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RECITATO
A’ CHERICI ALUNNI DEL SEMINARIO D’ASTI
PER ECCITARLI VIE PIU’ ALLO STUDIO
DELLA LINGUA LATINA
DA S. E. REVERENDISSIMA
MONSIGNOR FILIPPO ARTICO
VESCOVO D’ASTI E PRINCIPE
PRELATO DOMESTICO DI S. S. PP. GREGORIO XVI
ED ASSISTENTE AL SOGLIO PONTIFICIO
CAVALIERE DEL SACRO E MILITARE ORDINE DE’ SS. MAURIZIO E LAZZARO
nel giorno 6 luglio 1842
I PREMII
DI UOMINI CLASSICI
SULLA LINGUA LATINA
Non tam præclarum est scire latine, quam turpe nescire.
Cic. Orat. ad Brut.
Molte e discordi sono le opinioni degli eruditi intorno all’origine della Lingua Latina. Di tutte formandone sola una si potrebbe pensare così: che da prima somigliante all’origine di Roma fosse anche quella della sua lingua, cioè che da varj dialetti di que’ popoli di patria, di costumi, di lingua diversi, che abitarono la nascente Città, si formasse di necessità un linguaggio comune, il quale dai Latini che più degli altri ebbero parte nella fondazione di Roma, latino pigliasse il nome: e poi che a misura del numero, della estensione, della civiltà de’ suoi cittadini il patrimonio pure si accrescesse della lingua, da tutte le soggette nazioni, colle quali facea mestieri di usare, e spezialmente dalla Greca, il più bel fiore cogliendo. E infatti non è già da credere, che bella e perfetta nascesse la lingua latina, come sognano i Mitologi che uscisse Pallade dal cervello di Giove; ebbe anzi essa e rozzi principj e assai lenti progressi, quali aver li potea presso di un popolo nato e cresciuto fra le armi. Romolo agli schiavi o stranieri abbandonava gli studj (scrive Dionigi d’Alicarnassi) solo all’aratro o alla spada comandò che i veri cittadini addestrassero la mano: e ne’ primi cinque secoli il voler suo dal perpetuo turbamento delle guerre confermato ebbe forza di legge. Né qui vo’ ridirvi (per non istraziarvi l’orecchio) le brutte voci de’ Fauni, e l’orrido numero di Saturno, e la favella che si parlò quando le mandre di Evandro muggivano per lo foro Romano; né gli aspri accenti di Andronico, di Cecilio, di Fabio, di Fannio, di Pacuvio, di Lucilio, o d’altri vecchi scrittori della lingua latina. Valga per tutte la testimonianza di Marco Tullio, il quale confessa, che innanzi a’ tempi di Catone il Censore appena si può trovar cosa che degna sia di essere nominata per lingua; che Sergio Galba fu il primo che segnasse agli altri la via di rabbellire il sermone; che solo allora lo studio della lingua si ebbe in pregio quando l’impero di Roma fu steso intorno per ogni parte, e una durevol pace permise il vivere tranquillamente.
Diciamo adunque che nata sulle prime la lingua latina dalla mescolanza di tante diverse e certo barbare voci, povera d’ogni ornamento durò per gran tempo; finché divenuta Roma signora del mondo allora conosciuto, ella pure di signorile maestà e bellezza si vestì a dovizia; spezialmente quando la Grecia vinta volle, secondo il bel pensiero di Orazio, vendicarsi del Romano popolo vincitore ammaestrandolo benché in ceppi nelle arti belle, e facendogli ricco col proprio il suo linguaggio:
Græcia capta ferum victorem cæpit, et artes
Intuilit agresti Latio;
poiché coll’universale consentimento degli eruditi la greca lingua noi riconosciamo principalissima maestra e nudrice della latina. E già que’ primi maestri di stile diligenti in coltivare la lingua latina, a guisa di ottimi agricoltori lei primieramente tramutarono quasi pianta pellegrina da luogo selvaggio a domestico (dice l’accademico Speron Speroni): poi, perché e più tosto e più belli e maggiori frutti facesse, levandole via d’attorno le inutili frasche, in loro scambio l’innestarono d’alcuni ramoscelli maestrevolmente detratti dalla greca, li quali subitamente in guisa le si appiccarono e si fecero simili al tronco, che oggimai non pajono rami adottivi, ma naturali, onde nacquero in lei que’ fiori e que’ frutti sì coloriti della eloquenza.
Ciò premesso seguiamo la lingua latina nelle sue varie vicende. Sollevata all’ultima altezza parlò da regina nella corte di Augusto. Ma il suo Tullio previde (e il dichiarò ne’ suoi scritti) che non avrebbe durato in tanta gloria. E già subito il fasto di Lucano, e l’affettato splendore di Seneca le guastò la nativa purezza. Intanto genti straniere e barbare correano ai sette colli a porger tributo al Romano Impero. Allora col linguaggio de’ vincitori frammischiossi pur quello dei vinti in bocca degli schiavi e delle trecche sul mercato. Poi dietro alle Aquile vincitrici fu spedita anch’essa da per tutto. Così come quelle fosse stata riverita! Ma frammista al Celtico, al Gallico, al Teutonico linguaggio sonò sul labbro di Pretori, di ministri, di soldatesche Romane che le leggi non le frasi del Lazio poteano far rispettate.
Così fra genti barbare e feroci
Barbari accenti e voci
Fu dal destino a profferir costretta.
Fra tanto orrore si rifugiò all’ombra de’ chiostri e dell’are, negli atrj sacri de’ Vescovi e de’ Papi, e trovava ristoro: ché sola la Chiesa Cattolica fu sempre l’asilo di ogni sapere, e coltura. Ma Ungheri, Saraceni, o Mori d’Africa e di Spagna, e Unni, e Vandali, e Goti dall’Alpi, e dagli Apennini calarono a torrenti: e col ferro e col fuoco strussero archivj e biblioteche con quegli ultimi avanzi che nelle chiese e ne’ monasteri serbavansi, sì che consunti furono e codici e pergamene, frutto delle veglie e delle fatiche de’ pazienti e benemeriti ordini regolari. Allora appena fu più conosciuta: ché cenni e piuttosto urli che voci bastavano per chi avea la spada sempre in mano a farsi intendere ed obbedire. Tuttavia Carlo Magno le stese pietosa una mano, e già la facea rivivere insieme colle arti: ma colla sua morte morì ogni sua speranza: e si tornò a tanto orrore che per que’ papiri e per quelle cuoja de’ poveri notaj e de’ cherici non vi era più orma grammaticale, tolta essendo perfino la significanza delle parole. Giunse a tale che supplichevole passò in Germania all’Imperator Ottone un maestro di lettere chiedendo; e con Adalberto il Monaco sen ritornò all’Italia sepolta omai nella barbarie e nella ignoranza. Così povera e guasta pervenne al secolo prima del mille, secolo il più deforme ed oscuro, il più sciagurato ed ignorante che vi fosse mai. Fino il timore che coi mille anni avesse il mondo a finire gittò i popoli in tale disperazione da lasciare non che ogni studio anche ogni affare in abbandono. Ma all’uscire dell’anno millesimo cessato quello spavento ripresero vita gli studj. Notaj, cancellieri, segretarj di principi e di città la usarono novellamente; con uno stile però che faceva orrore, alle sue voci quelle mescolando de’ varj dialetti che allor nasceano, e spezialmente del volgare italiano che cominciava a fiorire. Saliva ella ancora sui pergami, ma intesa da pochi: e nel 1189 sermonando in latino il Patriarca d’Aquileja fu la sua predica ripetuta in volgare al popolo dal Vescovo di Padova. Altrove poi giunsero persino ad intrecciarla nelle prediche col volgare italiano ad ogni riga, ad ogni mezzo periodo, talché comico più ch’altro ne riusciva lo stile. Allora contenta ella di cedere il posto alla sua bella figliuola, all’italica favella, volle piuttosto divenir muta che barbara sul labbro del volgo (benché dall’unghero, dal polacco e da altri come che sia ancora la si favelli) e sen rimase sulle bocche e sulle penne dei dotti non più nel linguaggio comune, ma vivendosi ristretta nei libri.
Cessato a quest’epoca nell’Italia l’uso di parlare latinamente presso del popolo, guidati noi dalla storia ragioniamo così. La italica nostra favella che qui vediamo bambina come crebbe in tanta gloria e bellezza? Poco si sarebbe essa ampliata, né avrebbe passato i confini della sua antica, schietta e candida sì, ma pur rozza semplicità, se a quell’alto grado, ov’ella è posta, condotta non l’avessero i tre primi nostri Maestri, Dante, io voglio dire, Petrarca, Boccaccio. E come? coll’ajuto della latina letteratura (dice il grande Accademico Anton Maria Salvini) per la quale essi nell’opere toscane sopra il comune si sollevarono, e si stabilirono per esemplari a tutti que’ che verranno di grande e bel parlare toscano. E infatti le scienze e le materie gravi scrissero in latino, e il volgare non applicarono se non che alle materie amorose (dice il Gravina nella vita di Dante). E l’Alighieri in latino scrisse il libro della Monarchia, e del Volgare Eloquio, e il suo poema pure avea cominciato in latino con quel verso:
Infera regna canam supero contermina mundo.
E il Boccaccio oltre ad egloghe latine, la discendenza degli Iddii, opera laboriosa e di multiplice erudizione in 15 libri al Re di Cipro indirizzati distese nella erudita lingua latina. Il Petrarca poi tanto in latino esercitò il suo stile, che ristauratore glorioso della lingua latina e padre di quella meritò di essere riputato. Fu egli il primo (scrive il Pallavicino) che cominciasse a tergere il volto dell’abbandonata lingua latina, facendola con grazioso aspetto in versi ricomparire. Il suo poema latino sull’Africa fu il monumento più illustre della letteratura risorta dalle ruine Vandaliche ove fu per varii secoli miseramente sepolta. Non è però meraviglia che tal grido eccitasse, e la prima corona in sul Tarpeo ricogliesse. Qual luce quindi tra quelle tenebre apparir videsi, e qual astro di lieto auspizio agli ingegni non parve il poeta? Per le sue prose latine risorse l’eloquenza di Tullio, se non per vibrata e candida elocuzione, certo per forza di ardore di affetti, per colori e figure vivaci, per ordine e vigor di argomenti, per ampiezza e rotondità di periodo, per cui scrivendogli il Boccaccio nuovo Tullio il chiamava. Alle sue mani veduto avreste sempre i latini autori: che per iscoprirli ed ottenerli viaggiò non solo per l’Italia, ma in Francia, Lamagna, Inghilterra, e Grecia; e molti ne ha di sua mano copiati, e di postille qua e là ricoperti. Che se poi allo studio si diè dell’italiana favella si fu anche perché (com’egli nel 5 l. delle Senili scriveva al Boccaccio) l’alte prose e i versi dei latini erano dagli antichi recati a tanta bontà, che né per sue fatiche né per altrui nulla si poteva più aggiugnere di bellezza: del resto da’ latini fonti ei cavò il mirabile concento purissimo del suo canzoniere.
"Sì (scrive il Perticari) que’ tre grandi Riformatori videro che l’italiana eloquenza sarebbe stata tanto più illustre, quanto più si fosse accostata alla Romana; e perciò si adoperarono di sollevarla all’altezza latina. Quindi Dante nel l. 2 del volgare eloquio insegnò: per prendere abito di adoperare la costruzione, che diciamo eccellentissima, bisogna aver veduti i regolari poeti cioè Virgilio, e Ovidio nelle sue Metamorfosi, e quelli che hanno usato le prose altissime, com’è Tullio, Livio, e molti altri." E del Boccaccio lasciò scritto il Cantore della Basvilliana che dei latini si fece ardito seguitatore e trasse quella sua beatissima copia di sentenze e di forme dai sacrarj di Tullio, di Virgilio e degli altri eccellenti; ed ivi cercò parole più magnifiche ed alte, e così sollevò il linguaggio italico sino all’ultima altezza. E il Petrarca pieno d’ira magnanima sgridava acremente coloro che le bellezze non assaporavano del Lazio, così scrivendo al Boccaccio: "Che dirò di coloro che Marco Tullio dispettano? quel sole folgorantissimo di eloquenza? che si gabbano di Seneca e di Varro? che dallo stile di Sallustio e di Livio rifuggono come da cosa aspra ed incolta? Va dunque o buon Marone, va, e veglia, e suda, e lima quel tuo gran carme levato al cielo per le mani delle Muse!"Così sentivano que’ gloriosi, e così la pensarono sempre tutti que’ grandi che siedono in cima per gloria di letteratura. E la storia dal 300 fino a noi ci dimostra che siccome in Roma la lingua latina fu maggiormente in fiore quando più si coltivava la greca: così per tutta Italia quanto più si coltivò la latina e più si rese illustre la toscana favella. Perciò meglio per l’ordinario hanno scritto nell’italico idioma quegli che più perfettamente possedevano il latino, siccome, oltre i celebrati Maestri del 300 nel Bembo, nel Sannazzaro, nel Vida, nello Sperone, nel Caro, ne’ due Tassi, nel Pallavicino, nel Segneri, e in altri autori può scorgersi. Della qual verità tanta avea persuasione anche il vostro Astigiano, il Sofocle d’Italia che nel suo proemio alla traduzione di Sallustio lasciò scritto così: “Io da giovinetto induceami ad intraprenderla (vi ripeto le sue parole) sì pel trasporto che mi cagionava l’autore, sì per la necessità che forte incalzavami di meglio imparar l’italiano, poiché debolissimo latinante mi conoscea.”
Per le quali solenni autorità si fa manifesta, o Cherici dilettissimi, la necessità di porre ogni studio nella lingua latina, se così splendido esempio ci tramandarono i nostri primi maestri. E per verità se gli antichi fanciulli Romani, per testimonianza del grand’istorico Livio, apprendevano l’antichissima, e già da lungo tempo spenta lingua etrusca (nella stessa guisa che al tempo mio, dic’egli, apprendono la greca) perciocché nei libri etruschi contenevansi gli augurii, le divinazioni e le cerimonie dei sagrifizj, non forse anche per questa principalissima ragione dee chi che sia dalla prima fanciullezza studiare in quella lingua che a noi è chiave e fonte di religione, in cui ama Dio d’esser lodato, e (salvo le lingue orientali e la greca, nelle quali per venerazione della loro antichità il Romano Pontefice permette che il divino servizio si celebri) niuna delle altre lingue ha potuto alla gloria della latina aspirare, che maestosa e sacra e reverenda con tuono veramente divino e con armonia di Paradiso nella Chiesa di Dio ad ogni ora unicamente risuona e in bocca della Fede sino alla fine dei secoli risonerà. Con questa gli oracoli suoi detta il Vaticano; con questa si dibattono e si decidono nei Concilii le questioni; con questa i sacerdoti offrono a Dio pel popolo le preghiere; con questa insomma come con un celeste potentissimo incanto entra nei nostri cuori la viva e penetrante parola di Dio. Si armò, come vedeste, si armò nei secoli andati e corse più volte a danni di questa lingua con furiosi assalti la ignoranza: e per distruggerla fino dall’ultimo agghiacciato mondo calarono popoli innumerabili, strani di lingue e di costumi, e vennero in queste nostre belle Provincie a diluvj. Se non ché poterono bensì abbattere e nelle sue ruine spartirsi la sterminata grandezza, che non potea reggersi, dell’Impero Romano, e con esso dar un gran crollo alla lingua, che colle settentrionali favelle imbastardita venne poi a creare queste nostre lingue volgari: ma non potè tutto quello sforzo de’ barbari spegnerla del tutto, né allo strepito dell’armi si ammutolirono mai le voci della Sposa di Dio, che ogni giorno (per servirmi della frase Dantesca) sorge a mattinare il suo sposo.
E qui fermiamo il nostro pensiero ad una considerazione di maggior rilievo. Quale sublime idea (dice quel grande e profondo apologista il sig. Conte De-Maistre) non è quella di una lingua universale per la Chiesa universale! Da un polo all’altro il Cattolico che entra in una Chiesa del suo rito è come nella propria casa, e nulla è straniero a suoi sguardi. Appena vi giunge sente ivi tutto ciò che altrove ha inteso per tutto il corso della sua vita, può unire la sua voce a quella de’ suoi fratelli. Gli intende, e n’è inteso, e può esclamare: Roma è tutta per tutto ov’io mi trovo. La fratellanza che risulta da una lingua comune è un legame misterioso di una forza immensa. Nulla pareggia poi la dignità della lingua latina. Fu dessa parlata dal popolo Re, il quale le impresse questo carattere di grandezza unica nella storia dell’umano favellare, e di che le lingue stesse le più perfette non hanno giammai potuto far uso. Il vocabolo maestà appartiene al latino. La Grecia lo ignora; ed è soltanto per la maestà che restossi al di sotto di Roma, tanto nelle lettere come nelle armi. Nata all’impero questa lingua impera tuttora nei volumi di quelli che la parlarono. È questa la lingua dei Romani conquistatori, e quella dei Missionarj della Chiesa Romana, conquistatori delle anime assai più gloriosi. Infatti Trajano, per cui fece l’ultimo sforzo la potenza romana, non potè frattanto estendere la propria lingua che fino all’Eufrate. Il Pontefice Romano l’ha fatta sentire alle Indie, al Giappone, alla China. La lingua latina è la lingua dello incivilimento. Armati di questa lingua gl’inviati del Romano Pontefice si portarono in traccia di quei popoli che più non venivano a Roma. Questi gli ascoltarono a parlare nel giorno del loro Battesimo, né più hanno quel linguaggio dimenticato. Si porti lo sguardo sopra un mappamondo; si segni la linea ove questa lingua universale si tacque; ivi pure sono i termini della civiltà e della fratellanza europea; al di là non si troverà che la spezie umana la quale per tutto fortunatamente s’incontra.
L’impronta Europea è la lingua latina. Le medaglie, le monete, i trofei, i sepolcri, gli annali primitivi, le leggi, i canoni, i monumenti tutti parlano latinamente. Farà dunque mestieri cancellarli, o non più oltre prestar loro l’orecchio? Lo scorso secolo che infierì sopra tutto ciò che havvi di sacro e venerabile, non risparmiò la guerra alla latinità. I Francesi che pretendono dar norma, dimenticarono presso che affatto un tal linguaggio, segue a dire il de-Maistre. Sono giunti a dimenticare se stessi fino al segno di farlo scomparire dalle loro monete; e pare che non si avveggano ancora di un tal delitto commesso nel tempo medesimo contro il buonsenso Europeo, contro il gusto e la religione. Gli Inglesi stessi, sebbene tenaci di loro usi, incominciano ad imitare la Francia. Contemplate i piedestalli delle loro statue moderne: non vi troverete più quel gusto severo col quale furono incisi gli epitaffi di Newton, e di Cristoforo Wren. Invece di quel nobile laconismo leggerete istorie in lingua volgare. Il marmo condannato a cicalare piagne quella lingua d’onde quel bello stile provenivasi, che fra tutti gli altri primeggiava pel nome, e che da quel sasso ov’era scolpito slanciavasi nella memoria di tutti gli uomini. Dopo di essere stata lo stromento della civiltà, non mancava alla latinità che un genere di gloria ch’ella acquistò divenendo la lingua delle scienze. Ne usarono i Genj creatori per comunicare al mondo i loro grandi pensieri. Copernico, Kepplero, Cartesio, Newton, e tanti altri molto interessanti benché meno celebri, hanno scritto in lingua latina. Istorici, pubblicisti, Teologi, Medici, Archeologi arricchirono l’Europa di opere latine di ogni genere. Poeti e letterati di primo ordine resero alla Romana lingua le antiche sue forme, e la rialzarono a tal grado di perfezione, che non cessa di formare la meraviglia di quelli cui è dato di poter paragonare i nuovi scrittori ai loro modelli. Sola fra tutte le lingue morte quella di Roma è veracemente risorta, e vive immortale. Il grande autore del Telemaco diceva, che "rispetto alle Dame medesime, amerebbe bene di far loro imparare il latino per intendere l’ufficio divino, come imparavano la lingua italiana per leggere poesie amorose." (Lib. educ. delle fanciulle.)
Inoltre è da osservarsi, che la lingua latina è la lingua della liturgia della Cattolica Chiesa di Occidente; e che la liturgia a parlar propriamente non è altro che il culto reso pubblicamente alla Divinità. Essa trae origine dal Principe degli Apostoli divinamente inspirato. La Chiesa sancì ne’ suoi canoni l’uso della lingua latina nella sua liturgia. I Romani Pontefici ne furono sempre i vindici ed i custodi. I Padri della Chiesa ne furono pure i conservatori gelosi, e i difensori invitti: poiché si mantiene con essa l’unità del rito della Chiesa, di cui una è la Fede, uno il Battesimo, e la Chiesa stessa è una. La divina provvidenza affidò a questa lingua il deposito sacro della fede, e gli oracoli dello Spirito Santo emanati dai Concilj, e dalla Santa Sede Apostolica. Per questa disposizione divina la lingua del mondo romano è divenuta quella dell’universo cattolico, e l’organo permanente della Chiesa immutabile come la religione non è punto soggetta a quelle variazioni che spessissimo snaturano le lingue; posta fuori della signoria degli uomini, la corruzione non valse mai ad oscurarne lo splendore. Una lingua variabile non sarebbe adattata ad una religione immutabile. Il movimento naturale delle cose attacca costantemente le lingue vive. La corrutela del secolo s’impadronisce ogni giorno di certi vocaboli, e per ispassarsi li corrompe. Ora se la Chiesa favellasse colla nostra lingua potrebbe dipendere da qualche sfrontato il rendere ridicola o indecente la più sacra parola della liturgia. Sotto qualunque siasi immaginabile rapporto adunque la lingua religiosa debb’essere sottratta al dominio dell’uomo. La guerra stessa che dopo Lutero fecero e fanno alla lingua latina i Protestanti ci fa conoscere di quanta importanza sia promuoverne lo studio, e difenderne la conservazione.
Ma tornando a guardare questa lingua divina coll’occhio semplicemente del letterato, se a buon dritto tanto ci alletta colla sua gravità, dolcezza, sonorità, leggiadria la presente Italiana favella, pur queste sue virtudi ella debbe in grandissima parte riconoscere dalla sua genitrice della quale ella rappresenta a meraviglia i nobili tratti, i vaghi colori e i bei lineamenti. Sì, quel lustro, quella fiamma, quel brio, quel forte scintillar de’ concetti, quel componimento piano insieme e magnifico, se non si accatta da maestri della elocuzione latina (insegna il grande accademico Anton Maria Salvini) malagevolmente potrà essere nello scrivere e nel ragionare Toscano. Tesoro di questo bel dire e copioso sta ne’ lor libri racchiuso e seppellito. In questi dobbiamo noi penetrare, e cavar fuori le gemme e le ricchezze del favellare del Lazio, per adornarne il nostro dolce idioma vago erede e bel successore di quello. E riconoscendo la lingua latina per lingua della religione, lingua delle scienze e dell’eloquenza, lingua comune delle nazioni, lingua finalmente madre della nostra, e che non ha della nostra figliuola a lei più somigliante e più cara, verremo coltivando la bella madre a far onore nello stesso tempo alla sua non men bella figliuola. Ché qui non vi parlo io di una lingua straniera. La latina anch’ella è nostra, come si è detto, nacque nell’Italiche contrade, e vi fiorì insieme coll’antico impero del mondo. Per lei, anche dopo che ammutolì nel comune linguaggio, divennero immortali i nostri Italiani Pontano, Sannazzaro, Vida, Ceva, Fracastoro, Flaminio, Navagero, ed altri non pochi. E vorremo noi che que’ gloriosi che ci precedettero ci divengano quasi stranieri? Che per intenderli la maggior parte abbisogni spesso d’interprete? Che noi stessi ci prepariamo ad esser barbari e non intesi dai nostri nepoti? E sofferir si potrà che una corruzion lenta, e nei principj non avvertita renda col tempo non usabile e non intelligibile la natia favella, ch’è il commercio de’ pensieri, la perenne vita degl’intelletti? Così facendo noi saremmo a peggior condizione che non sono quelli oltre il mare, e di là dell’Alpi ond’è chiusa l’Italia, li quali esaltano e riveriscono sommamente la nostra lingua latina, e tanto ne apprendono quanto possono adoperare l’ingegno. Scorrete col guardo, dice il Perticari tutta la gran famiglia degli scrittori, e vedrete che quanti aspirarono ad una classica fama, e la ottennero, tutti posero studio nella imitazione de’ Latini. E giacché gli esempi sono lo specchio di tutte cose recherò qui alcuni luoghi più distinti de’ nostri classici italiani, ne’ quali la imitazione risplende de’ latini scrittori. Così potrò anche ristorarvi alquanto l’orecchio coll’armonia de’ loro versi immortali.
Come da Greci i Latini, così dagli uni e dagli altri ma spezialmente dagli ultimi seppero i classici nostri italiani con sapientissimo accorgimento cavare, come da ricca miniera, tesoro di bei pensieri e di frasi, e in guisa che sembra in molti luoghi non altro abbiano fatto che vestire d’italiche forme i latini concetti. E per dire alcuna cosa di soli quattro principalissimi maestri di lingua, e vissuti in tempi diversi, udite come Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso sapessero delle spoglie del Lazio andar lieti e superbi.
Cominciamo dall’Alighieri. Confessò egli stesso aversi posto ad esempio in iscrivendo il gran Virgilio là dove a lui si rivolse cantando
Tu se’ lo mio maestro, e lo mio autore
Tu se’ solo colui da cui io presi
Lo bello stile che mi ha fatto onore.
E in fatti vedetene un breve saggio. Da lui apprende a ritrarre con due pennellate maestre il nocchier della livida palude. Udite:
......... Charon cui plurima mento
Canities inculta jacet: stant lumina flamma.
Un vecchio bianco per antico pelo
Che intorno agli occhi avea di fiamme ruote:
Quisquis es armatus qui nostra ad limina tendis
E tu che se’ costì, anima viva,
Umbrarum hic locus est somni noctisque soporae,
Partiti da cotesti che son morti
Corpora viva nefas Stygia vectare carina
Più lieve legno convien che ti porti.
E volendo narrarci il calare che fanno nella barca l’anime contro alle quali il barcajuolo mena il remo addosso perché non vadano a rilento
Batte col remo qualunque si adagia,
piglia da lui la viva similitudine del fioccar giù delle foglie riarse dal freddo primo autunnale
Quam multa in sylvis autumni frigore primo
Lapsa cadunt folia....
Come di autunno si levan le foglie
L’una appresso dell’altra infin che il ramo
Rende alla terra tutte le sue spoglie.
Da Virgilio tolse il volar lieve e rapido delle colombe
Radit iter liquidum celeres nec commovet alas
Con l’ale aperte e ferme al dolce nido
Volan per l’aer....
Da Virgilio il vano strigner dell’ombre vuote:
Ter conatus ibi collo dare brachia circum
Ter frustra comprensa manus effugit imago.
Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
E tante mi tornai con esse al petto.
Ma passiamo al Cantore di Laura che fu tenero tanto degli scrittori del Lazio, e che come vedeste non risparmiò a viaggi, a spese, a veglie, a fatiche per cavarli fuor dell’obblio ov’erano stati sepolti dai barbari. Qual è mai quel classico poeta latino al suono della cui lira temperato non abbia quel bel cigno mirabilmente la sua? E Virgilio, e Orazio, e Ovidio, e Lucrezio, e Tibullo, e Properzio, e Catullo, e Giovenale, e Lucano. Vi recherò per amore di brevità pochi esempi di alcuni, benché molti ne potessi in ciascuno. Ruba Petrarca a Virgilio e fa sue le affannose cure di Didone, la sua fuga, il parlar rotto, il subito silenzio
Vulnus alit venis, et cæco carpitur igni
E nelle vene vive occulta fiamma.
Incipit effari, mediaque in voce resistit
Più volte già per dir le labbra apersi
Poi rimase la voce in mezzo il petto.
....... Atque in verbo vestigia torsit
Col fin delle parole il passo volse.
Miserere animi non digna ferentis
Miserere del mio non degno affanno.
Così ciò che Orazio dice a Lalage, Francesco va ripetendo a Laura
Pone me pigris ubi nulla campis
Arbor æstiva recreatur aura
Quod latus mundi nebulæ, malusque
Juppiter urget: etc. etc.
Pommi ove il sole occide i fiori e l’erba
E dove vince lui il ghiaccio e la neve:
Pommi ov’è il carro suo temprato e lieve
E dov’è chi cel rende e chi cel serba: ecc. ecc.
Cantò Tibullo sulla sua lira
Et faveo morbo cum juvat ipse dolor
e Petrarca sulla propria
Catullo
e Petr.
Il mal che mi diletta e non mi dole.
In vento et rapida scribere oportet aqua,
Solco onde, e in rena fondo, e scrivo in vento.
Ardeat ipsa licet tormentis gaudet amatis
Talor si pasce degli altrui tormenti.
Nonne vides etiam guttas in saxa cadentes
Humoris longo in spatio pertundere saxa?
Che poco umor già per continua prova
Consumar vidi marmi e pietre salde.
Jacet aggeribus niveis informis et alta
Terra gelu late........
Quâ sol pallescens haud unquam discutit umbras,
Una parte del mondo è che si giace,
Ma sempre in ghiaccio ed in gelate nevi
Tutta lontana dal cammin del sole
Là sotto i giorni nebulosi e brevi.
E notate che trecento e più luoghi io trovai dove il Petrarca non dai versi solo, ma dalle sentenze de’ prosatori latini seppe cavare vantaggio come da Cicerone cedo fortunæ et manum attollo:
Or lasso alzo la mano e l’arme rendo:
e da Seneca Misericordiæ genus est cito occidere
Un modo di pietà è occider tosto:
e da Lucio Floro: Ut victor Romanus de cruento flumine non plus aquæ biberit quam sanguinis:
....... Quando assetato e stanco
Non più bebbe del fiume acqua che sangue.
Che dirò poi di quel Grande che cantò
Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori,
Le cortesie, l’audaci imprese.....
di Lodovico Ariosto vero esempio di Omero, anzi della natura, come chiamavalo Monti? Egli per giudizio di Torquato Tasso non d’altronde se non dalla lunga pratica degli eccellenti Scrittori Latini, acquistò un esatto gusto del buono e del bello, ed arrivò a quel segno nel poetare eroicamente a cui nessun moderno, e pochi fra gli antichi son pervenuti. Vedete un bel fiore ch’ei colse negli orti Catulliani, fiore che olezza d’una fragranza beatissima, e tale che solo basterebbe per supplire ad altri esempli che potrei recarvi di quel suo altissimo canto. È la similitudine d’una fanciulletta innocente:
Ut flos in septis secretus nascitur hortis,
Ignotus pecori nullo contusus aratro
Quem mulcent auræ firmat sol educat imber......
Sic virgo dum intacta manet........
La verginella è simile alla rosa
Che in bel giardin sulla nativa spina
Mentre sola e sicura si riposa,
Né gregge né pastor le se avvicina:
L’aura soave e l’alba rugiadosa
L’acqua la terra al suo favore inchina......
Bella è pure la comparazione ch’ei tolse da Stazio:
Ut lea quam sævo fætam pressere cubili
Venantes Numidæ natos erecta super stat
Mente sub incerta: torvum ac miserabile frendens
Illa quidem turbare globos, et frangere morsu
Tela queat sed prolis amor crudelia vincit
Pectora, et in media catulos circumspicit ira.
Com’orsa, cui l’alpestre cacciatore
Nella petrosa tana assalit’abbia,
Sta sopra i figli con incerto core
E in suono freme di pietà e di rabbia:
Ira la invita e natural furore
A spiegar l’ugne a insanguinar le labbia,
Amor la intenerisce e la ritira
A riguardare i figli in mezzo all’ira.
Ultimo ci attende il Cantore della Gerusalemme. Vi taccio qui della imitazion sua dei Greci, e spezialmente di Omero. Coi soli Latini ci abbiam proposto di fare il paragone. Or bene. Virgilio nel 10 lib. dell’Eneide così ci fa veder Venere:
Tum Dea nube cava tenuem sine viribus umbram
In faciem Æneæ (visu mirabile monstrum)
Dardaniis ornat telis; clypeumque, jubasque
Divini assimulat capitis: dat inania verba,
Dat sine mente sonum, gressusque effingit euntis.
E il medesimo fa Torquato della sua Clorinda nella stanza 59 canto 7.
Questi (cioè Belzebù) di cava nube ombra leggera
(Mirabil mostro) in forma d’uom compose,
E la sembianza di Clorinda altera
Gli finse e l’armi ricche e luminose:
Diegli il parlare, e senza mente il noto
Suon della voce, e il portamento e il moto.
E nella stanza 42 Canto 15 descrive un loco simile a quello che pingea Marone nel 1° dell’Eneide:
Est in secessu longo, locus, insula portum
Efficit objectu laterum, quibus omnis ab alto
Frangitur inque sinus scindit sese unda reductos,
Hinc atque hinc vastæ rupes geminique minantur
In cælum scopuli;
Luogo è in una dell’Erme assai riposto
Ove si curva il lido, e in fuori stende
Due lunghe corna, e fra lor tiene ascosto
Un ampio seno, e porto un scoglio rende
Che a lui la fronte, e il tergo all’onda ha opposto
Che vien dall’alto, e la respinge e fende.
S’inalzan quinci e quindi, e torreggianti
Fan due gran rupi segno a naviganti.
E lo stesso orrore che vide Virgilio nel suo l. 8 d’una battaglia navale il veggiam noi nel canto 16.
...... Pelago credas innare revulsas
Cycladas, aut montes occurrere montibus altos:
Tanta mole viri turritis puppibus instant.
Stupea flamma manu, telique volatile ferrum
Spargitur: arva nova neptunia cæde rubescunt.
Svelte nuotar le Cicladi diresti
Per l’onde, e i monti coi gran monti urtarsi:
L’impeto è tanto onde quei vanno e questi
Co’ legni torreggianti ad incontrarsi.
Già volar dardi e faci, e già funesti
Vedi di nuova strage i mari sparsi.
E nella stanza 4 del Canto 1 tolse a Lucrezio quella bella comparazione che si legge nel Lib. 1.
Ac veluti pueris abscinthia tetra medentes
Cum dare conantur prius oras pocula circum
Contingunt mellis dulci flavoque liquore,
Ut puerorum ætas improvida ludificetur
Labrorum tenus, interea perpotet amarum
Abscinthi laticem, deceptaque non capiatur
Sed potius tali facto recreata valescat.
Così all’egro fanciul porgiamo aspersi
Di soave liquor gli orli del vaso:
Succhi amari ingannato intanto ei beve
E dall’inganno suo vita riceve.
Ma siccome Cristiano argomento ei trattava così più volentieri si fe’ imitatore del Vida Vescovo di Cremona che lo avea preceduto poetando di mezzo secolo appena: del Vida Cremonese
D’alta facondia inessicabil vena
come esaltollo Ariosto nel suo Orlando Furioso. Ora udite per ultimo il più bel furto che mai si facesse alla poesia da un poeta. È la descrizione del concilio dei demonj nel canto IV adunati per congiurare contro i Cristiani, che Torquato prese dalla Cristiade del Vida, poema latino da lui cominciato per eccitamento di Leone X e compito per esortazione di Clemente VII, Pontefici ambedue grandi mecenati della lingua latina, per cui l’Italia vide rinascere il bel secolo di Augusto. Cantò il Vida
Protinus acciri diros ad regia fratres
Limina (concilium horrendum) et genus omne suorum
Imperat. Ecce ingens igitur dat buccina signum,
Quo subito intonuit celsis domus alta cavernis,
Undique opaca ingens; antra intonuere profunda;
Atque procul gravido tremefacta est corpore tellus:
e Torquato Chiama gli abitator dell’ombre eterne
Il rauco suon della tartarea tromba:
Treman le spazïose atre caverne,
E l’aer cieco a quel romor rimbomba;
Né stridendo così dalle superne
Regïoni del cielo il folgor piomba,
Né sì scossa giammai trema la terra
Quando i vapori in sen gravida serra.
Continuo ruit ad portas gens omnis, et adsunt
Lucifugi cætus, varia atque bicorpora monstra,
Pube tenus facies hominum; verum hispida in anguem
Desinit ingenti sinuata volumine cauda;
Tosto gli Dei d’abisso in varie torme
Concorron d’ogni intorno all’alte porte;
Oh come strane! oh come orribil forme!
Quant’è negli occhi lor terrore e morte!
Stampano alcuni il suol di ferin’orme
E in fronte umana han chiome d’angui attorte,
E lor s’aggira dietro immensa coda,
Che quasi sferza si ripiega e snoda.
Gorgonas hi sphyngasque obscæno corpore reddunt
Centaurosque hydrasque illi ignivomasque chimæras,
Centum alli scyllas, ac fædificas arpyas,
Et quæ multa homines simulacra horrentia fingunt:
Qui mille immonde arpie vedresti, e mille
Centauri, e Sfingi, e pallide Gorgoni;
Molte e molte latrar voraci Scille,
E fischiar Idre, e sibilar Pitoni,
E vomitar Chimere atre faville,
E Polifemi orrendi e Gerïoni:
E in nuovi mostri, e non più intesi o visti
Diversi aspetti in un confusi e misti.
Poi dipinge cogli stessi colori del Vida l’orrida maestà di Plutone
Ipse rudi fultus solio nigraque verendus
Majestate sedet.....
Orrida maestà nel fiero aspetto ecc.
e colle stesse parole sprona a vendetta gli spiriti d’Averno
Tartarei proceres, cælo gens orta sereno,
Quos olim huc superi mecum inclementia Regis
Ethere dejectos flagranti fulmine adegit.....
Tartarei Numi, di seder più degni
Là sovra il sole, ov’è l’origin vostra,
Che meco già dai più felici regni
Spinse il gran caso in questa orribil chiostra:
....... Quæ prœlia toto
Egerimus cælo, quibus olim denique utrimque
Sit certatum odiis, notum: at meminisse necesse est
Ille astris potitur partem et plus occupat æquo
Ætheris, ac pœnas inimica a gente recepit.
Gli antichi altrui sospetti e i fieri sdegni
Noti son troppo, e l’alta impresa nostra:
Or colui regge a suo voler le stelle,
E noi siam giudicati alme rubelle.
....... pro syderibus, pro luce serena
Nobis senta situ loca, sole carentia tecta
Reddidit, ac tenebris jussit torquere sub imis
Immites animas hominum, illætabile regnum
Haud superæ aspirare poli datur amplius aulæ.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
In partemque homini, nostri data Regia cæli est.
Ed invece del dì sereno e puro,
Dell’aureo sol degli stellati giri,
N’ha qui rinchiusi in questo abisso oscuro,
Né vuol che al primo onor per noi si aspiri.
E poscia (ahi! quanto a ricordarlo è duro!
Questo è quel che più inaspra i miei martiri)
Ne’ bei seggi celesti ha l’uom chiamato,
L’uom vile e di vil fango in terra nato.
Né qui sulla fine tralascierò (quantunque mi sia proposto di recarvi avanti i soli quattro Maestri sopra indicati) il facile Metastasio, che così bene tradusse que’ due distici di Tibullo, anzi che così bene li fece suoi.
Spes etiam valida solatur compede vinctum,
Crura sonant ferro sed canit inter opus.
Spes alit agricolas, spes sulcis credit aratis,
Semina quæ magno fœnere reddat ager.
Con me nel carcer nero
Ragiona il prigioniero,
Si scorda affanni e pene
E al suon di sue catene
Cantando va talor.
Perché gli son compagna
L’estivo raggio ardente
L’agricoltor non sente,
Suda ma non si lagna
Dell’opra, e del sudor.
Ma si depongano omai le latine cetre e le italiche. Né già che io mi avvisi con simili esempj detrar punto alla gloria di que’ sommi maestri che vi mostrai aversi con tanto artifizio dell’altrui spoglie vestiti, poiché l’opere loro furono a tanta altezza levate che né lode, né censura potrebbe più levare o aggiungnere nulla alla loro fama. Né del numero intendo io farvi di quel miserabile imitatorum servum pecus abborrito da Flacco; ma sibbene celebrare l’esempio di que’ gloriosi che pigliando da tutti, come vedeste, la parte più bella del parlare giunsero a crearsi uno stile che si può dire tutto lor proprio; come fece Annibal Caro quell’ape di tutti i bei fiori di lingua, come chiamavalo il cantore della Basvilliana, che nel suo immortale volgarizzamento dell’Eneidi sullo stelo dei fiori di Marone ne suscitò mille altri d’altro colore, e di odore purissimo e soavissimo, così che freschi, cari, ed eterni saranno sempre la delizia dell’italica lingua. Deh! che non abbiano gli stranieri ad oltraggiare l’Italia dicendo ch’essa è la terra delle ricordanze. È debito d’alti ingegni (scrisse Monti) amar la patria principalmente in quelle cose che non pendono né dal ferro né dalla fortuna (e son queste la latina lingua e la italica) onde (ei segue a dire) vengane certa vergogna a que’ vili cui parve poco il deporre l’italiano animo se con esso non deponevano ancora la nativa favella. Né vorrà certamente, l’Italia, madre feconda di gloriosi ingegni la sacra eredità ripudiare dei Latini Scrittori, né tampoco l’onta chiamarsi sopra delle straniere nazioni, e quell’acre rimprovero onde il severo Cantor dei Sepolcri la giusta sua bile un giorno così sfogava:
Te nudrice alle Muse, ospite e Dea,
Le barbariche genti che ti han doma
Nomavan tutte; e questo a noi pur fea
Lieve la varia antiqua infame soma.
Che se i tuoi vizj e gli anni e sorte rea
Ti han morto il senno ed il valor di Roma,
In te viveva il gran dir che avvolgea
Regali allori alla servil tua chioma.
Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
Reliquie estreme di cotanto impero.
Anzi il toscano tuo parlar celeste
Ognor più stempra nel sermon straniero,
Onde più che di tua divisa veste
Sia il vincitor di tua barbarie altero.
Orsù dunque, la grave armonia di Virgilio, la splendida magnificenza di Tullio, la facondia lattea di Livio, l’immortale velocità di Sallustio, la nitidezza di Cesare, la facilità maravigliosa di Ovidio, la natia lepidezza di Fedro, la candida perspicuità di Cornelio Nipote, il nerbo di Orazio, la soavità di Catullo, lo spirito di Properzio: in somma la grandezza, la forza, l’acume, l’eleganza de’ Latini Scrittori ci faranno ricchi di nobili concetti e di pellegrine forme di dire. Oltre a che leggendo i Latini Scrittori, non già di un popolo (scrivea Anneo Floro) ma dell’uman genere si apprendono i fatti; così distesamente portò il Romano impero le armi per tutto l’orbe: così a stabilirne la sua signoria han gareggiato il valore e la fortuna.
Voi specialmente, o Cherici, che dedicati alle scienze sacre dei Volumi Divini e dei Santi Padri dovete formare le caste vostre delizie, dovete pure alla lingua in cui sono scritte consacrare i vostri studj come a lingua veramente vostra. Della Bibbia, considerata anche come fonte inesausto di originali letterarie bellezze vi ho già parlato altra volta: ed ora qui sul fine allo studio vi eccito de’ Padri, e Dottori della Chiesa, di que’ lumi del mondo, che i lunghi giorni, e le vegliate notti sacrando al celeste volume vi dedicarono pure i tesori delle loro menti. Non tutti sono modelli del bello stile latino, dell’età d’oro, perché vissero nelle posteriori che di argento, e di ferro presero il nome: quantunque anche per lingua sieno distinti e Cipriano di cui l’eruditissimo s. Girolamo lasciò scritto, che instar fontis purissimi dulcis incedit ac placidus; e specialmente Lattanzio chiamato dallo stesso Dottore fluvius eloquentiæ Tullianæ, e dal voto universale dei dotti Christianus Cicero. Sono però tutti maestri di quella lingua sacra latina, che intessuta di frasi scritturali è la più acconcia e sicura per trattare latinamente le scienze morali e teologiche, ed è poi la più ricca di ogni altra per aprirci i fonti della sacra italiana eloquenza; poiché non vuote parole o ciancie canore ma trovate nei Padri la maestà e la vivacità de’ concetti, la forza e la sublimità delle figure, il nerbo e la unzione del discorso, insomma quella maniera feconda di tutti i tesori del dire che soggioga l’intelletto, rapisce la fantasia, domina il cuore; così affollati e densi (userò le frasi del Bartoli) così gravidi e fecondi di mille pensieri, di mille svariate e tutte nobili guise di stile sono gli scritti di que’ foltissimi e santi ingegni, nei quali tale è il vigore dell’esprimere magnanimi sensi, che non vi par leggere una morta scrittura, ma udire in essa vivo il loro spirito immortale.
Non vi sia dunque alcuno per quantunque fornito di lettere e di senno che si rechi a vergogna lo stendervi la mano per arricchirsene (conchiude lo stesso) se la stesero quei grandi che sono i maestri di color che sanno.