’ortodossia cattolica, ecco il povero Aleardi che cantava l’immortalità dell’anima costretto a nominare professori che non ci credono, e il Prati farsi un Dio che vada d’accordo col regolamento del Senato e lo Zanella ammalare per la necessità di cantare fuori del Sillabo e tutti, tutti, tutti, fino ai minimi, fino ai pedagoghi di ragazze, dover scappare dalle prigioni della fede cieca, intera, romana, per vivere e per scrivere. Esiste l’arte anche fuori dalle formole del Gravina e del Soave e c’è tanta poesia nella coda di un fauno quanto nel piviale di un arcivescovo. Properzio è poeta quanto e più del Manzoni, e voi, cavallari crudeli, non potete più caricar di legnate i puledri che vogliono correre i prati, trovar nuovi pascoli e nuove vie. Maledite pure il dottore in zooiatria che li lasciò stalloni, ma persuadetevi che poeti laureati non ce ne sono più e il Senatore di Roma non può incoronare nè il Petrarca nè il Baraballo. È il popolo che incorona oggi e dovete adattarvi ai suoi gusti, alle sue leggi, alle sue libertà, ai suoi costumi per quanto vi spiaccia. Dovete scendere in campo a viso aperto e non protetti, come una volta, dal baluardo della fede, e dovete scendere in campo, qui, con noi, e non potete più disprezzare o interdire, ma dovete combattere. Venite, cattolici, a vedere che in Roma stessa vi tocca disputare sulla venuta di San Pietro: venite, figli dell’Aquinate, a disputare col Renan e collo Strauss: venite, idealisti, a sentire quanti figli ebbe l’angelica Laura: venite, venite, poichè anche voi dovete combattere per l’esistenza ed il bargello non può più definire le questioni di fede e d’arte. Non ci potete più schiacciare col silenzio e coll’indice e condannarci come parricidi perchè non accettiamo le convinzioni dei padri. Combattiamo e il Dio vostro v’ispiri la lealtà, la franchezza di chiamarvi crociati per Gesù, paladini per la croce. Combattiamo, voi per la fede, noi per la libertà, poichè anche noi abbiamo un’arte, un pubblico, una speranza, un pudore. Ma il pudore nostro non è quello santificato dal vostro Stanislao Kostha e chiosato dal vostro Sanchez. Abbiamo un’arte anche noi, ma, come la bocca d’Ezechiele, anche la nostra non rifugge dalle lordure. Siamo chirurghi, non Dame del Sacro Cuore.

Oramai però anche i poveri idealisti l’hanno capita e, disperati del loro avvenire, si danno affatto alla religione che mi pare in brutte acque anche lei. È il destino delle peccatrici che diventano vecchie. E pazienza lodassero l’Altissimo e la morale cattolica, ma si mettono alle pratiche del culto esterno. E pazienza anche questo, ma rubano il mestiere ai carlisti ed alla Gioventù Cattolica. La scolaresca dell’Accademia scientifico-letteraria di Milano, guidata da quel comico perfetto che è Paolo Ferrari, accompagnata da una rappresentanza di altri istituti e da due illustri professori dei quali non ricordo il nome, si recò, in pio pellegrinaggio, alla casa del Manzoni. Uno che pretende di aver fatto parte della spedizione, grida nel giornale (con licenza) del barone Mistrali:

― « ...io vi assicuro che sul primo entrare nella modesta casetta mi sentii come compreso di devozione profonda, proprio come quando una tacita prece si leva a Dio nel silenzio di un tempio sull’imbrunire della sera.

Con trepidante curiosità ho voluto vedere i minimi particolari. Non istarò a dirvi che i mobili della casa si trovano ancora al medesimo posto che occupavano quando il grande poeta era vivo e fiorente: vi dirò bensì che a un certo punto non potetti rattenermi e piansi: piansi vedendo l’umile scrittoio e il calamaio e il tagliacarte e la penna di Alessandro nostro; la penna che ha vergato eterne pagine!

Ecco sopra un tavolo il cappello di paglia e il bastoncino su cui il buon vecchio reggevasi negli ultimi anni. Ecco nell’anticamera del piano superiore un altro cappello e un mantello appesi in un angolo: si entra poi nella cameretta da letto, dove tutto è semplice e modesto, il letticciuolo, le sedie: non v’è la menoma ombra di lusso e di affettazione. ― »

Ci manca la paglia della prigione alla quale questi scomunicati realisti hanno condannato il pover’uomo per tanto tempo, e poi siamo proprio ai pellegrinaggi spagnuoli e belgi quando Pio IX era ancora al mondo! Dopo lo squarcio qui sopra c’è la tirata d’obbligo contro i veristi nani e pomposi, i quali, a quanto pare, non adoperano cappelli di paglia, mantelli, tagliacarte ecc., ma si adagiano nel lusso più sardanapalesco, dormono sulla porpora e sui petti delle donne, mangiano ananassi con salsa di tartufi, ballano il cancan dodici volte il giorno e bevono sangue di idealisti in crani di parroci. Che porci! Ha ragione quel signore di piangere dirotto come la cascata del Niagara!

Così gli idealisti come i credenti delle religioni ammalate, cominciano i pellegrinaggi! Presto vedremo l’obolo. Intanto davanti al cappello di paglia del Manzoni « ― uno degli scolari, il giovine Costa, prese la parola per esprimere, interprete dei propri condiscepoli, i sensi d’ammirazione verso l’opera del poeta e di adesione ai suoi principii di moralità e di castigatezza nella letteratura. A lui rispose il prof. Ferrari, facendo plauso ai sentimenti manifestati e affermandoli più altamente, come una protesta concorde e solenne contro le intemperanze d’una nuova scuola letteraria che si compiace del lezzo d’un verismo inverecondo.» ―

Sembra la parodia di uno squarcio di Tito Livio! Vedete di qui il giovanetto Annibale che giura odio eterno ai romani e sull’ara sta il cappello di paglia del Nume ed il gran sacerdote squassa orribilmente le famose bende candide, vestite con tanta disinvoltura dai coristi druidi della Norma. Lo studente Costa avrà certo avuto il premio in fine d’anno e certissimamente poi questa farsetta annuncia una seconda giovinezza di vis comica nell’autore della Bottega del cappellaio. Con un po’ di musica potevamo augurarci di assistere al natale del vaudeville in Italia; ma non si potè, perchè il municipio non concesse la banda e poi la tesi non la richiedeva. Peccato!

Ma via, buona gente, non è già l'idealismo che ci irriti i nervi. Ohibò! Accettiamo tutta l’arte del nostro paese, vecchia e nuova, cattolica anche, da Fra Iacopone ad Alessandro Manzoni, per quanto non siamo cattolici, nè vecchi, nè nuovi. Ma veneriamo il Petrarca, non i petrarchisti. Ben venga l’ideale quando non sia una ricetta, una falsariga, uno stampo; quando non rimpianga, come fa ne’ sonetti del prof. Rizzi la voce armoniosa de’ cigni antichi e non ci mostri, con sale più inglese che attico, la cuoca che medita di tirare il collo al canoro augello. Queste stampiglie erano vecchie sino al tempo del Pervigilium Veneris dove: Loquaces ore rauco, Stagna cycni perstrepunt: non ce le date ora come le colonne d’Ercole dell’arte. Dateci pure dell’ideale, ma non modelli da sarto per tagliarci sopra le giubbe agli studenti di liceo. Dateci dell’ideale, non del brodo lungo. E non adoratelo in una chiesa fuori della quale non ci sia salute, non lo fate lo czar di tutte le lettere che sono una repubblica. C’è posto per tutti, pel Cavalca e pel Boccaccio, pel Tasso e per l’Ariosto, pel Montaigne e pel Bossuet, pel Dryden e per lo Shakespeare, pel Klopstock e pel Goethe, e noi nell’arte non cederemo mai nè un palmo della nostra terra, nè una pietra delle nostre fortezze. Siamo gelosi di Bice come di Fiammetta, del Metastasio come dell’Alfieri; non abbiamo casta, non abbiamo tribù, non abbiamo chiesa. Tutti i poeti li accettiamo purchè siano poeti e non saremo noi che scomunicheremo le Odi barbare in nome della rima, per applaudire poi ai versi troppo sciolti del primo scalzacane che ci lecchi le scarpe.

Tutta dunque questa ribellione contro la tirannia dell’ideale, tutte queste scritture polemiche goccianti giù assiduamente dai torchi, vanno intese nel senso loro. Non è già che i combattenti vogliano la testa del nemico, non è che in nome della fotografia vogliano bruciare le madonne del beato Angelico, o in nome della sensazione rinnegare il sentimento. No. Ma anzi dicono coi fratelli De Goncourt, non sospetti certo di meteorismo ideale: «Le réalisme se répand et éclate alors que le daguerréotype et la photographie démontrent combien l’art diffère du vrai». Ma tutto questo accade perchè anche nell’arte si è voluto distinguere nell’uomo la materia dallo spirito, l’anima dalla carne, mentre l’uomo è uno; ed è perciò che noi lo vogliamo rappresentato tutto intero, nella bellezza e nella deformità, negli istinti sublimi e nei bassi, com’è, come l’hanno fatto i tempi, le religioni, le virtù ed i vizi. Vorremmo che l’amore si cantasse come tutti lo sentono, non aspirazione platonica ad un tipo, ma desiderio sublime di una donna intera, spirito e carne; di una donna vera e viva, santa o peccatrice che sia. Cercare la deformità, accarezzarla, compiacersene, è caso patologico; ma lo è altrettanto fingere che la deformità non esista. È vizio l’eccesso come il difetto, la lussuria come la castità, e poichè il nostro secolo lo sa e lo dice, vogliamo essere del secolo nostro. Vogliamo l’arte del presente, non quella del passato, non quella dell’avvenire. Vogliamo sentire come i nostri nervi ed il nostro cervello comportano, non attraverso al diaframma delle sensazioni altrui. Vogliamo amare come sappiamo amar noi, non come amarono i nostri nonni. Vogliamo insomma essere del nostro tempo, e se il tempo non è bello, non lo abbiamo fatto noi e non ce ne abbiamo colpa.

Questa ribellione non si fa dunque per detronizzare l’ideale e ghigliottinarlo, ma per farne tutt’al più un re costituzionale che divida i suoi poteri, chiuda la Bastiglia e si lasci costringere a largire la Carta. Almeno, almeno, come gli spartani ed i siamesi, ammetta un collega agli onori del trono: il vero.

Ed ecco il Cavallotti che ci crede

        Carichi di saette pei pedanti,
    Di crani e feti e aborti d’ospedal,
    Di vermi per mangiar le proprie amanti,
    D’upupe per cantarne il funeral.

ed egli, l’uomo delle generose illusioni, dice:

    Portiam le mode del vecchio Parini
    Le mode rococò d’Ugo e Manzon.

In questi versi intanto no di sicuro. E poi, adagio. Dobbiamo fare come i chinesi che ai morti illustri erigono templi dove pregano e sacrificano? Dobbiamo pellegrinare anche noi col bordone e il sanrocchino fino al cappello di paglia del Manzoni? Ci condanneremo all’immobilità di Budda e di Confucio? Ma no, Cavallotti; i grandi uomini vogliamo onorarli, studiarli, ma adorarli e copiarli, no.

Non ti ricordi dunque che i crani e l’ossa da lungo tempo hanno acquistato la cittadinanza italiana e fino da quando il tuo Berchet traduceva e chiosava nel Conciliatore la Eleonora del Bürger con grave scandalo delle parrucche italiane? Non ti ricordi dunque che proprio l’upupa che svolazza sulle croci fu uno dei rimproveri che si fecero ai Sepolcri del Foscolo, ai quali gli idealisti d’allora preferirono la cattolica risposta del Pindemonte? Non ti ricordi quel che dice il Ranalli dei Promessi Sposi ne’ suoi Ammaestramenti? E bada che gli Ammaestramenti sono libro di testo in troppi licei di questo povero regno d’Italia. Non ti ricordi di una poesia di un certo Cavallotti nella quale certi scheletri salgono sulla carrozza di certi principi? Perchè dunque tante ire? Forse perchè vuoi vestirti come il vecchio Parini? Bada, non è carnevale ed i vestiti rococò ti solleverebbero contro tutti i torsoli di cavolo che vegetano in val d’Olona. Ogni tempo ha i suoi vestiti: tanto è vero che tu non ti vesti affatto come il Parini, ma tu solo sei il sarto de’ tuoi versi e, se ti dicessero il contrario, te ne avresti a male.

Pare impossibile! Mentre dappertutto si cammina in libertà, noi sentiamo prescriverci la lunghezza dei passi come i coscritti! E non sempre i passi li vorrebbero fatti avanti. Tutti sanno che l’adorazione cieca, la superstizione, è difetto italiano. Quando l’idolo fu il Leopardi, guai a non maledire la vita ed il sole in strofe libere! Quando l’idolo fu il Manzoni, fu dovere il cucinare inni sacri in settenari; e i plagi dei Promessi Sposi! Guai a scostarsi dai modelli! Guai ad uscire dal campo arato, seminato, esaurito dai vecchi! Abbiamo ancora nelle ossa l’antica lue dei petrarchisti. Ma ditemi, per Dio, non era proprio ora di muoversi? Ma non vedete che noi, rivoluzionari, scapigliati, sanculotti, siamo ancora alle cinquantenni prefazioni del Cromwell e di Mademoiselle De Maupin? Immaginate dove sono gli altri! E con tutto questo si sentono alte le grida per la mancanza del romanzo, del teatro, della lirica, della storia, della pittura, dell’arte italiana insomma! Lo credo, io!

Guardate per esempio Leone Fortis, che ringrazio pubblicamente, intanto, pel bene che m’ha fatto scrivendo intorno alle cose mie, sia credendomi morto che sapendomi vivo. Guardate Leone Fortis che ha intelletto d’arte, quantunque nella furia delle battaglie gli avversari glielo neghino. Ebbene, è del mio parere in teoria; ma in pratica? Nell’Illustrazione italiana uno che scriveva in vece sua e con idee che egli certo non rinnegherebbe, accettava l’arte purchè fosse arte e non sconciatura, protestava di ammirare una donna scollacciata purchè bella. Ma dunque perchè combattiamo? Tutto l’odio dei nostri avversari cade dunque soltanto sui versi falsi? Ma credono che la scuola nuova sia la scuola de’ versi falsi? Ma tanti idealisti non ne fanno dunque dei così scrofolosi che gli ospizi marini non li guarirebbero? S’intende che il maggior numero de’ versi storpi sono dei veristi; poichè oggi il verismo è opposizione e chi ha qualche lite colla legge è sempre coll’opposizione e non coi carabinieri. Quando i manzoniani erano opposizione, il maggior numero di versi degni d’essere gettati giù dal Taigeto li facevano i manzoniani (ahimè! ne fanno ancora); ma era forse quella la scuola de’ versi falsi? I versi del Carducci tornano pure. Perchè il Fortis, accecato anch’egli dalla furia del combattimento, li trascina alle Gemonie?

E poichè sono col Fortis, ci sto.

Una donna di mala vita fu macellata e sparata da un beccaio in Milano. Ed ecco il Fortis che nella Illustrazione reputa responsabili dell’atroce beccheria, immaginate chi? Il realismo ed il borghesismo! È proprio il caso di ricantare:

        Je ne suis pas notaire,
        C’est la faute à Voltaire.
        Je suis petit oiseau,
        C’est la faute à Rousseau!

Tali accuse furon già fatte agli enciclopedisti ed ai romantici. Oggi le si fanno ai veristi. Ah, ma dunque il beccaio era realista e borghese? Leggeva dunque questi maledetti elzeviri? Povero me, che credevo di essere un buon avventore pel mio beccaio ed invece m’accorgo che il beccaio è il mio miglior avventore!

Leggo in un giornale milanese ― « Cronaca nera. Ieri furono eseguiti sei arresti: due per ubbriachezza, uno per contravvenzione all’ammonizione, due per rapina ed uno in persona di una donna per infrazione ai regolamenti di sanità pubblica ». Questi son dunque tutti veristi? Quanti ne arrestarono in un sol giorno ed in una sola città! E come è antico il verismo! Caino dovette esser verista perchè accoppò Abele, e Giuda certo tradì Cristo per comprare un volume elzeviriano coi trenta denari. Pel verismo Milziade tradì la patria, Appio Claudio insidiò Virginia, Nerone bruciò Roma, Teodorico ammazzò Simmaco, Ravaillac pugnalò il Re! Furon dunque veristi Gasparone, il Boggia, il Verzeni ed altri assassini illetterati! E il Passanante? Oh, se gli avessero trovato in tasca il Polemica, che belle ore mi avrebber fatto passare! Invece gli trovarono un volume del Giannetto a maggior onore e gloria dell’arte educativa!

Che rivelazione!

        Je suis tombé par terre,
        C’est la faute à Voltaire.
        Le nez dans le ruisseau,
        C’est la faute à Rousseau.

Lasciamo lo scherzo. Il Fortis porta un esempio, Giorgio Pallavicino. Il venerato patriota, nel suo ideale della patria una, trovò la forza di resistere persino a Giuseppe Garibaldi. Vedete, si dice, come l’ideale produca gli eroi mentre il verismo non produce che beccai, squartatori di donne!

Siamo sempre lì. Siamo sempre all’errore del prendere gli effetti per le cause. Nel 1860 si poteva, si doveva avere l’ideale della Italia una. Ora che questa unità non è più nè discussa nè minacciata, come faremo ad avere lo stesso ideale e cantarlo? Forse dovremo fare dei meetings per l’Italia irredenta? Ma e allora che cosa direbbero il Pungolo e la Perseveranza? Il verismo ed il borghesismo che cosa sono dunque se non effetti di uno stato sociale, momenti di una evoluzione civile? Cercate più in alto le cause che li produssero, discutete quelle, ma consentite che verismo e borghesismo esistono ora per necessità ineluttabile, che sono un prodotto di organismi sociali sbagliati, se volete, ma esistenti. Non possiamo avere alcun ideale perchè non ne troviamo più nessuno presente ed i vecchi non sarebbero più al loro posto in questo Stato, in questa società, in questa famiglia. Fate che scatti fuori una idea nuova, santa e che risponda al bisogno dell’epoca, scatterà fuori anche il cantore di questa idea, e ci saranno i confessori ed i martiri come ci furono per gli altri ideali. Ora il verismo ed il borghesismo sono al loro posto necessario e non saranno cacciati di seggio se non quando i successori saranno maggiorenni. Lasciate dunque di attribuire ai versi de’ veristi i delitti dei beccai e gli arresti per oltraggio al pudore, perchè non otterrete altro che di farli ridere questi veristi e di farli cantare:

        On est si laid à Nanterre,
        C’est la faute à Voltaire,
        Et bète à Palaiseau,
        C’est la faute à Rousseau.

Mi hanno anche rimproverato nella Illustrazione italiana la fanciullesca bizza che mi fece cacciare in un verso i fiori bianchi, i quali, a quanto pare, si possono ricordare con applauso di mezzo mondo in un epigramma alla marchesa di Pompadour, ma non in un sonetto ai critici che non sono poi intangibili e belli come lo fu la marchesa.

Ma, domando io, come si fa a non prender cappello quando un idealista stampa queste incredibili parole: « Anche a me piace il vero, ma il bello mi piace più, fosse anche un po’ discosto dal vero » e da questa eresia trae la conseguenza che è un peccato che certi libri vadano per le mani dei giovani « i quali non hanno bisogno che gli scrittori mettano loro sott’occhio il vero nella sua nudità più desolante, avendo anche troppo spesso l’occasione d’incontrarlo nella società in cui vivono ».

Vale a dire che l’arte deve tacere perchè i giovani non perdano l’ignoranza del male; e non solo, ma deve dipingere eternamente il bello, anche se un po’ discosto dal vero, ossia, in lingua povera, deve rimar bugie.

Un altro, più franco, sentenzia: « Certo il vero è un grande maestro, ma spesso poco sincero ». Cioè il vero spesso non è vero!

Si dovrà ricorrere dunque non solo alla reverenda scopa di cui dissi più sopra, ma scientemente tradire la verità per rispetto alle innocenti orecchie degli studenti di liceo. E pazienza si portassero in giro soltanto questi strampalati canoni che tutta l’arte da Omero in qua smentisce assolutamente; la bizza fanciullesca passerebbe subito. Ma quando nella Illustrazione, proprio nella Illustrazione Italiana, sotto gli occhi del Fortis, si commettono sacrilegi come quello che vi si commise poche settimane fa, altro che bizza, c’è da sentirsi addosso le furie d’Oreste.

In quella sconcezza (non trovo vocabolo più parlamentare), in quella sconcezza di quattordici versi un signore aveva il... aveva la... insomma osava domandare scusa alle signore ed alle signorine pel povero Dante Alighieri infetto anche lui di qualche taccherella di verismo!!

Ombra del padre Bettinelli D. C. D. G. riposa in pace: anche i tuoi allori sono invidiati!

No, qui non hanno che fare nè la pretesa Arcadia dei giornali ebdomadari, nè la pretesa côterie de la réclame di casa Treves: ci ha che fare qualche cosa che è meglio tacere, altrimenti la bizza fanciullesca mi torna addosso: e domando se non ho ragione?

Ma torniamo alla calma.

L’amico mio Gnoli in una recensione della prima edizione di questi Polemica, inserita nel primo fascicolo di Giugno della Nuova Antologia, si maraviglia quasi che lo Stecchetti abbia scritto un sonetto dove c’entrano affetti famigliari, dimenticando che anche nel Postuma ce n’erano dei moralissimi, e gli fa press’a poco queste domande ― « Se sei galantuomo, perchè ti fingi briccone scrivendo? e se scrivi versi da briccone parlando in prima persona del singolare, non ho io diritto di crederti quale ti dipingi? » ―

Qui, prima di tutto, c’è un errore di memoria, poichè era da ricordare come i Postuma uscirono alla luce in persona d’altri e che, dopo, l’autore, compiaciutosi della creazione della sua fantasia, si tenne il pseudonimo come un secondo nome, allo stesso modo che, fatte le debite proporzioni, Ugo Foscolo firmò molte lettere col nome dell’amico di Jacopo Ortis, Lorenzo Alderani.

Non credo poi che in quel libro ci sia nulla che una onesta persona possa desiderare di non aver fatto e scritto. Almeno io, all’infuori della morte del protagonista, accetto tutto sulle mie spalle senza arrossirne punto, e non credo che ci sia così frigido critico a questo mondo il quale ne’ suoi anni verdi non abbia condotto nei cabinets particuliers del suburbio qualche dozzina di Emme o di Caroline. Anzi credo che si dovrebbe arrossire di non averlo fatto, e Catone, che non fu di manica larga, non biasimò il giovane che usciva di dove sapete, come farebbe certo qualche Catoncino schifiltosino che m’intendo io. Ma c’è poi altresì uno di quei pregiudizi critici che gli scrittori, anche coscienziosi come il Gnoli, accettano troppo spesso belli e fatti per pigrizia di pensiero e per incosciente conseguenza di teoriche già accettate.

È moda, e dirò col Gnoli, è teorica adesso il giudicare le opere d’arte come se fossero tante autobiografie. Il Byron fu già accusato di conoscere per prova le delittuose sensazioni di Lara e del Corsaro, benchè gridasse pure: judge me by my acts. Per questo pregiudizio il Satyricon sarebbe l’autobiografia di Petronio Arbitro, il Metamorphoseos liber quella di Apuleio, il Werther quella del Goethe, e così si dica per tutti quelli che scrissero in prima persona. È proprio il caso delle donnicciuole di Verona che credettero Dante tornato davvero dall’inferno perchè scrisse in prima persona ed ebbe il viso fuligginoso.

Non vi pare che si abusi di queste deduzioni per la fregola di ricostruire un uomo intero dall’opera sua, come il Cuvier si vantava, conosciuto un solo ossicino, di ricostruire un intero megaterio scomparso? Non vi pare che queste teoriche confinino con quella del Desbarolles che dalla calligrafia di una persona pretende di indovinarne il carattere morale? Gli Inglesi si sono pentiti da un pezzo di quel Shakespeare ipotetico che s’erano immaginati, gabellando per sentimenti del poeta molti squarci messi in bocca ad un eroe qualunque: ma noi intanto facciamo peggio, considerando come storia della vita vera di Dante le allucinazioni mistiche della Vita nuova.

Questo sbaglio mi pare che derivi da una interpretazione troppo assoluta dell’oraziano:


. . . Si vis me flere dolendum est
Primum ipsi tibi; tunc tua me infortunia laedent.

Non si bada che qui si dice soltanto quello che tutti gli autori comici sanno bene, cioè che per trascinare il pubblico agli applausi bisogna sentire la parte, non già averla fatta per davvero nella vita. Oh, allora lo Schiller che razza di birbone sarebbe stato, egli che ha pur sentito e scolpito il Franz Moor ne’ Die Rauber? E la signora Virginia Marini quando recita con tanta verità la Messalina del Cossa, per chi la prendete dunque con questa teoria? Ma date voi alla parola verità lo stesso significato nell’arte che le dà il computista ne’ suoi libri? Allora siete più veristi di noi; allora sì che c’è da gridare: arte mia, buona notte!

Non diciamo che si debba scrivere soltanto quello che s’è visto, ma che si deve scrivere soltanto come se si fosse visto.

Alle altre obiezioni del Gnoli ho già risposto più in su in questa predica e confesso d’aver risposto molto prima che egli scrivesse la sua recensione.

Le obiezioni infatti, come le risposte, sono press’a poco quelle stesse che sul cadere della Restaurazione francese scambiavano tra di loro i classici ed i romantici. Il postulato dell’arte educativa, dal quale scendono tutti i corollari critici dei conservatori nell’arte, è troppo controverso per essere accettato così ad occhi chiusi, e per me, l’ho già detto, non credo tutt’al più che ad una influenza riflessa dell’arte sulla società, molto causale e molto tenue. Ho già quasi detto, che se è vero che la Marsigliese fece vincere molte battaglie, fu però la rivoluzione che fece la Marsigliese. Se non mi ammettete come causa gli entusiasmi francesi del 1792, non potrete mai, mai e poi mai, aver l’effetto di quel magico inno, nato dall’entusiasmo e non da altro, poichè l’autore, raffreddato l’ambiente, non arrivò più a tale altezza lirica, per quanto ci si provasse. E scelgo appunto il massimo esempio dell’arte educativa, perchè, quanto al resto, nessuno mi leva di capo che i giuochi si sarebbero fatti in Olimpia anche senza Pindaro, e il quarantotto sarebbe stato quello che è stato, anche senza il canto Fratelli d’Italia. L’effetto educativo di Omero, di Sofocle e di Virgilio, mi pare molto problematico, a meno che non si ficchi tra gli effetti educativi anche la stabilità che gli autori illustri danno alla grammatica di una lingua, nel qual caso il Boccaccio e il Rabelais sarebbero molto più educativi del Segneri e del Bossuet.

Nego dunque assolutamente e recisamente questa affermazione del Gnoli ― «La nostra letteratura e specialmente la nostra poesia hanno un gran merito e impareggiabile, quello di aver preparato e condotto la libertà e l’unità della patria » ― Nego, nego, nego.

Prova, amico mio, a pensare la letteratura di cui parli, portata indietro, per esempio, mezzo secolo nella storia. Che effetti avrebbe potuto ottenere ed a che libertà avrebbe potuto condurre nell’ambiente in cui si trovava? Non solo, ma come avrebbe potuto esistere fuori dell’ambiente proprio? O meglio ancora, è possibile concepire l’anacronismo di uno spostamento simile? Dunque non fu la letteratura che preparò e condusse l’Italia allo stato presente, ma furono le aspirazioni italiane che prepararono e crearono la letteratura patriottica della quale tu parli. Letteratura poi, che, salvo le opere di pochi sommi, non fu certo quella del secol d’oro come arte, e che se ottenne qualcuno degli effetti riflessi di cui parlavo, non li ottenne per la sua perfezione intrinseca, ma per l’entusiasmo che trovò bello e preparato negli ascoltatori. Ed oggi la rettorica del quarantotto ci fa sorridere, appunto perchè quell’entusiasmo giovanile non c’è più, e non c’è arte al mondo, che lo possa resuscitare colla sua sola forza, per quanto grande la si voglia credere. L’arte non ha mai modificato le aspirazioni di un popolo o di una società, ma è sempre accaduto il contrario. L’arte non ha mai condotto a nulla, tutt’al più ha condotto qualche artista all’ospedale. Ma vedete. L’arte di Giovenale fu ben terribile, e pure non guarì nessuno. L’arte de’ padri della chiesa fu ben misera, e pure il cristianesimo cangiò faccia al mondo. Ecco dunque che non è l’arte quella che corregge, che educa, che rinnova.

Ma tutto questo non è che inutile ripetizione e ne domando scusa. L’ho già detto che l’arte non fa le rivoluzioni, ma le subisce e le segue. Dico adesso, che è poi inutile volerci costringere ad essere educativi per progetto. Non solo l’arte non fermerà nessun cassiere che scappi colla cassa, e non dissuaderà alcun baggeo dal comprare cartelle del prestito Bevilacqua, ma, se ci si prova, si farà fischiare dal colto pubblico e dall’inclita guarnigione. Non ci sono le favole del Pignotti e quell’aureo libro che è il Codice penale per tenere i cittadini sulla via diritta? Lasciateci dunque in pace, e poichè ho ricordato Orazio ed una citazione latina fa un bell’effetto, specialmente ai novecento novantanove critici che non la capiscono,


. . . Sit jus liceatque perire poetis,
Invitum qui servat, idem facit occidenti.


Un signore di vista corta dice che soltanto «lavoriamo e studiamo a far l’amore», e ci rimprovera di scordare i contadini e gli operai e insomma le questioni più gravi del nostro tempo.

Pover uomo! non stuzzichi i cani che dormono, e dorma lui, sognando a suo comodo che i nostri cuori non siano capaci che di spasimare per donnine ignude. E preghi il suo Dio di non destarsi quando finite queste inutili scaramuccie verranno le battaglie vere, quando questa società ipocrita, frolla e senza cuore che noi mettiamo alla berlina nei nostri poveri canti, si troverà in faccia alla rivoluzione della giustizia. Allora egli potrebbe accorgersi che non abbiamo lavorato solo a far l’amore e che colle nostre picciolette mani abbiamo cavato anche noi una pietra delle sue fortezze. Allora egli sentirebbe quelle bocche stesse che oggi narrano freddamente le vigliaccherie e le turpitudini di un mondo in decadenza, cantare ben altri canti, levare ben altri peana! È curioso! Critici che vogliono una tesi anche in una farsa, che meritano l’Epitaffio di Atta Troll,

    ... Tendezbär, sittlich
    Religiös: als Gatte brünstig;
    Durch Verführtseyn von dem Zeitgeist:
    Waldursprünglich Sanskülotte,


non s’accorgono poi di quello che sta sotto a questa scuola verista, non vedono dove si va e dove vogliamo andare, non sentono che siamo serbati a vedere trionfi ben diversi da quelli della chiesa e della scuola del Manzoni! Non capiscono a qual rinnovamento sociale tendano concordi le scuole positive nelle scienze e nell’arte, e sognano ancora la risurrezione del cattolicismo e della metafisica! Ciechi! Volete dunque che ve li cantiamo in faccia gl’inni nichilisti? Volete dunque voi che discutete sentimentalmente il divorzio, la cooperazione, il diritto di sciopero, volete dunque che vi cantiamo in tanti endecasillabi dove noi corriamo sapendolo, e dove, inconsci, correte anche voi? Cari miei, non vi sembrerebbe di avere abbastanza voce in corpo per invocare l’ausilio del Procuratore del Re e della Benemerita Arma come fanno gli amici giureconsulti genovesi. Uno de’ miei canti è già stato in Corte di Assisie per questo, o brava gente, cui è facile gridare che lavoriamo solo a far l’amore! Ma non c’importa di esser martiri a così buon mercato. Vogliamo fare qualche cosa di meglio. Siamo giovani abbastanza per rivederci di qui a parecchi anni. Allora ci saprete dire se sotto al verismo c’era soltanto l’oscenità, o se non c’era qualche cosa di più grave. Allora ripeterete, se vi sentirete abbastanza lena addosso, sacro a tutti è il lavoro; ma badate che bisognerà lavorare sul serio.

E dopo tutte queste chiacchiere abbiate pazienza se mi resta ancora qualche cosa da dire.

Ruppi la lancia pei veristi, feci un bel castelletto di carte dove fortificai gli argomenti della scuola nuova. Ma la lancia fu di legno dolce ed il castello con un soffio rovinerà. Infatti, tutte queste distinzioni di veristi, realisti, idealisti, scuola nuova, scuola del Manzoni, e simili sonanti parole, non sono che vane apparenze, flatus vocis, imaginati e fatti apposta per leticarci sopra e sfogare il vapore battagliero che, dal Caro in qua, fuma su dai fegati letterati in Italia.

Chiacchiere.

Altro è l’intento d’un libro, altro è l’arte con cui fu scritto.

Mi pare che se facciamo una critica d’intenzione siamo fuori del campo letterario. Mi pare che sia lecito il dire che le commedie del Sardou sono perniciose alla frigidità delle ragazze, ma mi pare anche che questa non sia critica d’arte. Invece le logomachie fra i veristi e gli idealisti pretendono proprio di esser critiche d’arte, mentre sono, se pur lo sono, dispute di sole tendenze. Ma che cosa c’entra la moralità, nell’arte di un libro? Ma io nego l’arte morale, educativa, pudica, perchè la moralità, l’educazione, il pudore non sono niente affatto tropi, ritmi, ornamenti, rettorica; sono ben altro! Non confondiamo l’arte di uno scrittore co’ suoi concetti.

Quando leggete i Dialoghi de’ massimi sistemi, è il sistema copernicano che vi piace, o lo stile del Galilei? Se vogliamo fare una critica d’arte diremo quindi che l’arte dell’Aretino è più grande di quella del Vico. Se facciamo una critica etica diremo invece che il Vico è un grande filosofo e l’Aretino un gran porco. Non confondiamo dunque la forma colla sostanza. Dico bene?

Invece quegli uomini buoni che partono armati in guerra come il Marlbourough della canzonetta (mironton, mirontaine), trovano comodo rimescolare ogni cosa e nei loro consigli di guerra giudicare le tendenze invocando il nome dell’arte. La confusione è utile ma non è giusta, e il cornuto dilemma della forma e della sostanza sarà sempre là pronto a rovesciare i loro scanni curuli e i nostri castelletti di carte.

Ci sono degli autori che hanno delle cattive intenzioni? Sta bene. Ma non ne fate una scuola letteraria per carità! Non li battezzate veristi, realisti, anticristi, perchè qui l’arte non c’entra. Dite che Caio segue il Darwin, che Tizio studia lo Spinoza, che Sempronio ricorda Epicuro, ma non conduceteli al giudizio dei letterati, mentre dovreste condurli a quel dei filosofi. Dite che l’etica di molti è sbagliata, ma non dite che la poetica è spregevole solo perchè l’etica di molti non è la vostra. Cercate ne’ libri del Mamiani, nel Codice, nel Galateo, nella Dottrina cristiana gli argomenti da opporre ai loro argomenti. Cercate nell’ingegno e nella fantasia dei vostri catecumeni gli ornamenti e le vesti pei vostri filosofemi, e le poesie verginali ed i romanzi ortodossi da contrapporre agli altri. Fate commedie, racconti, giornali a tesi, ma non confondete la tesi coll’arte. Le tesi delle commedie di Paolo Ferrari sono molto più morali di quelle di A. Dumas figlio. Ma le commedie sono più belle?

Se farete questa distinzione fra la critica d’arte e quella di tendenza, ecco tutte queste controversie bizantine fra scuola e scuola cadono da sè. Guardate.

Se la critica si fa all’assunto di un libro e non all’arte, ci sono degli scomunicati che dovrebbero esser beati e viceversa. Ma se confondete tutto e sentenziate che gli idealisti sono gli autori morali ed i veristi gli immorali, dirò che le tragedie dell’Alfieri, piene zeppe di pugnali, di veleni e d’incesti, sono veriste in sentenza vostra, e le canzonette dell’abate commendator Scavia sono il prototipo dell’idealismo. E vi dirò che il rispetto, non idolatra ma giusto, che sentiamo pel Manzoni, può far dimenticare a noi ma non al Settembrini che i Promessi Sposi predicarono la rassegnazione all’Italia assassinata, ed i padri gesuiti, forse per questo, ne raccomandarono la lettura alle loro penitenti5. Vedete subito dove ci condurrebbero i confronti, per esempio, colle Confessioni di un ottuagenario del Nievo: vedete subito i bizantinismi che nascerebbero dal confronto del Iacopo Ortis con le Mie Prigioni.

E se pensiamo alle teorie linguistiche dello stesso Manzoni, cresce a dismisura l’imbroglio. Dice bene l’Ascoli ― «Prima si aveva l’ideale della tersità classica, ora sorge l’ideale della tersità plebea». ― Tutti sappiamo che questa tersità plebea, ossia la lingua fiorentina, fu l’ideale del Manzoni. I sacerdoti galli che anatemizzano le nostre pretese falloforìe, dovrebbero vedere di non leticare prima in casa e di saldare insieme il Manzoni idealista nelle tendenze col Manzoni verista nei mezzi, prima di giudicare noi poveri piccini con criteri critici che non stanno nè in cielo nè in terra.

E con questi criteri dove si andrebbe? Nè dite che certi autori vollero appunto disgustare dal vizio dipingendolo orrido o schifoso, poichè questo fu appunto l’argomento col quale il vescovo Bandello volle scusare la sudiceria delle sue novelle e, ragionando così, sarebbe morale ed idealista anche lui. No, dite piuttosto che nelle questioni d’arte la moralità non c’entra affatto e che non è da confondere la critica della tesi colla critica della forma. A nessuno dei più sfegatati veristi cadde mai in mente che la parola d’ordine dell'arte nuova sia il rimar porcherie per convertire il mondo alla fede degli adamiti olandesi od alle pratiche di Aloysia Sigea Toletana. Se ce ne sono che scrivono così, non scrivono perchè il credo di una scuola artistica lo imponga, ma perchè a loro, come individui, quegli assunti etici paiono buoni da rimare. Non fate dunque i rimproveri vostri agli artisti, ma agli uomini; non ad una scuola che non c’è, ma ad una perversione di coscienza e di istinti che ci può essere, benchè io, miope, non la vegga. Non invocate l’epistola ai Pisoni, ma il titolo VII, articolo 420 e segg. del Codice Penale e la legge su la stampa; e credete che le scuole artistiche, se ci sono, badano solo all’arte e non alla tesi, poichè a quest’ultima ci badano la filosofia, la politica, l’economia ed altre amene scienze inventate per rompere le capaci tasche dei poveri contribuenti.

Vogliamo invece fare una critica d’arte? Non parliamo allora di moralità, di tendenze, di tesi, che non furono mai cose d’arte; ma diciamo, questo verso è zoppo, questo aspro, questa immagine falsa, questa linea sbagliata, questo colore convenzionale, questa sinfonia piena di riminiscenze, e così via. Ma non dite, come fate purtroppo, questa poesia è brutta perchè c’entra una donnaccia; poichè questa non è critica d’arte. La statua di Frine potrà essere stata immorale, ma fu bella; e le madonne del Margaritone potranno essere state moralissime, ma furon brutte. E poi si vede da lontano, che stando nel campo dell’arte e analizzando bene queste scissioni causistiche di scuole, ci sarebbero degli idealisti più veristi del Courbet.

A che cosa si riduce dunque tutto il fracasso che si fa ora nella turbolenta repubblica delle lettere? Al titolo di una commedia di Shakspeare: Much ado about nothing.

È verissimo che ci sono alcuni, specialmente giovani, che hanno tolto per impresa i bei versi del Carducci


Odio l’usata poesia. Concede
comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
palpiti sotto i consueti amplessi
stendesi e dorme;

e per togliersi dalle rime consuetudinarie hanno stimato, come Quintiliano, che tutte le parole sian dette bene al loro luogo ed hanno cercato appunto quei luoghi dove i conservatori non osavano mettere le parole ed i sentimenti veri giusto per far vedere più chiaramente la loro intenzione. Furono chiamati veristi solo per questo, che usavano la parola propria dove gli altri usavano la metafora, ed accennavano al sentimento vero dove gli altri velavano il proprio. Ma può essere una scuola questa? Se c’è chi ha cantato un’osteria colle parole necessarie a dipingerla, chiamando litro e non nappo il recipiente che si usa più spesso, direte che si è messo in una scuola piuttosto che in un’altra? Potete nell’abito dell’arte trovare che il quadro è mal dipinto: potete nel calcolo delle intenzioni deplorare che si frequentino e si cantino le osterie dove il vino è buono, ma non potete dire che quell’opera sia brutta perchè c’entra una osteria. Allora dove mi ficcate i pittori fiamminghi?

E dove mi ficcate la traduzione della Pucelle d’Orléans fatta dal Monti e venuta in luce da pochi mesi? Bel caso fu questo! Il Monti, assunto già sugli altari dell'ideale, sta per esserne precipitato, ed i filistei si alzano già in punta di piedi per gridargli raca. Bel caso!

E pure quella traduzione è fatta per bene, tanto come quella delle Satire di Persio, filistei pudicissimi. Scandalizzatevi pure, pusilli, che noi non ci metteremo al collo la pietra molare poichè, se voi svolgete quelle pagine per trovarci gli amori dell’asino con Giovanna, noi non cerchiamo sì fatte cose. Cerchiamo là quel sale attico che Aristofane versò a piene mani nelle sue libere commedie e che gli ateniesi gustarono plaudendo, essi che di quel sale attico probabilmente se ne intendevano. Quel sale attico che conservava le opere d’arte vive e fresche, mentre i dolciumi vostri passano così presto allo stantìo. Ben venga magari anche la traduzione della Guerre des Dieux di quel Parny che il Rapisardi conosce molto. Se fosse ben fatta diremmo bene; diremmo male se fosse mal fatta. Voi inorridireste in tutti i modi leggendola avidamente cogli occhi fosforescenti. Ecco intanto secondo i vostri bei canoni critici il Monti diventato verista perchè tradusse un poema allegro, non è vero? Vorreste forse negarlo?

Ma se lo negate, allora, che cosa vuol dire verista? Che copia il vero forse? No, perchè nessuno dei più scamiciati ribelli vuole abbassare l’arte all’ufficio della fotografia. Che cosa vuol dire idealista? Che cerca al di là del vero qualche cosa di impalpabile, di spirituale, come salsa per il vero stesso? Vuol dire prendere una fornaia e modificarne il ritratto sino a farne la Madonna della Seggiola? Ma tutti gli artisti, anche il Courbet, fanno a questo modo. C’è solo differenza nel modo di far la salsa; chi la fa cattolica e chi pagana, chi dolce e chi piccante, e tira via.

Ideale! Ma se questa parola significa quella cucinatura speciale del vero che fa l’artista nei suoi fornelli, tutti sono idealisti. Non lo sono più tutti quando si vuol dare una interpretazione restrittiva a questa parola e intendere per idealismo la maniera di Caio o di Tizio e per ideale la sola salsa dolce. Guardate un poco il preteso idealismo dei pittori trecentisti, quel sentimento religioso e contemplativo che si vuol vedere per forza nelle loro opere. Non è altro che ignoranza del tecnicismo dell’arte. Il sig. Toschi nella Nuova Antologia riduce alle proporzioni volute questo preteso idealismo. Ci guardino i battaglieri manzoniani, che c’è da imparare molto e da correggere i molti e i vecchi pregiudizi accademici che tutti abbiamo ancora in corpo.

Dunque?

Dunque non vi sono nè veristiidealisti.

Se mi dite che l’esser galantuomo, l’amare la patria, l’ammirare l’arte del Manzoni sono i caratteri indelebili degli idealisti, nessuno è più idealista di me. Se mi dite che ammirare le donne belle, bere il vino buono ed amare l’arte del Carducci sono i caratteri dei veristi, nessuno è più verista di me. Ma ognuno vede la verità coi propri occhi ed ha un ideale proprio.

Per esempio, l'ideale della mia donna non è quello che il Vittorelli espose nelle sue anacreontiche; il mio ideale porta un vestito grigio che costa 4,50 al metro.

Il mio ideale della patria non è l'Italia mia melodrammatica, ma un’Italia nella quale sono elettore ed ineleggibile.

Il mio ideale dei bimbi non è quello che si trova nei santini di Francia col suo bravo angelo custode che li cova sotto le ali bianche, ma è invece in due bimbi che mi tirano i capelli quando li prendo in braccio.

Saranno ideali meno sublimi, ma non meno nobili, non meno degni dell’arte, e nell’arte mi pare che ci si possa star bene anche senza frasi fatte, lucidi entusiasmi artificiali, e pudicizie d’uniforme. Il Napoleone tutto nudo che fu modellato dal Canova colla sua brava foglia ideale, non mi pare che debba escludere dall’arte i Napoleoncini del Meissonnier; e la Trasfigurazione, con tutti i suoi apostoli non esclude nessuna Kermesse con tutte le sue donnaccie.

Perchè vituperarci l’uno coll’altro mentre siamo in fondo d’accordo? Il Salmini finisce il suo Polycordon colla obiurgazione d’obbligo alle serve che mostrano le coscie veriste e poi è un ribelle anch’egli nella sostanza, nella forma e sino nel titolo. Dove sono dunque i limiti di queste pretese scuole? Quando lo Zanella, frugando tra le ceneri scaligeriane, acchiappa il tizzo che accese già le guerre letterarie per Cicerone e scrive una panzana a certi filologi tedeschi che fa veder proprio la inanità di queste battaglie idiote fra Varo ed Arminio ascriveremo il peccato ad una scuola? Non ci mancherebbe altro!

State attenti all’aforismo che vi dico e tenetelo a mente.

Non ci sono nè veristiidealisti. Ci sono degli autori che scrivono bene e degli altri che scrivono male; ecco tutto.

Perchè dunque questi due campi senza ragione? Chi lo sa? Non lo so nemmeno io che con tutta la persuasione delle loro inanità scrivo un libro contro i pretesi idealisti come già el ingegnioso hidalgo si rompea le corna contro i mulini a vento.

Non può esserci altra spiegazione che nell’istinto battagliero fatalmente necessario alle epoche di preparazione e di transizione, il quale pervade tutto, dal mestiere alla scienza, dalla politica all’arte.

Respiriamo tutti l’ossigeno ad alta dose. Domani avremo le vertigini e dopo domani o saremo guariti dai mali vecchi o diverremo l’humus necessario alla vita delle generazioni avvenire.

Che Bismark ce la mandi buona!

Basta; è ormai ora di finire.

E poi a che prò discutere? Per drizzare le gambe ai critici? Ci vuol altro! Sono essi che hanno vituperato il Carducci che è il Carducci.

Sono essi che parlarono a fior di labbra del Panzacchi affettando di metterlo dopo gli altri.

Sono essi che m’hanno applaudito quando mi credevano morto e due giorni dopo mi hanno gridato pericoloso ed immorale perchè hanno saputo che son vivo. Al morto dissero: peccato che non sia vivo! Al vivo dicono: era meglio che fosse morto!

Chi l’indovina con loro?

Si disse che questa è l’età della critica, e mi pare impossibile negarlo quando si vede un formicaio di critici così numeroso. Già chi non ha nulla da fare a questo mondo fa il critico, e quasi si potrebbe dire che la critica è la madre dei vizi come l’ozio ne è il padre.

Questa stravagante tendenza e questi ritrattini deliziosi di critici furono già molte volte descritti, ed il Carducci ne fece un quadro che il simile non lo fece Apelle. Il più bello, il più caro, il più esilerante di tutti è il ritratto del critico dogmatico, che altri fece ed io non voglio copiare. Solo ne voglio dir qualche cosa perchè è proprio il critico dogmatico quello che regna sovrano in quasi tutti i licei di questo felice regno d’Italia e ne’ giornali più larghi e più pesanti.

Si sa. Oggi la critica è necessaria. Si vive presto, non si ha tempo di leggere che un giornale appena, ed il lettore ha bisogno di trovar belli e fatti nel suo giornale i giudizi sulle opere d’arte che escono alla luce, per non esser poi reputato ignorante nei colloqui col suo prossimo, il quale studia anche lui la letteratura nel suo giornale e giudica e manda secondo il critico avvinghia.

Gli avvocati, a forza di ragionamenti, sono già arrivati a persuadersi che tutte le cause debbono esser difese, anche le più spallate, e che è dovere sacrosanto il sacrificarsi a difenderle. Lo Strepsiade di Aristofane troverebbe anche oggi, e dappertutto, chi crede dovere di coscienza l’adottare il ragionamento giusto o l’ingiusto secondo la causa, ed insegnare l’arte di non pagare i debiti a forza di dialettica. Ma siccome la legge economica della domanda e della offerta ha fatto che ormai sia più grande la produzione degli avvocati che quella delle cause da difendere, accade che molti giurisconsulti, non avendo clienti, nemmeno per le cause spallate, si sono fatti critici ed hanno portato nella critica tutto il bagaglio dei sofismi curiali. Le logodedaglie furono così innalzate alla ennesima potenza, e perchè avessero pure un fondamento di severa logica, si inventò la trionfante, la piramidale distinzione fra il bello ideale e il bello reale. Lo disser già quei meravigliosi sofisti che furono gli scolastici: saepe nega, concede parum, distingue frequenter.

Non è facile camminar spediti nello spinaio piantato da costoro. Pure si vede, così tra il fosco e il chiaro, che il bello ideale è una specie di bello assoluto, l’idea di un tipo soprasensibile e perfetto, mentre il bello reale è relativo, sensibile e perfettibile. Questa distinzione fu certo una delle più felici applicazioni dell’arte sognata da Strepsiade, alla necessità delle cause spallate. Infatti questo bello ideale ed assoluto nessuno l’ha visto, nessuno l’ha sentito e ― che vi sia ciascun lo dice ― dove sia nessun lo sa. È più facile scriverne un trattato come fece il Gioberti che darne una definizione chiara ed esatta in modo che tutti la capiscano. Ecco dunque come è facile a questi critici metafisici l’aver sempre ragione. Sentenziano essi che un’opera è più o meno bella, secondo che si accosta più o meno a questo bello ideale ed assoluto. Ammesso questo postulato, tutto è finito. Mancando un termine di confronto, poichè questo bello assoluto è l’araba fenice, la via pei difettivi sillogismi e per le sentenze dogmatiche è già spianata. Così la Pizia rispondeva invece del Nume e così certi critici seggono sul tripode ed eiaculano l’oracolo da bravi sacerdoti dell’assoluto metafisico. Così sappiamo soltanto da loro quando un’opera si accosta o si allontana dal bello ideale ed assoluto, ed il buon lettore che studia le loro sentenze dopo pranzo, non potendo far confronti per mezzo del giudizio proprio, perchè il bello assoluto non lo conosce neppur di vista, per forza deve credere al critico che fa le mostre di conoscerlo lui così bene e di esserne intimo.

Speriamo che il progresso dell’arte critica e la crescente produzione di avvocati senza cause, perfezioni questo metodo sempre vittorioso, tanto da applicarlo non solo al bello, ma a tutte le altre qualità dei corpi e delle loro forme. Speriamo di veder introdotto nella critica d’arte il verde assoluto, la sonorità ideale ed altre amene concezioni che mostreranno la fecondità del cervello umano nell’immaginare sciocchezze; fecondità non superata che dalla ingenuità di chi se la beve.

Benedetti avvocati! E pensare che sono laureato in legge anch’io!

E benedetti critici! Sono diventati tutti quaqueri! Si vede bene che se avessero le idee chiare e dovessero esprimerle chiaramente, descriverebbero l’ideale dell’arte a questo modo: Un grande prato magari nella classica valle di Tempe, pieno di letterati pecore e di critici mastini. Quando un agnello scapestra, ecco il mastino lo azzanna alle orecchie e lo riconduce entro i termini segnati dall’erma del Manzoni (priva s’intende degli ornamenti che Alcibiade troncò alle erme ateniesi). Il buon pastore intanto ammazza il tempo recubans sub tegmine fagi, soffiando nelle rustiche avene o allacciando le brache di precauzione ai montoni innamorati. Sublime ideale! Fuori dal gregge chi non crede ai dogmi! Abbaiate, mastini, alle calcagna di chi non crede possibile un identico sistema di pesi e di misure per tutte le opere d’arte da Zeusi al Morelli, da Jubal al Verdi, da Omero al Carducci. Abbaiate!...

Il sogno è arcadicamente bello, ma pur troppo calano i montoni colle brache e si moltiplicano i lupi sanculotti.

Ma, via, perchè discutere? È ora di fare. Cessiamo dalle chiacchiere che fanno perdere il tempo e lasciano ognuno nel proprio parere.

Concludo. È vero che non siamo cattolici apostolici e romani, ma non è vero che siamo corruttori, fabbricatori di veleni, Canidie, Locuste, Borgia o Brinvilliers. Eccederà la ribellione, ma eccede la reazione, e ribellione e reazione non sono che la tesi e l’antitesi dalle quali trionfante e gloriosa la sintesi proromperà.

Oh, lettor maligno, dove sei? Ti dimenticavo, poverino! Vieni qui e guardami. Ho il polpastrello del pollice sulla punta del naso ed agito le dita distese.

Così ti saluto.


  1. « ... i titoli di sgualdrina e donna da bordello col resto, sono le solite villanie di monna pezzente, di monna sucida contro le ornate e splendide cittadine; fra le quali se alcuna è di mal costume, non è onesto però l’appiccare a tutte il sonaglio e gridar per le vie che la città è tutta un postribolo. E se questo modo di ragionare non fosse ancora ben chiaro, il faremo più manifesto dicendo: che in niun tempo penuria di cattivi scrittori non fu giammai; ma che quando entrasi a giudicare dei vizi letterari di un secolo, non è sano discorso il tirare le conseguenze dal particolare al generale; nè giustizia il confondere i tristi coi buoni; nè onestà il crederli tutti tristi; nè modestia il tener in pregio unicamente sè stesso. E aggiungeremo, che, nel supposto naufragio universale delle buone lettere, reputarsi il Noè della italiana letteratura, e colla piccola sua famiglia mettersi tutto solo, come il solo innocente, nell’arca di salvazione, e gridar corrotta tutta la immensa generazione degli scrittori, e volerla tutta sommersa, è tal carità, che, non sapendo noi come appellarla, aspetteremo che il pubblico la battezzi ».
    Vincenzo Monti, Appendice al trattato Degli Scrittori del Trecento del Perticari, nella Proposta. L’Alberti prende per epigrafe della sua Polemica novissima l’ultima frase: ma, s’intende, non parla di quel che le sta sopra.
  2. GiovenaleSat. VI.
  3. Vedi nell’Emporio Pittoresco, Anno XV (1878, n. 714) il seguente sonetto ideale:

            Odi, canzoni, satira, stornello,
        Che siete or voi per quella Diva ascrea,
        Che improntata di Vero, e fida al Bello,
        Dalla Grecia nel Lazio si spandea?

            Scordate d’Ugolino e di Sordello
        Il gran cantor, che ai secoli schiudea
        Quel dritto senno, a Libertà fratello,
        Onde il Vivo a Staglien fra noi splendea.

            Levaste a realtà novello altare;
        La fiaccola febea, pura, divina,
        Spegnendo tra l’asfite lupanare.

            Con questa ippocrenea tetra piscina,
        Castalie dive, andatevi a celare,
        Schife del lezzo, che v’ammorba e inquina.


    In questa edizione ho dovuto lasciare tutto quel che stava nella prima, ma avrei lasciato indietro volentieri questo sonetto e l’allusione. L’unico avversario che mi abbia risposto da persona educata è appunto questo che ho maltrattato più degli altri e lo ringrazio e lo ammiro. (Vedi l’Emporio Pittoresco, anno XVI, 1879, n. 757).

  4. Adagio un poco! Non chiamano la Questura ma... sentite questa.
    Il professore P. E. Guarnerio stampa dallo Zanichelli (orrore!) alcuni suoi sonetti che intitola Auxilium e che dedica allo Stecchetti (abominazione!) e che combattono per questa scuola che dicono nuova (ahi! sventura! sventura! sventura!). Sentite ora un poco come un certo signor X nel numero 6673 della Perseveranza finisce un articoletto mezzo melenso e mezzo peggio: «Lavoriamo a insegnare a farne di simili (sonetti) ai giovinetti dei ginnasi, dei licei del bel regno d’Italia? È un genere di lavoro che mi pare, lo confesso, alquanto pericoloso ecc. Il Guarnerio professa in un liceo e qui c’è la personalità astiosa che tende a metterlo in sospetto, benchè il sospetto sia proceduto da un mi pare vestito da reverendo Padre. Ecco, questa sarà un’azione ideale, ma da noi, quaggiù, la chiamiamo una cattiva azione; in lingua povera poi... acqua in bocca. Intanto il professor Guarnerio per le conseguenze di quell’articolo morale ha avuto tali tribolazioni da dover buttar via il pane: e non è un signore e non ha sposato una signora. Il critico (questa volta bisogna dargli la soddisfazione di non nominarlo, perchè si chiama X) il critico conosce benissimo l’arte di accoltellare la gente nella schiena e l’adopera, ma badate però che è un critico virtuoso, oh, è uno specchio di virtù.
    Santa pudicizia, quanti delitti si commettono in tuo nome!
  5. Vedi le Lettere scritte a Giacomo Leopardi, Firenze, Success. Le Monnier 1878 pag. 158. È noto che Monaldo Leopardi era amico del generale dei gesuiti p. Roothan.

Note

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