Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.


DELLE TRADUZIONI






Tentavit quoque rem si digne vertere posset.
Hor.



Chiunque in abito modesto di traduttore si reca al cospetto della republica letteraria ode non di rado suonare d’intorno le voci pedante, pedanteria, voci usate a facilità di sentenziare, e a dire: tal fatta di lettere essere indizio di povero ingegno, di sterile fantasia; non ire accattando alle altrui porte chi può vivere del proprio; buon pittore non prodigar colori in ritrarre altrui pitture; non appartenere veramente le traduzioni alla classe delle arti belle; che dove non è inventiva, non è bell’arte; potersi comportarne l’uso a giovani nazioni, a giovani uomini, che nel tirocinio si adusano ai voli della fantasia, come fa chi nuotando con la corteccia ne’ placidi fiumi impara a combattere quando che sia i perigli delle marittime fortune. In fine il secolo fastidito di baie canore volere essere altamente ammaestrato, o cordialmente commosso, per lo che, lasciata da banda la caccia delle eleganze sì care alla semplicità degli avi, dovere filosofi e poeti con sublimi dottrine, e con maravigliosi parti di ardente fantasia rispondere alla publica aspettazione. A tali ragionamenti tengono dietro vivaci similitudini: fiori, che nel viaggio perdono ogni freschezza, liquore, che travasato svanisce, copia di pittura, rovescio di ricamo. Questa sentenza publicata da tale, che nel secolo scorso fu terzo fra vivi eccellenti poeti Italiani, venne come voce data dal tripode di Delfo. Virgilio là dagli Elisi chiamato per una stessa cortina rispose: trovarsi nella Divina Commedia versi non più che cinquanta meritevoli di vivere, doversi il rimanente alle fiamme. Erano in quel tempo le nostre lettere infestate da neologismo, che uscito di Francia visitò quasi tutte le scuole d’Italia. Col più famoso di ogni generazione di lettere, che là vivesse, usò il Bettinelli, e forse imparò da lui ad apprezzare il massimo de’ nostri scrittori; se non che il signor di Voltaire si mostrò più benigno a quel Grande, nel cui poema non lasciava di ammirare il canto di Francesca da Rimini, e quello del Conte Ugolino. Angusto e macro giudizio da perdonare ad uomo straniero all’Italia. Appartengono que’canti a genere tragico. L’ardore degli affetti, lo splendore delle imagini, la vaghezza delle descrizioni, la nobiltà delle voci, il pomposo retorico o politico atteggiamento sono mezzi, pe’ quali l’epicotragica magniloquenza si partecipa, e si apprende agevolmente all’intelletto e al senso di civili nazioni. La Gerusalemme Liberata, i drammi di Pietro Metastasio oltre il mare e le alpi da ogni gentil persona sono letti e piaciuti più che la Divina Commedia, più che l’Orlando Furioso, poemi, ne’quali abbondante è l’uso di tropi grammaticali, e parco il condimento di retoriche figure. Lo stile comico, che in sè riceve vocaboli provinciali e talvolta municipali, più copioso e meno conosciuto non si lascia intimamente sentire, nè dirittamente estimare di là da’ confini delle native contrade. Lo stesso celebrato Francese sentenziò non essere possibile cosa, mettere le Georgiche di Virgilio ne’ versi di qual si voglia lingua moderna. Egli poscia in bella prova nel suo patrio sermone ebbe ricevuta risposta giusta a non giusta sentenza. Imperocchè non si ha da comparare una con altra favella, ma con sè medesima, con sue intrinseche doti, e con la virtù di coloro, che toccando le possibili cime di perfezione sè ed essa nobilitarono. Non è da guardare di qual fucina sia l’armatura, nè di qual tempra, ma se chi la indossa nell’ore del combattimento sappia in essa mostrarsi aiutante. Io non sono, nè penso che altri sarà per essere di un avviso col celebre Traduttore di Ossian, il quale tiene, che lingue antiche e moderne siano tutte quante di una efficacia e di un valore. Ma se le lingue sono figlie del clima, se nudrite e rette da buoni studi, noi viviamo in quel felice, in cui nacquero Cicerone, e Virgilio, in cui risorsero le scienze, le lettere, le arti, noi dotati di favella, che surta la più perfetta dalla ruina delle antiche, alla sintassi, alla inversione, alla copia, al concetto si manifesta consanguinea della latina.

Veramente meglio che umana parve la sorte di coloro, che privilegiati da natura, ammaestrati dall’arte ottennero quel nome, che Orazio a sè negando concedeva a colui,

          “Cui mens divinior atque os
          Magna sonaturum”

A questi debitamente le prime onoranze. Però non senza segni di lieta accoglienza furono in quella Roma accettate le fatiche di chi fe’ comuni al materno linguaggio non pochi tesori della greca eloquenza. Cecilio, Pacuvio, ed altri trasportarono sul teatro latino tragedie e commedie greche. Plauto e Terenzio seguirono si d’appresso le poste di Epicarmo e di Menandro, che ne furono tenuti più che imitatori. Demostene, Eschine, Senofonte, Arato, Callimaco, Saffo per opera di Cicerone e di Ovidio e, se non è vana la congettura del celebre Ennio Quirino Visconti, i Treni delle Eroine di Pindaro nelle Eroidi di Ovidio ebbero cittadinanza romana. Racconta Orazio, che il Romano in pace dopo la fine della guerra punica si piaceva in cercare, e vestire di latino paludamento le tragedie di Tespi di Eschilo e di Sofocle:

     “Et post punica bella quietus quaerere caepit
     Quid Sophocles, et Thespis, et Aeschilus utile ferret;
     Tentavit quoque rem si digne vertere posset,
     Et placuit sibi”.

E per dir de’ nostrali, le vite de’ Ss. Padri esemplari di locuzione italiana, sono volgarizzamenti di latino. Si loda in voce di aurea la vena di Annibal Caro e di Angelo Firenzuola, pe’ quali alle italiche letterarie dovizie si accrebbero l’epico poema di Virgilio, il romanzo di Longo Sofista, e la favola milesia dell’Apuleio. Ora l’esame delle sentenze, e delle similitudini, che citai di sopra, mi sarà materia a continuare il ragionamento. Dettato, che per venustà sappia destare piacevolmente il lettore, non può essere frutto che di arte bella, se già da questo numero non si vogliano tenere escluse le belle lettere. Ciascuno, che tanto quanto ebbe presa domestichezza con esse, e massime con poesia, non ignora come ella si piaccia di linguaggio dagli altri singolare, il quale non s’impara per altro modo, se non con udire, che trovar si debbe nella virtù della propria imaginativa, nella velocità del proprio ingegno, e negl’intimi penetrali del proprio senso educato allo specchio de’ migliori esemplari; lo che, se avvegna, registra il dicitore nella schiera de’ cultori delle arti belle. In questa schiera Orazio raccolse l’opera de’ traduttori, mentre ad essi diede loco, e precetto in quel codice del buon gusto, la lettera ai Pisoni. Egli, che ringraziava la verace Parca di avergli conceduti spiriti di greca Musa, si piaceva di adattare a corde latine suoni di greca lira. Ne fanno testimonianza un epigramma di Callimaco inserito nella satira seconda del libro primo, e in ode un carme di Alcéo, di cui poche relique ci ha serbate Atenéo.

So, e mal volentieri lo dico, che questa lodevol arte fu talvolta a noi invilita da prove illaudate; colpa forse il facile metro di lingua, nella quale si nasconde un canto, e una più facile speranza di non incorrere le sorti di Volusio, e di Mevio. Chi non sa, nè può a meraviglia esprimere i propri concetti non isperi potere a sè sopravvivere ritraendo gli altrui. Ovunque sia usanza e pregio di amene discipline, non si avrà penuria di chi abusando il tempo e le lettere rassegni alla infamia del ridicolo il più bello de’ nomi, la più nobile delle arti, unica sola degnata all’onore dell’arbore trionfale. Biasmo comune ad ogni ragione di studi, de’ quali è solo imputare l’abuso. Approvo, che di colesti si dica ire alle altrui porte accattando. Or chi dirà, che del proprio non vivesse Virgilio quando dentro a sue carte toglieva scene di tragedie greche, fantasie e versi di Omero, di Esiodo, di Teocrito, o quelli di Ennio, di Lucrezio, di altri latini, e la favola alessandrina del pastore Aristeo in oro purissimo convertiva? Dante, che di parsimonia e di lima vince Ovidio, da cui toglie la descrizione della Fenice? Angelo Poliziano, che a quelle stanze più che d’altro ricche di testura elegantissima innesta concetti di Erodoto, poesie di Omero, di Virgilio, di Stazio, di Claudiano? Torquato Tasso, che per l’artificio ed accozzamento di luoghi tratti in gran copia dagli autori antichi rende novo, e meraviglioso? Ariosto, che tante e bellissime fra le belle espresse da Catullo, da Orazio, da Virgilio, da Stazio le ottave:

     La verginella è simile alla rosa . . . .
     Qual timidetta damma, o capriola . . . .
     Sta su la porta il re d’Alghier . . . .
     Come purpureo fior languendo muore . . . .
     Qual’orsa, che l’alpestre cacciatore . . . .

e largamente da Ovidio le querele di femine abbandonate da perfidi amatori, e le ipotipósi di tempeste marine fatte più mirabili per giudiciosa sobrietà? Esempi sono questi, pe’ quali non lice senz’altro esame conchiudere: chi toglie a ritrarre in propri colori prose o poesie altrui si chiama egli stesso per suo fatto aver difetto d’ingegno e di fantasia. Infine è pregio di poetica inventiva ovunque lo stile accada conforme alle regole dell’arte.

Non è ragione costringere in confini di tempo, e privare un’arte bella di qual sia diritto conceduto a legittimo genere di studi. Chiamo di tal nome quello, che per osservata prescritta usanza visse celebrato ad ogni civile nazione. Era in piena età la consolare e imperiale Roma, quando il più eloquente degli oratori, il più elegante de’ poeti amavano l’arte di cui ragiono; e non erano giovani le nazioni, nè giovani i famosi, che recarono nel patrio idioma poemi e favole della Grecia e del Lazio, Firenzuola, Caro, Marchetti, Bentivoglio, Monti, Pindemonte in Italia; Brebeuf, Delille in Francia, Pope in Inghilterra, Woss in Germania. Taccio di viventi, ai quali non io:

                    . . . . . . Detrahere ausim
Haerentem capiti multa cum laude coronam.

Lo stesso egregio scrittore, che ebbe portata quella opinione, non ricusò di scrivere, e di raccogliere in altre pagine: Essere da pochissimi il tradurre, come quello, che domanda perizia e ingegno raro = recare d’una in altra favella opere eccellenti di eccellenti ingegni essere il maggior beneficio, che far si possa alle lettere = Chi lo stimò modo di amplificarne il patrimonio, e di provvedere al materno sermone nuove dovizie, nuove grazie. Fu chi disse le traduzioni profittevoli alle lettere, come i viaggi agl’ingegni. Il sig. d’Alambert pensava doversi a buon traduttore comunemente con l’autore i primi onori. Quell’acuto e terso ingegno del conte Magalotti era in forse quale del comporre e del tradurre fosse maggior negozio. Il Bettinelli giudicò più facile il primo. Credo che quel dubbio, e quel giudizio sia nato di qui, che in quanto al vestire di abito onesto qual si voglia subbietto, gli scogli, ai quali si suole offendere, più sovente si fanno incontro al traduttore, che all’autore. Questi salta ciò, che pena a significar degnamente secondo suo concetto; quegli costretto a seguire dovunque le poste del suo duce debbo movere in cammino sì facilmente, sì liberamente, che non paia guidato da forza di legami, de’ quali chi lascia vedere le vestigia sentirà assimilato il suo lavoro a rovescio di ricamo.

Se traduzione altro non fosse, che buona copia di buon modello, sarebbe in prezzo agli amatori di tali amenità. Giulio Romano espresse la effigie di Papa Giulio da quella pennelleggiata dall’Apelle di Urbino; si stette in forse a qual pennello attribuire la palma. Dotti archeologi sono di parere, che l’Apollo, la Venere, il Laocoonte, sieno rinnovamenti di archetipi celebrati. Vero è, che i greci scultori non adoperavano tanto in trovare quanto in condurre a più perfette le trovate forme. Sia di ciò come altrui aggrada. Altra intanto io stimo essere la faccenda di chi ritraggo pitture, altra ben altra quella di chi trasporta poesie in suo linguaggio. Atti, linee, colori là si vogliono tutti uno, lodati a misura che all’esemplare indifferenti; qua, salvo il disegno, altri colori, altri animi, altre ingenue grazie native. A chi serbar volesse le medesime forme, usare le medesime frasi, annoverarele stesse parole, ben si aggiusterebbe la mala voce; che fu ricordata da principio. Quindi è, che niun termine delle mentovate similitudini mi sembra percuotere nel vero, ad onor del quale è d’uopo stabilire altrimenti la comparazione. Pittore, a cu’ avvegna di stampare, animare, colorire il concetto descrivendo scene, componendo drammi, ne’quali spiri il Genio di Omero, di Virgilio, di Dante, si assida, che n’è degno, a costa di epici e tragici poeti; ma quando inchina la mano a dipingere la fronte, gli occhi, l’aria della faccia di persona viva, allora l’arte sua va di un modo con quella di chi prende ad esprimere in proprie note concetti, e modi commessi a cetra, in cui vivono gli spiriti, de’quali si volle mostrar la sembianza; nell’altro e nell’un caso avvi esemplare; ancorchè rendere la imagine dell’anima è pure assai più difficile impresa.

Non i fiori, il verde stelo si conduce a mettere altrove radici, dalle quali altre foglie, altri colori hanno da nascere, e nacquero talvolta più belli, ove trovarono più bontà di terreno, e più diligenza di cultore. Non va quel liquore di vaso in vaso, ma in suo proprio si crea, e senza altro rischio si toglie in carte, alle quali per niun decreto è interdetto poter meritare di essere serbate in custodia di cedro odoroso, e di levigato cipresso.

Se valor di poeta, e merito di poesia consiste principalmente nella inventiva delle cose, perchè i volgarizzamenti fatti dal Caro sono sì noti agli ornatori delle italiane lettere, e l’Acerba di Cecco d’Ascoli, la Teseide del Boccaccio, l’Orlando del Boiardo, il Giron Cortese dell’Alamanni, l’Amadigi di Bernardo Tasso, ed altri poemi non pochi, a pochi sono letti o conosciuti? E sì che in quelli nè lingua nè cose nè armonie si lasciano desiderare. Penso, che alla veduta publica li nasconda il difetto di luce, che dall’aspettazione è promessa. In che consista questa luce e quest’arte, che per intervallo non breve divide la poesia dalla metrica prosa, non è qui loco a disputare; pure accennerò parermi riposta nello studio e nella perizia di mostrare la predicata idea in tale faccia, che fra le possibili sia secondo il vero per apparire la più nuova, la più bella. Per quali vie la mente s’innalzi a tanto, sarà materia di altro ragionamento. Or qui è dove si apre a traduttore campo di far prova di sua inventiva nell’indagar compensi, nel crear modi, che meglio si possono sentire nell’animo, che discorrere con l’intelletto; nè già da quelli, che furono dall’autore trovati, si può tuttavia cavar giovamento; sovente la diversità, o la povertà tanto non concede a ciascuno idioma.

Si disputa da taluni se al genere classico o romantico sieno da riferire i canti di Francesca da Rimini e del conte Ugolino; ivi lacrimosi, ivi domestici i casi, ivi nè l’ombra manco di greca mitologia. Quale che sia il genere, a cui piaccia di riputare que’ canti, vero è, che portati dalla fama vanno per la mente e per le bocche de’ nostrali e degli esteri. Non avviene altrettanto de’ casi di Giulietta Cappelletti e di Romeo Montecchi, e sì che sono pieni di lacrime e di pietà, sono domestici, sono quante si vogliono cose; sarebbon essi al tutto ignorati, se talvolta la scena non li riducesse per poco alla nostra memoria. Perchè questo divario? Perchè altri colori usò l’Alighieri, altri il Bandello. Sono i colori, che stampano nella mente imagine degli obbietti, e fanno a scritture meglio, che la vernice della porpora a’ panni. Per lo che piaccia a chi piace la nebbia e la bufera de’ monti di Calidonia più che il sereno e la calma delle colline di Arcadia, e gli scherzi delle Fate e de’ Silfi più che il sorriso delle Muse e i vezzi delle Grazie, se dagli spiriti dell’une e delle altre non saranno accompagnati, quegli scherzi e quelle bufere condurranno i loro amatori incontro a naufragio, del quale non sono lungi dall’età e dalla memoria nostra famosi esempi; non perchè natura fosse ad essi stata scarsa madrigna, ma perchè l’arte seco non cospirò.

Ingegno veloce, larga erudizione, sottile giudizio possono scorgere a bene ordire macchina di epopeia, di tragedia, di poema, qualunque; ma lì non consistono le parti e l’opera di poeta. L’opera e le parti del poeta cominciano allora, che viene il tempo di stender la mano a colorire, ad animare, ad incarnare il disegno. Qui la fatica e qui il pericolo della impresa. Aristarchi antichi e moderni noti nel nome di Omero-mastighi trovarono ove emendare la macchina, ed altre parti della Iliade sino a mutarne il titolo in quello della morte di Ettore. La publica indignazione ab antico ebbe punita tanta tracotanza, allorchè nel tipo della apoteósi:

     Di quel signor dell’altissimo canto

effigiò i malaccorti censori in figura di topi appiè la cattedra rodenti le carte venerande. Crederò vero il giudizio di Orazio “alcuna volta si addorme il buon Omero„ ma crederò ad un tempo, che, se il poema fosse dettato nello stile de’ Dionisiaci, di Nonno Panopolita, o de’ Paralipomeni di Quinto Calabro, non sarebbe intervenuto ciò che si racconta di un grammatico, che avendo tolto a notarne i versi più belli, alla fine si avvide averli notati tutti quanti. Altri disse essere troppo lungo e poco simile al vero un racconto, che empie lo spazio di ore nella letizia di un convivio; Enea render figura di fondatore di religione anzi che di guerriero deduttore di colonia; lo sposo di Lavinia più che il pio Troiano meritevole della vittoria; la macchina della Divina Commedia nel compreso delle bolge d’inferno, secondo lo stile delle arti in quel secolo, angusta e macra verso la grandezza dell’argomento; perfetta quella della Gerusalemme Liberata. Or chi de’ nominati sale in più fama di poeta? Lo stile eccellente è ciò, che determina la eccellenza dell’artefice e dell’arte. Traduttore, che bene e meglio in ciò sia provveduto, stringendosi al paragone non sarà vinto, e saprà talvolta uscir vincitore.

Fin qui di sentenze vociferate in dispregio dell’arte, di che tolsi a disputare, delle quali parmi avere svelata la fallacia quanto basti a non perder speranza di poter cogliere in quel campo una qualunque foglia di alloro; quanto basti a temperare i fastidi di chi tenero unicamente degli autori si reca a schivo l’opera de’ traduttori; e potrebbe per avventura far sovvenire di quel cotale, che in Parnaso alla presenza di Apollo altamente piangea delle Decadi di T. Livio perdute, e interrogato dallo stesso Apollo se le superstiti avesse lette, rispose che no mai.

Sarebbe adesso da dire a dilungo delle vie dell’arte e del debito dell’artefice, le quali cose toccherò brevemente. Cicerone là dove nel libro degli ottimi oratori discorre il modo da sè tenuto nel mettere in latino le contrarie nobilissime orazioni di Demostene e di Eschine, distingue l’officio di interprete da quello di traduttore “Non enim converti ut interpres, sed ut orator iisdem sententiis et earum formis tamquam figuris, verbis ad nostram consuetudinem aptis, in quibus non verbum pro verbo necesse habui reddere„ e altrove “nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut interpretes indiserti solent„ Quintiliano soggiunge “Neque ego paraphrasim esse interpretationem tantum volo, sed circa eosdem sensus certamen atque aemulationem„ Se dai tempi del Consolato e della Dittatura a quelli di Augusto, e degli altri Imperatori non si cangiò il significato delle voci “interpres interpretatio„ è chiaro che interprete è quello, che tien dietro alle parole, e traduttore alle sentenze; quindi piana mi è la spiegazione del verso della poetica di Orazio:

     Nec verbum verbo curabis reddere fidus
     Interpres.

E tu che prendi a volgere cose poetiche d’una in altra lingua non dovrai farla da interprete, che stretto alle parole ad una ad una le rende. Per tal modo mi sembra potersi terminare la controversia, che fu ed è intorno al senso del verso citato. Quindi si può conchiudere che negli scritti insegnativi di scienze e di arti conviene tenere officio d’interprete, e di traduttore in quelli, ove accade di affrontare oratore ad oratore, poeta a poeta. A seconda di questi dettami G. B. Gelli lasciò scritto “Si debbe cercare nel tradurre oltre all’essere fedele di dire le cose più ornatamente che si può„ intendi fedele alle sentenze, altrimenti non avrebbe luogo l’adornezza del dire. Bene a tale avviso si conformò Annibal Caro, che fin ora non si lasciò vincere da chiunque si attentò cacciarlo di nido; nol fu, e penso nol sarà, se prima la nostra lingua non rinnova le forme e i modi. Vincenzo Gravina vi antepose il Beverini, ma il publico giudizio poco curando la piacevolezza delle rime si tenne al pregio di più squisita eleganza. Il conte Algarotti si avvisò di chiamare quello scrittore a sindacato in latinità. Di dottrina di lingua italiana propria alla Epopeia era da costituire il tema del giudizio. So bene, che perfetta dottrina di amendue le favelle è legge posta a traduttore, non sì che giudice debba obliare l’avviso Oraziano “quando in carme la bellezza è il più, alle piccole macchie non si ha da guardare„. Parea che alla severità del conte Algarotti non dovesse sfuggire una qualche nota sopra la monotonia sempre nemica al ritmo, e massime a quello del verso sciolto. Forse non se ne addiede, o non volle egli stesso di propria mano recidere i suoi vigneti.

Qui farò fine non senza notare, che buone traduzioni di buoni esemplari sono agevole scala alla conoscenza del bello delle lettere a vivi caratteri scolpito in essi. Chi si professa di poeta o di filologo là bisogna tendere i nervi della mente, là volgere i passi, e là come in cima di salita posare; più oltre è precipizio. Per tale avviso Monarchi gloriosi sostegno e decoro delle arti lodevoli ebbero care ed onorate le opere di eccellenti greci scrittori fatte latine da eccellenti ingegni italiani; guiderdone a merito di fatica, che scarso lucro partorisce di sterile lode. Per tale avviso Principe generoso emalo della volontà del Fondatore della Fiorentina Accademia decretò, che opere di greci e di latini scrittori recate nel nobile illustre idioma italiano fossero tuttavia ricevute in numero di candidate alla vittoria di alloro non infecondo sentenziata da’suffragi di giudici eletti; ma sentenza di giudici contemporanei (qual che ne sia lo perchè) non sempre fu, non sempre sarà suggellata da più matura della giusta posterità. Se fu tempo di volgere il secolo a studio di lettere migliori, questo mi sembra veramente, nè so modo più buono che dall’una parte favore di Principi, dall’altra esempi vivi. I vivi esempi di Gasparo Gozzi, di Scipione Maffei, di Francesco Redi, di Eustachio Manfredi, di Francesco Zanotti, e di altri magnanimi pochi, meglio che l’aspro-sonante flagello di Giuseppe Baretti tennero vivo l’onore di nostre lettere, tennero desta una scintilla, aperta una via, per la quale altri valorosi entrando vinsero la pessima consuetudine, che signoreggiando la favella tenebrava la luce di nostra letteratura; e chi non l’ama chi non la onora non sa quanto ella spiri all’anima valore, quanto sia leggiadro vincolo di società, non sa che cosa sia affetto patir o quanta parte di gloria e di carattere nazionale sia in lei contenuta. Nembo peregrino fiede le coste e le cime del greco-latino-italiano Parnaso; minaccia di abbattere trofeo, che fu con lungo studio e con felice ardimento piantato a nostra età. I belli dicitori sono vilipesi in voce di venditori di rancide parolette, il bello stile riputato vanità; e non sanno questi innocenti che vanità diverranno le cose non conformate a perfetta eleganza. Nobili cose in abito ignobile sono verso le lettere ciò, che rozzi marmi e bronzi al cospetto delle arti. In vero quanto la materia è più pronta a rispondere, tanto più bella e durevole in sè riceve la forma. Se il giogo di Pindo senza la scorta del bello stile fosse per avventura possibile a salire, appianata non che addolcita ne sarebbe l’asprezza; ma l’arte andrebbe spenta, o alla condizione ingloriosa de’ mestieri adeguata. Lo bello stile apre le porte della gloria e della immortalità, per esso dottrina, ingegno, civiltà di genti sfavilla, anili favolette, cose non cose, sanno vivere e fiorire per esso. La ragione le condanna, la fantasia le assolve. La voce, che in mal punto giugnesse a desertare la Classica scuola, sarebbe cenno a chiuder l’entrata a studio di belle lettere e di belle arti nate di un ceppo sempre congiunte partecipi sempre di una sorte, testimone e misura di gentilezza di nazioni; sarebbe mano a spezzare la pietra Lidia, l’Archetipo del Bello, a cui la ragione universale o vogliam dire la filosofia non può sopperire senza indurre setticismo interminabile, senza fondar laberinto, da cui non saprebbe uscire chi fosse entrato, costretto alla fine a cercare la via del ritorno là donde fu fatta la mala dipartita. Si rassicuri però ogni buon zelatore di nostra avita fama letteraria. Inviando lo sguardo intorno da Lilibeo alle Alpi scorgerà in ogni lato qualche animoso, che veglia a guardia di quei lauri, di que’ fonti, di quel colle amabili stanze, di più amabili Ninfe. Sembra fatale alla specie umana, che di ogni cosa, ed anche di ciò che è bello e buono, abbia in lungo andare a venir sazietà. E credibile, che non tardi si prenda a fastidire quello, che non è nè bello nè buono. Di tanto ne affida la sorte di altro secento, che trapassò.




Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.